E' legittimo l'accertamento che parte da un'indagine penale

oggi analizziamo il caso inverso a quello tipico degli accertamenti tributari: la Cassazione considera legittimo l’avviso di accertamento emanato sulle informazioni di illeciti tributari raccolte durante indagini indipendenti della Procura della Repubblica

sherlockLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14476 del 15.7.2016, ha espresso considerazioni di rilievo in tema di legittimità di accertamento basato su delega della procura della Repubblica utilizzata come segnalazione di illeciti tributari.

Nel caso di specie la CTR, confermando la decisione di primo grado, aveva respinto l’appello dell’Agenzia delle entrate, evidenziando che l’Amministrazione aveva agito sulla base di una delega di indagini proveniente dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pinerolo, in violazione delle norme sull’accertamento tributario.

Tale delega, per le sue caratteristiche, ad avviso dei giudici di merito, non poteva infatti considerarsi semplice segnalazione, anche considerato che l’Agenzia aveva utilizzato documenti e notizie non portati a conoscenza della parte, quali una consulenza disposta dal P.M. di Pinerolo, processi verbali di accesso presso terzi, documentazione trasmessa dalla Procura all’Agenzia delle entrate di cui le parti non erano a conoscenza.

Infine la CTR evidenziava anche che l’autorizzazione all’acquisizione di documentazione bancaria rilasciata all’Agenzia dalla Direzione Regionale era viziata perché richiamante il contenuto della richiesta dell’Ufficio, a sua volta motivata sulla base della delega della Procura della Repubblica.

Contro tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso per cassazione, censurandola, tra le altre, per violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, sostenendo che la motivazione della sentenza impugnata era solo apparente nella parte in cui, affermando la violazione dell’art. 7 L. n. 212 del 2000 da parte dell’Amministrazione per avere la medesima fondato gli accertamenti su documenti e notizie ignoti alla parte o comunque non portati a sua conoscenza, riproponeva la motivazione resa in proposito dai primi giudici senza tenere in alcun conto il contenuto dell’impugnazione proposta sul punto dall’Agenzia.

La censura, secondo la Corte di Cassazione, era fondata.

I primi giudici avevano ritenuto infatti che gli atti posti a fondamento dell’accertamento non erano stati portati a conoscenza dei contribuenti, e che quindi v’era stata violazione del loro diritto di difesa e l’Agenzia aveva fatto appello su questo punto, adducendo invece una effettiva conoscenza degli atti da parte dei soggetti coinvolti dall’accertamento perché per ogni accesso erano stati redatti verbali di contraddittorio ed inoltre perché la consulenza disposta dalla Procura della Repubblica non aveva avuto alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento.

La decisione impugnata, evidenzia la Corte, si era quindi limitata in proposito a riproporre le argomentazioni del giudice di prima istanza, senza tenere in alcun conto il contenuto dell’impugnazione, laddove invece è legittima la sentenza di secondo grado nella quale il giudice di appello, richiamando nella sua pronuncia punti essenziali della motivazione della sentenza di primo grado, non si limiti a farli propri, ma confuti le censure contro di questa formulate con il gravame, attraverso un itinerario argomentativo esplicito, fornendo comunque una risposta alle censure formulate nell’atto di appello.

Quanto poi all’argomentazione della ricorrente Agenzia, che aveva dedotto ulteriore vizio di motivazione, laddove i giudici d’appello non avevano considerato che nelle motivazioni degli avvisi di accertamento non vi era in realtà alcun riferimento alla consulenza disposta dal P.M. ed anzi si affermava espressamente che la delega del Procuratore della Repubblica era stata utilizzata solo come segnalazione, secondo la Corte, la censura era in parte assorbita e in parte inammissibile

In particolare, per quanto concerne la mancata considerazione del fatto che negli avvisi opposti non vi era alcun riferimento alla consulenza del P.M., essa risultava assorbita dall’accoglimento del primo motivo in ordine alla mancata considerazione delle censure alla sentenza di primo grado.

Il motivo di impugnazione risultava invece inammissibile nella parte in cui la ricorrente lamentava la mancata considerazione del fatto che negli avvisi in questione si esplicitava che la delega del Procuratore della Repubblica era stata utilizzata solo come segnalazione, trattandosi della denuncia di un error iuris o, al più, di una insufficienza della motivazione in diritto della sentenza, come tale non denunciabile ex art. 360 n. 5 c.p.c..

