la nuova riforma fiscale concernente la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese intende agevolare le imprese che lavorano all’estero rendendo deducibili (in parte) le imposte estere già versate
La nuova riforma fiscale concernente la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese, come in ultimo licenziata dal Governo dopo i pareri di modifica delle commissioni parlamentari competenti, mette mano, tra l’altro, alla disciplina sul credito di imposta sulle imposte estere confermando da un lato, la neutralizzazione degli effetti del principio cd. “per country limitation” mentre dall’altro lato, con riferimento ai dividenti provenienti da soggetti residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, si inserisce la possibilità di usufruire del credito di imposta per le imposte estere pagate dalla società controllata a partire dal quinto periodo d’imposta precedente a quello di entrata in vigore delle nuove disposizioni (per es. entrata in vigore 2015, credito per imposte estere pagate a ritroso fino all’anno 2010).
Non sempre l’inerenza fiscale annovera sotto il proprio ombrello i costi sostenuti da un’attività imprenditoriale grazie a quali si sono prodotti maggiori ricavi con un aggravio impositivo. È il caso delle maggiori imposte sostenute all’estero non assorbite dal carico impositivo domestico.
Il momento, tuttavia – con maggiore sforzo a beneficio di una proficua armonizzazione tra tre componenti fondamentali in capo alle imprese ossia capacità contributiva, determinazione reddituale contabile e fiscale – , sembrerebbe propizio per riconsiderare la disposizione dell’art. 99 del Dpr. 197/1986, nella misura in cui se da un lato è ineccepibile il divieto di scomputo delle imposte nazionali dal reddito, in caso contrario finendo per falsare la capacità contributiva, dall’altro lato, non è altrettanto scontato che la stessa finalità possa ravvisarsi in un elemento reddituale che di fatto non ha nessuna attinenza con la capacità contributiva del paese di residenza.
La particolarità del componente di costo “aggiuntivo” rappresentato dalla quota parte di imposta non assorbita dall’imposta nazionale rispetto a qualsiasi altro costo ritenuto o ritenibile inerente, deriva dalla sua incertezza quantitativa; di fatto non si saprà il suo ammontare fino a quando non si ha certezza dell’imposta domestica, e dalla mobilità temporale del suo utilizzo potendo cristallizzare ed utilizzare la maggiore imposta estera per un periodo, all’indietro ed in avanti, per otto esercizi.
Il problema dunque sorge, determinata la quota annuale dell’imposta estera non più utilizzabile, dal combinato disposto degli artt. 99 e 109 del Tuir, dove da un lato si preclude la deduzione delle maggiori imposte non assorbite e dall’altro lato, si ha la rilevazione di un maggior reddito fiscale ancorché se ne acconsentirebbe l’attrazione del costo in relazione al maggior ricavo; costi che sicuramente non trovano nessuna limitazione sul piano civilistico.
Da più parti, il problema sembrerebbe farsi discendere non tanto dall’art. 99 del Tuir quanto dall’art. 165 dello stesso testo unico nella parte in cui si preclude il rimborso dell’eccedenza dell’imposta estera su quella nazionale, secondo la nota ratio dell’impossibilità del conseguenziale finanziamento dell’imposta estera. In vero, il problema non sembra attinente alla logica impositiva domestica ritraibile dall’art. 165 la quale esclude addirittura la semplice deduzione delle imposte estere qualora le stesse non sia divenute definitive e pagate nello Stato estero, quanto nel non permettere che il maggior reddito che concorre ad incrementare la base imponibile nazionale sia essa stessa, nell’ipotesi di incapienza dell’imposta nazionale su quella estera, elemento di violazione della capacità contributiva. Ciò è tanto più evidente quanto tale limitazione diviene oggetto di decisione se applicare la preclusione dell’art. 99 ovvero invocare la concessione della deduzione dell’art. 109.
Questo parallelismo come è facile intuire non è scevro di conseguenze fiscali, positive o negative, come di seguito sintetizzabile:
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Deduco il maggior costo, pari alle imposte estere incapienti con l’art. 165, avrò una corrispondente quota parte di minor imposte nazionali ma sono soggetto a possibili contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria;
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Non deduco in applicazione dell’art. 99, sto al riparo da contestazione da parte del fisco ma sopporto un maggior carico fiscale generale e non sfrutto a pieno la possibilità data dall’art. 109.
