Le prospettive della web tax

il fenomeno dell’e-commerce sta creando distorsioni a livello di fiscalità internazionale perchè tende a localizzare l’imposizione nei paesi (spesso scelti per convenienza delle aliquote fiscali applicate) dove ha sede l’azienda che fornisce i servizi: per ovviare a questo problema a livello europeo si sta ipotizzando una web tax che tassi i servizi nel paese dove realmente si realizzano

Commercialista Telematico | Software fiscali, ebook di approfondimento, formulari e videoconferenze accreditateEurispes ha recentemente concluso una ricerca in tema di tassazione dell’economia digitale.

Il raggiungimento degli obiettivi che la ricerca si era posta hanno richiesto una metodologia ad hoc, strutturata su diverse procedure di indagine, tra cui:

– un censimento dei soggetti economici attualmente coinvolti nel fenomeno;

– questionari

– interviste a rappresentanti delle società del settore.

Attraverso un’indagine CAWI (Computer Assisted Web Interview), condotta su un campione nazionale, è stato quindi indagato il livello di conoscenza e utilizzo da parte degli italiani degli strumenti dell’economia digitale, considerata nella sua dimensione, estesa sia all’acquisto di beni e/o servizi attraverso l’e-commerce, che all’utilizzo di servizi legati al mondo della Sharing Economy.

L’indagine ha altresì consentito di analizzare l’opinione degli italiani rispetto al tema della tassazione delle società dell’economia digitale che realizzano utili nel nostro Paese, ma che hanno residenza legale (e fiscale) in altri Stati, sondando il giudizio rispetto alla possibilità di introdurre una cd. digital o web tax nei confronti di questi operatori economici.

Ciò che è risultato è comunque che, per affrontare fenomeni come quello dell’economia digitale e i suoi riflessi fiscali, occorre adottare una nuova prospettiva.

Internet e il commercio elettronico favoriscono, infatti, modalità di creazione del reddito immateriali e potenzialmente senza confini.

Come impedire dunque, in un tale contesto, una facile evasione fiscale, con, peraltro, rilevantissimo impatto finanziario sulle casse erariali?

In questo contesto un ruolo centrale è senz’altro assunto dai pagamenti, oltre che dalla definizione di “una presenza digitale significativa” dell’impresa nell’economia del territorio di uno Stato diverso da quello di residenza.

Alla luce dei risultati della ricerca, la soluzione alla problematica dell’introduzione di un’eventuale digital tax, è stata dunque quella di indicare le seguenti direttrici:

  • Una più efficace modalità di individuazione delle stabili organizzazioni occulte, basata su parametri presuntivi predeterminati, individuando magari il requisito della territorialità (e quindi l’obbligo dell’imposizione) in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d’affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato. E questo anche in linea con l’impostazione della normativa Iva, laddove il Reg. UE n. 1042/2013, dall’1 gennaio 2015, ha infatti stabilito che per tali tipi di prestazioni l’Iva si paga nel luogo di stabilimento del committente (mercato di riferimento).

  • La possibilità, da parte dei soggetti esteri, di fornire una prova contraria, in grado di superare l’efficacia presuntiva di tali parametri, anche attraverso un procedimento di contraddittorio con l’Amministrazione Finanziaria;

  • l’applicabilità, in caso di mancato superamento delle presunzioni, di una ritenuta alla fonte sulle transazioni finanziarie, attraverso il coinvolgimento dei soggetti incaricati di eseguire i pagamenti verso soggetti non residenti per l’acquisto di beni e servizi acquisiti per via digitale.

Non si dovrebbe trattare quindi di una nuova tassa (anche se si parla di web tax), ma di una specifica previsione antielusiva, che consenta di individuare (semplicemente agevolando l’azione accertativa) la stabile organizzazione occulta in Italia. E non vi sarebbero ostacoli ad una tale previsione, tanto meno di compatibilità con i patti convenzionali.

Lo stesso modello Ocse (a cui tutti i trattati si conformano) prevede infatti, con formula di chiusura, che “le disposizioni dei paragrafi precedenti del presente articolo non pregiudicano l’applicazione delle disposizioni interne per pervenire l’evasione e l’elusione fiscale”.

Il Commentario Ocse ha preso inoltre posizione sulla tematica del rapporto tra norme convenzionali e norme interne antielusive, osservando che le disposizioni contro l’abuso fiscale non sono influenzate dalle convenzioni in quanto dette regole sono estranee alla materia considerata dalle convenzioni fiscali.