Infine, quanto alla asserita violazione degli artt. 32, 37, 39 e 41 del DPR 600/1973, per aver i giudici d’appello erroneamente ritenuto che l’Agenzia delle Entrate non potesse procedere autonomamente ad una verifica sulla scorta di una delega, anche illegittima, della Procura della Repubblica procedente nel parallelo procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti, considerandola una mera segnalazione e per non aver gli stessi giudici considerato che l’Agenzia delle entrate può acquisire documentazione bancaria nel corso della verifica previa autorizzazione della Direzione Regionale, non essendo tale acquisizione effettuabile solo dalla Guardia di finanza nel ruolo di Polizia Tributaria o Giudiziaria, tali censure, secondo la Suprema Corte, erano fondate.

La decisione impugnata si fondava infatti sull’assunto che la delega della Procura della Repubblica all’Agenzia delle entrate costituisse un preciso ordine indirizzato a quest’ultima, con obbligo di riferire alla Procura delegante e rappresentasse altresì la motivazione di tutti gli avvisi impugnati.

La decisione in esame si fondava inoltre sul rilievo che l’analitico contenuto della delega (con puntuale specificazione dei controlli da effettuare e fissazione di termini) nonché le modalità con le quali l’attività era stata svolta dall’Agenzia (acquisizione di informazioni testimoniali e documentazione bancaria, mancata redazione del p.v.c.) inducevano ad escludere che al provvedimento della Procura potesse riconoscersi la natura di semplice segnalazione e ad escludere altresì che le attività poste in essere dall’Agenzia delle entrate fossero quelle proprie di una verifica istituzionale (e non piuttosto quelle di polizia tributaria).

Il presupposto insito nella sentenza della CTR, secondo cui l’Agenzia delle entrate non può procedere ad una indagine fiscale utilizzando come segnalazione una illegittima delega di indagini proveniente dalla Procura della Repubblica, era però errato, in quanto, dice la Corte, la notizia di illecito fiscale può essere acquisita dalla Agenzia in qualsiasi modo, e quest’ultima può procedere ad accertamenti fiscali quale che sia la fonte dell’indagine e sulla base di una qualunque informazione in suo possesso, in tal senso dovendo intendersi l’art. 37 del DPR 600/1973, che legittima gli accertamenti sulla base delle informazioni di cui comunque le Agenzie siano venute in possesso, senza escludere una fonte di conoscenza rispetto ad altre.

I giudici di legittimità evidenziano pertanto che l’Agenzia non è vincolata nell’iniziare un accertamento fiscale dal tipo di notizia in suo possesso, potendo agire sulla base di qualsiasi informazione utile allo scopo, e neppure è vincolata dalle modalità con cui è venuta in possesso della suddetta notizia, con la conseguenza che ben può agire sulla base di una delega di indagini proveniente dal Procuratore della Repubblica, utilizzandola esclusivamente (come dichiarato anche negli atti impugnati) come mera segnalazione di un illecito fiscale, e con l’ulteriore conseguenza che, in tale ottica, può risultare irrilevante sia che la delega fosse riferita solo ad uno dei resistenti e sia che la delega prevedesse un elenco di controlli da effettuare o un termine nel quale effettuarli, posto che il fatto che, pur non essendo in discussione che la Procura non possa delegare all’Agenzia delle Entrate attività proprie della polizia giudiziaria (la delega era quindi in effetti sostanzialmente illegittima), ciò non esclude comunque che la medesima delega (quale che sia il suo contenuto) possa essere utilizzata come mera segnalazione dall’Agenzia, risultando pertanto rilevante non il contenuto della delega ma il tipo di attività svolta in concreto dall’Agenzia.

Era infine fondato anche l’ultimo profilo di censura, col quale la ricorrente si doleva del fatto che i giudici d’appello avessero indicato, come elemento idoneo ad escludere che quella posta in essere dall’Agenzia fosse una attività istituzionale di verifica, l’acquisizione di documentazione bancaria, posto che l’art. 32 c. 1 n. 7 del DPR 600/ 1973 prevede che l’Agenzia possa acquisire documentazione bancaria su autorizzazione della Direzione Regionale, e pertanto nell’esercizio della propria attività istituzionale e non nell’esercizio di attività di polizia.

Non era pertanto viziata l’autorizzazione all’acquisizione di documentazione bancaria motivata per relationem all’istanza dell’Agenzia, a sua volta motivata con riferimento alla delega della Procura della Repubblica, posto che l’autorizzazione necessaria agli Uffici finanziari per l’espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall’indicazione dei motivi, non solo perché in relazione ad essa la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, a differenza di quanto invece stabilito per gli accessi e le perquisizioni domiciliari, ma anche perché la medesima, nonostante il nomen iuris adottato, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente, l’art. 3, c. 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e l’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, prevedono l’obbligo di motivazione (cfr, Cass. nn. 14026 del 2012 e, tra le altre, n. 5849 del 2012).

24 febbraio 2017

Giovambattista Palumbo