Siffatta situazione di incertezza deriva da una sostanziale equipollenza degli artt. 99 e 109, ma dove da un lato il legislatore fiscale ne con l’art. 99 ne con tutte le altre disposizioni che disciplinano la deducibilità dei vari elementi di costo ha previsto l’indeducibilità di un “componente di costo estero” e dall’altro lato, è immanente il rinvio asettico al concetto di inerenza fiscale dell’art. 109; in estrema sintesi, anche sul piano della simmetria impositiva sul concetto “deduco in quanto tasso”, viene meno il parallelismo attrattivo tra costi e ricavi fiscali.
Le ragioni della deduzione
Quale motivazione principe della scelta della deduzione di un componente di costo, lasciato al libero apprezzamento dell’imprenditore (cfr Corte di Cassazione n. 6502/2000), vi è la generica possibilità accordata dall’art. 109; secondo lo stesso orientamento ritroviamo parte della dottrina (Circolare Assonime n. 39 del 2000) che in commento al concetto di inerenza e congruità della spesa in ragione alla tassazione imprenditoriale, e scartando ogni giudizio di merito sul sostenimento di una data spesa, è stato precisato che le stesse soggiacciono all’inevitabilità del sostenimento in ragione dell’attività imprenditoriale. Come premesso, la contestazione che ne discenderebbe dalla deduzione del costo/imposte estere, con conseguente ripresa a tassazione del componente negativo, trae spunto da un orientamento di prassi datato (cfr Risoluzione n. 1548 del 31.07.1982) e non in linea con la nuova frontiera del mercato dei fattori produttivi e finanziari; in secondo luogo, la deduzione risponde meglio al principio ed alla logica della capacità contributiva prevista dal dettato costituzionale;
Il concetto di indeducibilità non ha trovato maggiore forza con la circolare 9/E del 2015, di fatto restando ancorati ad una risoluzione su un quesito specifico, quello contenuto nella risoluzione 1548/1982, vertente su una interpretazione sulla corretta applicazione di una Convenzione (Spagna – Italia), e nello specifico l’ex art. 22 della stessa; se consideriamo il ruolo ricoperto nel diritto internazionale pattizio che assume una Convenzione bilaterale tra due paesi questo lascerebbe spazio ad una adozione restrittiva della indeducibilità delle maggiori imposte in commento e, al contempo, indurrebbe ad ipotizzare che, in mancanza di una norma di portata generale sul divieto sulla deduzione delle maggiori imposte estere rispetto a quanto garantito dall’art. 165 del Tuir, porterebbe a sindacare la sussistenza di una tal limitazione in tutte le convezioni stipulate dal paese domestico, magari non coperta da nessuna interpretazione analogica.
Le ragioni della non deduzione
Come è comprensibile, le ragioni della non deduzione trovano ratio solo nella opportunità di finanza pubblica e nell’opportunità, per il privato, di non essere oggetto di contestazione in sede di controllo.
Come già accennato, l’Amministrazione finanziaria ha giustificato la non deducibilità con l’impossibilità di finanziare le imposte estere;
Non va dimenticato che tra le facoltà dell’ amministrazione finanziaria vi é quella di sindacare sulla corretta imputazione dei componenti di bilancio e come quest’ultimi hanno concorso nella determinazione del reddito fiscale che, nelle ipotesi in cui le maggiori imposte non assorbite estere non siano oggetto di variazione, porterebbe ad un recupero a tassazione; l’aggravio impositivo estero sarà tanto più cospicuo quando le imposte estere non trovano corrispondenza nel reddito nazionale
Le possibilità deduttive trovano giustificazione sia sul piano contabile sia sul piano fiscale.
