il sistema industriale italiano ha, negli ultimi decenni, globalmente perso di competitività: come è possibile per il singolo imprenditore reagire a tale situazione e migliorare la situazione della proria azienda?
Nel 1975, grazie ai notevoli sviluppi economici perpetrati nel tempo da una classe instancabile di lavoratori ed anche grazie ad una serie di riforme strutturali, l’Italia entrò nel club delle grandi nazioni perché era la sesta nazione al mondo in termini economici. Nacque allora il G6, oggi divenuto G8. Fino a qualche mese fa, l’Italia ancora faceva parte delle otto grandi economie della Terra ma, dopo la pubblicazione dei nuovi dati relativi al PIL mondiale ad ottobre 2013, l’Italia è ancora parte del G8 pur non essendo più l’ottava economia, scavalcata dalla Russia. Così dopo il definitivo sorpasso della Cina nel 2005 e del Brasile nel 2010, ecco ora che la Russia, nel 2012, supera la nostra economia. Siamo così diventati la nona potenza al mondo. Ma la cosa più grave è che siamo passati dal sesto al nono posto nel giro di sette anni e all’orizzonte non si prospetta nulla di buono, dato che, di questo passo, fra pochi anni anche l’India ci sorpasserà.
Cosa è successo nel tempo?
Eppure il nostro è un Paese di lavoratori. Il fatto di essere stati, con l’Impero Romano, i primi conquistatori al mondo non è di per sé un record di cui vantarci, tuttavia abbiamo portato arte, infrastrutture (si pensi all’acquedotto di Segovia in Spagna, costruito durante l’impero di Vespasiano e tuttora utilizzato per la distribuzione idrica della zona), cultura, vera e propria Civiltà, quest’ultima anche sotto forma di organizzazione dello Stato. L’Italia ha poi dato i natali a grandi personalità come Leonardo Da Vinci, il quale ha insegnato genialità e ingegneria al mondo intero, oltre che ad illustri personaggi nel campo della matematica, della scienza, dell’arte e della letteratura. Dal punto di vista del patrimonio artistico, il nostro è il Paese con il maggior numero di siti riconosciuti dall’UNESCO: possediamo l’ordine del 6% dei beni mondiali, anche se in realtà il valore creativo degli italiani è più alto, considerando il patrimonio artistico sparso in Europa e non solo. È vero anche che, in quanto a creatività, arte ed ingegneria gli italiani sono figure professionali molto ricercate dalle aziende multinazionali.
Allora, per poter capire meglio cosa sia successo nel tempo alle nostre industrie ed alla nostra capacità di eccellere, facciamo una sintetica cronistoria.
Nell’imminente dopoguerra e fino ai primi anni ‘90 la nostra nazione deteneva un bacino industriale, nato anche verso i primi del secolo scorso, tra i più importanti al mondo, nei settori dell’informatica (in primis Olivetti), dell’aereonautica civile (Breda e Caproni inizialmente, poi Finmeccanica, Agusta, Aeritalia…), della chimica ed energia elettrica (Montecatini poi divenuta Monteshell, Edison, SIP, ENI, SME…), dell’elettronica di consumo (Geloso, Ducati, Irradio, Phonola, Autovox, Brion-Vega, Sinudyne, Seleco…), dell’alta tecnologia (Nuovo Pignone, Elsag, Ansaldo, Fiat ferroviaria, Fiat Avio…). Quasi tutte queste grosse realtà, per vari motivi, nel tempo sono passate a multinazionali estere, smembrate o semplicemente chiuse perché hanno perso in competitività. La nazione che ha inventato la radio con Marconi, non è riuscita a sfruttarne i grossi ed evidenti vantaggi che ne sono derivati dai successivi sviluppi (radio, tv, telefonia mobile…) e nello scenario mondiale non abbiamo nessuna voce in capitolo per ciò che riguarda questo attualissimo canale di business.
Oggi restano solo poche delle grandi aree industriali e di queste alcune stanno attraversando una fase piuttosto critica (Merloni, ILVA di Taranto…), altre sono state già cedute a multinazionali estere (si pensi ad alcuni marchi nel campo della moda).
Allora in questi anni, funestati da una recessione senza precedenti storici, non ci resta altro che parlare di made in Italy, moda, cucina, enologia e turismo… poiché, anche in questo caso, le eccellenze italiane sono evidenti in tutto il mondo. Ma la verità è che il nostro tessuto imprenditoriale si è… perso nel tempo. Perché?
Sarà forse per il fatto che il nostro, in fondo, è un Paese di poeti, santi e navigatori? O forse ci sono altri motivi: la recessione? il deficit pubblico? l’elevata tassazione? il costo del lavoro o dell’energia? L’euro?
A rigor di logica, scartiamo subito il primo motivo perché la recessione è stata di portata mondiale ma quasi tutti i Paesi industrializzati interessati oramai sono “ripartiti” (si pensi a diverse Nazioni della zona euro, agli Stati Uniti, al Giappone…) mentre noi, seppur con dati ufficiali recenti abbastanza confortanti, siamo in realtà ancora piuttosto lontani dalla vera ripresa (2018?). L’argomento euro, attualmente molto dibattuto (uscire dall’euro?), è piuttosto articolato e richiede una seria trattazione a parte ma è certo che di per sé non è il fattore che ha portato un declino industriale così evidente, tra l’altro iniziato prima dell’avvento dell’euro.