E peraltro anche la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4272 del 23 febbraio 2010, ha espressamente stabilito che, a monte del problema di quale previsione applicare, se quella Convenzionale o quella nazionale, è d’obbligo sempre verificare l’eventuale uso distorto ed abuso delle Convenzioni in funzione di pianificazione fiscale aggressiva.

E del resto, sottolinea giustamente la Corte, tale impostazione trova conferma nell’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale, la quale, con le due sentenze n. 348 e n. 349 del 24 ottobre 2007, ha chiarito che le disposizioni pattizie, in quanto richiamate dall’art. 117 primo comma della Costituzione, costituiscono nel nostro ordinamento fonti di rango sub-costituzionale.

E dunque, pur avendo un rango gerarchico superiore rispetto alle leggi ordinarie, i trattati restano comunque subordinati alla Costituzione e, quindi, non possono violarne i principi, tra cui anche l’art. 53 della Costituzione.

Una soluzione analoga a quella proposta alla fine della ricerca è peraltro, a ben vedere, anche già presente nel nostro Ordinamento normativo, laddove il comma 927 dell’art. 1 della Legge di Stabilità 2016 ha introdotto una analoga previsione nel caso delle sale giochi clandestine “camuffate” da centri elaborazione dati.

La Legge di Stabilità ha infatti in quel caso predisposto un meccanismo (accertativo) di individuazione della stabile organizzazione occulta del soggetto estero, da identificarsi nel CTD (al verificarsi di determinati presupposti) con cui è stato firmato il contratto di ricevitoria.

E dunque, qualora i flussi finanziari, intercorsi tra il gestore e il soggetto non residente, superino, nell’arco di sei mesi, 500.000 euro, l’Agenzia delle entrate dovrebbe convocare in contraddittorio tali soggetti, i quali possono fornire prova contraria circa la presenza della stabile organizzazione (occulta).

Una volta però riscontrata, tramite il suddetto procedimento di accertamento, la presenza in Italia della stabile organizzazione occulta, a seguito di specifica segnalazione, gli intermediari finanziari dovrebbero applicare, come forma di riscossione anticipata, una ritenuta a titolo d’acconto, nella misura del 25 per cento sugli importi delle transazioni verso il beneficiario non residente.

Il condizionale è però d’obbligo, dato che, ad oggi, ancora mancano i provvedimenti attuativi che possano rendere operativa quella previsione normativa.

Un meccanismo analogo, con gli opportuni correttivi, sarebbe comunque senz’altro efficace anche nel caso dell’economia digitale.

E i tempi sembra che siano finalmente maturi.

Recentemente, come noto, si è assistito infatti ad un unanime favore, anche in sede internazionale, per l’introduzione di una web tax.

Chi scrive, da anni, su giornali e riviste, condivide questo favore.

Tuttavia, almeno fino ad oggi, non sembrava che il clima fosse così unanimemente favorevole.

Le osservazioni tecniche contrarie alla proposta di web tax infatti sono note, anche perché sono state spesso esposte sulla stampa, specializzata e non.

C’era infatti chi sosteneva che, in presenza di un trattato contro le doppie imposizioni, una modifica unilaterale del concetto di stabile organizzazione potrebbe risultare vana, poiché le multinazionali estere potrebbero invocare il principio della prevalenza delle disposizioni pattizie sulle norme interne e dunque “colpire” le multinazionali del web sotto tale profilo sarebbe stato inefficace.

A parte il fatto, però, che una soluzione normativa di stampo solo procedurale, in funzione antielusiva, che non modifichi il concetto sostanziale di stabile organizzazione, per quanto sopra detto, non sarebbe soggetta a tale “pericolo”, tale criticità sembra poi avere influenzato anche il recente DL 50/17, che ha previsto che la tassazione a carico delle multinazionali del web non debba avvenire per norma impositiva nazionale, ma con una sorta di accordo negoziale, una specie di autosottomissione al pagamento dell’imposta, su base però esclusivamente volontaria.

Tale soluzione, comunque da apprezzare laddove ha posto l’attenzione sul fenomeno, sembra tuttavia legata ad una criticità, a ben vedere, giuridicamente infondata.

La normativa italiana, infatti, dispone già oggi, senza bisogno di alcuna modifica unilaterale, che, pur in assenza di una stabile organizzazione “formale” nel territorio italiano, i redditi conseguiti siano da considerare come imponibili nello Stato in cui la prestazione è effettuata, anziché in quello di residenza, se, nella sostanza, è possibile individuare sul territorio italiano una stabile organizzazione occulta.