Per quanto attiene all’aspetto contabile, la corretta qualificazione delle maggiori imposte estere trova collocazione non già alla voce E22 del conto economico, come previsto dall’art. 2425 del codice civile in applicazione dei corretti principi contabili; sul piano della configurabilità strutturale del componente negativo di reddito rappresentato dalle maggiori imposte estere definitivamente non assorbite dalle imposte nazionali, come detto, la voce E22 del conto economico rappresenta la strutturazione al 31/12 dell’esposizione impositiva del soggetto economico nei confronti dello Stato di residenza non certo di quello estero (cfr OIC 25). D’altronde, a rigor di ragionamento, le maggiori imposte estere non assorbile andranno esposte, con la natura di costo, nella voce B14) notoriamente posta di allocazione delle imposte, tasse e contribuzioni varie diverse da quelle del reddito da inserire quest’ultime, come detto, alla voce E22; neanche la voce E21 si presta ad accogliere le maggiori imposte estere in quanto, come noto, accoglie le imposte degli esercizi precedenti ma con la stessa natura del successivo punto E22 (cfr documento interpretativo n. 1 all’OIC 12).
Ai fini della contabilizzazione del debito finanziario, atteso che la voce dello Stato Patrimoniale accoglie i debiti per imposte al netto dei crediti legalmente compensabili, e le imposte pagate all’estero lo sono, la quota parte non assorbibile dalle imposte italiane non troverà allocazione atteso che da un lato, non si ha nessun debito verso creditori perché trattasi di imposte già pagate dall’altro lato, non matura nessun credito.
La descrizione e la quantificazione del costo andrebbe confinata nella Nota integrativa, come previsto dall’art. 2427 co. 1n. 1 del codice civile.
Tenuto conto che l’aggravio derivante da una imposta estera non assorbita potrebbe derivare anche dalla non armonizzazione contabile e fiscale tra paesi, un aiuto verso la direzione dell’utilizzo delle maggiori imposte estere non definitivamente assorbite potrebbe derivare dall’adozione dei principi contabili internazionali quali unici criteri di determinazione del reddito ed estendendo la determinazione del reddito sulla base del principio di derivazione quale effetto correttivo per il livellamento su base extraterritoriale.
Infine, a mente dell’art. 14 del Dpr 600/1973, si ricorda come le società, gli enti e gli imprenditori che esercitano attività commerciali all’estero mediante stabili organizzazioni devono rilevare nella contabilità distintamente i fatti di gestione che interessano le stabili organizzazioni, determinando separatamente i risultati dell’esercizio relativi a ciascuna di esse.
Sul versante prettamente fiscale invece, l’attuale indeducibilità rimarrebbe tale solo per la non manifesta volontà concessa per ragion di finanza pubblica; in vero, il comma 1 dell’art. 99 consente la deducibilità piena in alcuni casi e parziale in altri (IRAP decreto-legge 6 dicembre 2011 n. 201) ancorché, nel caso dell’Irap, si tratti di una imposta sul reddito.
Acconsentire la deducibilità delle maggiori imposte estere poggerebbe, oltre che su logiche di merito tecnico contabile, – deduci un qualcosa che ti è valso per attenere maggiori ricavi da tassare altrimenti non conseguibili -, e ristabilisce equità impositiva su masse di reddito che ancorché originatesi in paesi diversi (nazionali ed estere) finiscono per essere inseriti nel medesimo calderone dell’imponibile, donando ragione e meno ostilità alla tassazione mondiale “world wide taxation” secondo il principio di attrazione di cui all’art. 73 del Tuir.
La detrazione fiscale dell’imposta estera, va chiarito, è ammessa a condizione che la stessa sia stata oggetto di idonea liquidazione in dichiarazione. Per chi ha in corso una procedura di emersione dei capitali esteri cd. Voluntary Disclosure, ancorché le specifiche circolari non citano tale aspetto (Cfr alle Circolari n. 10/E del 13.03.2015 e n. 27/E del 16.07.2015), tenuto conto anche delle modalità di riliquidazione richiamate dalla Circolare n. 9/ del 5.3.2015, ne discende che la materializzazione di una imposta estera per effetto della riliquidazione dei capitali precedentemente non dichiarati, nei limiti del meccanismo del “carry back” e “carry forward”, produce un credito da poter scomputare
In definitiva, se l’imposizione fiscale nasce quale compartecipazione della spesa pubblica da parte di chiunque utilizza risorse pubbliche, nel caso concreto per la produzione di un reddito, in aggiunta al reddito domestico si attrae a tassazione ulteriore base imponibile che ha beneficiato di risorse non nazionali; tale meccanismo, risente, in ultima analisi, della lontananza temporale della propria concezione che non da ragione ai processi di internazionalizzazione.
8 agosto 2015
Giuseppe Bennici
Articolo redatto a titolo personale