E infatti già oggi, come noto, sulla base dell’attuale disciplina sostanziale di stabile organizzazione (e non di definizioni de iure condendo), sono state sollevate varie contestazioni ed accertamenti, per centinaia di milioni di Euro, a diverse big company del web, le quali, pagando almeno una parte del contestato, hanno, di fatto (e anche di diritto, a ben vedere), ammesso l’esistenza di tale stabile organizzazione.

La previsione introdotta dal DL 50/17 rappresenta quindi senz’altro un buon inizio, ma non certo la conclusione del percorso.

Anche considerato che il 7 giugno scorso è stata firmata la Convenzione multilaterale di recepimento delle raccomandazioni Beps, con nuove, più efficaci, regole proprio in tema di stabile organizzazione, ora in corso di recepimento nell’ordinamento nazionale.

E nella prossima legge di bilancio, infatti, a recepimento di tali nuove disposizioni internazionali, dovrebbe rientrare anche una modifica all’art. 162 del Tuir, in tema appunto di stabile organizzazione, chiarendo che:

  • vi è un concetto di controllo valido esclusivamente per definire la presenza di una stabile organizzazione nel nostro Paese, evidenziando che un soggetto è strettamente correlato ad un’impresa se, tenuto conto di tutti i fatti e di tutte le circostanze rilevanti, l’uno ha il controllo dell’altra, ovvero entrambi sono controllati da uno stesso soggetto;

  • vi è la possibilità di individuare una stabile organizzazione laddove un soggetto agisca, nel territorio dello Stato, per conto di un’impresa non residente, concludendo abitualmente contratti stipulati in nome dell’impresa, senza modifiche sostanziali da parte di quest’ultima (si norma dunque in via positiva il concetto di stabile organizzazione personale, fino ad oggi di derivazione meramente giurisprudenziale)

  • vi è la possibilità di individuare una stabile organizzazione laddove siano stipulati contratti relativi al trasferimento della proprietà o alla concessione del diritto di utilizzare o alla fornitura di servizi, senza la necessità che il commissionario abbia il potere di concludere i contratti in nome e per conto del soggetto estero;

  • e soprattutto viene introdotto un limite alla frammentazione delle attività, non essendo più valutata l’attività svolta dalle singole società del gruppo, ma l’attività complessiva risultante dalla combinazione delle attività svolte dalle diverse imprese del gruppo nello stesso luogo o da imprese strettamente correlate site in luoghi diversi.

La nuova definizione e disciplina in tema di stabile organizzazione spiana naturalmente la strada, rendendola molto più semplice, alla soluzione sopra indicata in tema di web tax, concludendo un percorso iniziato in realtà già con la Legge Delega per la riforma fiscale (L. 11 marzo 2014, n. 23), nella quale era stata espressamente prevista l’introduzione di sistemi di tassazione delle attività transnazionali, ivi comprese quelle connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati meccanismi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale, tenendo conto delle raccomandazioni degli organismi internazionali e delle eventuali decisioni assunte in ambito comunitario, nonché di analoghe esperienze maturate in altri Paesi.

E una delle opzioni finora allo studio da parte dell’OCSE all’interno del citato Piano d’azione sull’erosione fiscale e sul fenomeno del Profit Shifting, era del resto rappresentata proprio dall’applicazione di una ritenuta alla fonte sulle “transazioni digitali” (Cfr. Public Discussion Draft – BEPS Action 1: Address the tax challenges of the digital economy, Cap. VII (Potential options to address the broader tax challenges raised by the digital economy), par. 3.4 (Creation of a Withholding Tax on Digital Transactions), OECD, 2014).

In sostanza, una ritenuta alla fonte ai pagamenti effettuati da soggetti residenti in un Paese, all’atto dell’acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider estero.

E la stessa OCSE proponeva peraltro modifiche all’art. 5 del Modello di convenzione, di modo da “adattarlo” al fenomeno del commercio elettronico, magari creando un nuovo criterio di collegamento basato su “una presenza digitale significativa” dell’impresa nell’economia del territorio di uno Stato diverso da quello di residenza, oppure elaborando un concetto autonomo di “stabile organizzazione virtuale”, che si basi ad esempio sulla disponibilità di un sito internet, oppure sulla conclusione di contratti per il tramite di un agente che agisca con mezzi di tecnologia informatica.

Alla volontà tecnica, anche internazionale, deve dunque ora solo seguire quella politica (soprattutto nazionale).

7 novembre 2017

Giovambattista Palumbo