Probabilmente alla base della decadenza industriale del nostro Paese vi sono di fondo altre ragioni, forse più sottili ma non per questo meno drammaticamente efficaci, che prendono in considerazione il nostro modo di gestire il business (modus operandi) e, più specificatamente, il nostro modo di essere (modus essendi) e di perdere facilmente di vista gli obiettivi. È emblematico quanto pubblicato su Dicono di noi in Europa, quinto panel del rapporto di Economia Reale edito da Il Sole 24 Ore. Viene riportato, a cura di Alessandra Migliaccio, il caso di un suo collega, giovane giornalista italiano di nome Andrew, che come lei lavorava a Londra per Bloomberg. Dopo vari anni di lavoro in Inghilterra fu mandato in Italia come inviato, ma quando tornò in Inghilterra cominciò a parlare… l’italianesimo ! Ad esempio dovendo scrivere in merito alla eleggibilità di Berlusconi, diceva “ma no, ma adesso capite è così…”. Il direttore responsabile di Bloomberg non lo capiva più, anzi nessuno lo capiva più con i suoi “ma”, “ma però”, “ma poi vedrete”, “ma fra sei mesi”, “ma fra due anni”. Egli, secondo il direttore, era “He’s gone nated”, ossia era ritornato ad essere italiano, con quel modo tutto nostro di dire, di fare e di valutare le cose. “Basta, fai una cosa diversa perché non capiamo cosa ci stai dicendo. Noi vogliamo sapere, allora domani cade il Governo o no?”. Alla fine fu spedito ad Hong Kong.
Siamo nati in Italia, abbiamo fatto la Storia, siamo eredi di importanti tradizioni, alta cultura, arte, aspetti naturalistici, spirito di iniziativa che il mondo ci invidia ma, fondamentalmente, ci piace il dibattimento e la filosofia, che nel governo di una nazione o di una società può portare disorientamento, facendo perdere di vista gli obiettivi. Se poi si aggiunge una certa dose di populismo, anche questo piuttosto diffuso, la frittata è fatta. Ma la loro parte l’hanno anche svolta i nostri legislatori. Sull’onda del fanatismo di stampo sociale, ci si è un po’ lasciati prendere la mano con l’introduzione di leggi che hanno portato al quasi immobilizzo delle imprese: il DLgs 81/08 (ex L. 626), il D.L. 196/03 (privacy) e l’art. 2043 del C.C. (mobbing) combinati insieme, hanno costituito spesso un potenziale dirompente per le imprese ed alla fine, come dei boomerang, per i dipendenti stessi. Non perché esse siano non giuste nell’intento, anzi, ma solo perché sono formulate in maniera ambigua e fomentano ambiguità verso chi pensa ancora che “tutto è dovuto”. Già, perché questo è un altro di quei problemi viscerali di noi italiani: “tutto è dovuto” o “questo non spetta a me farlo”. Anche qui è significativo il caso di un dipendente che si rifiuta di eseguire una traduzione in lingua di un importante contratto di fornitura in quanto “attività non contemplata nel mansionario”.
Nel bene e nel male siamo italiani e ragioniamo con meccanismi “strani”, decisamente nostri. Sarà perché ancora è insita in noi la logica del padrone? Sarà forse perché, avendo il nostro Paese da sempre rappresentato un confine politico tra diversi mondi, nel nostro DNA c’è una commistione viscerale tra socialismo, comunismo e capitalismo?
Sicuramente molte sono le considerazioni da fare, partendo dagli aspetti socio-culturali per finire agli aspetti fiscali, che sembrerebbero strozzare la ripresa della nostra economia. Attualmente il dito è ad esempio molto puntato sul cuneo fiscale legato al costo del lavoro e sulla elevata pressione fiscale. È piuttosto ovvio di come questi due aspetti di per sé non possano aver determinato il declino delle imprese avuto nel tempo e acuitosi con la recessione. Inoltre aspettare che le soluzioni piovano dall’alto induce implicitamente a vivere passivamente questo momento storico, perché ancora una volta siamo indotti a pensare che non dipende da noi e guardiamo alle riforme dello Stato come la soluzione a tutti i mali delle imprese, dimenticandoci invece di cosa dovremmo iniziare a fare immediatamente, al fine di invertire questa rotta che sta lentamente sgretolando il nostro tessuto imprenditoriale, portandolo ad una fine inesorabile.
Ma dal momento in cui la realtà economica dell’Italia, una volta sparite le grosse industrie, è sempre più costituita da piccole e medie imprese, cerchiamo di capire cosa fare subito, senza aspettare quelle riforme strutturali che certamente non contribuiranno a renderle più competitive. Difatti il cuneo fiscale apporterà vantaggi ai lavoratori, ma non per questo renderà più competitiva l’impresa, mentre la riduzione di qualche punto percentuale di IRES e/o IRAP, anche questa, non si capisce come possa fare miracoli sul fronte della competitività.
Fino a qualche decennio fa, le piccole imprese avevano i loro punti di forza, rispetto ai gruppi industriali strutturati, in: maggiore flessibilità, pochi ma efficaci organi di controllo, tempi decisionali brevi, costi contenuti… e così via. Oggi questi punti di forza sono venuti meno per diverse ragioni. Il concetto di flessibilità è diventato d’un tratto pericoloso, dopo l’introduzione di modelli di contabilità analitica ed industriale che provengono dalle grosse imprese e che danno l’illusione che tale vantaggio “costi”. D’altro canto le imprese non abituate a pianificare le attività di medio-lungo termine difficilmente saprebbero sfruttare questo punto di forza. L’impostazione di sistemi di controllo direzionali hanno invece spesso peccato in efficienza (si spera non in efficacia), con l’intento di monitorare una miriade di valori, tra l’altro legati alle sole variabili di breve periodo. Ancor peggio, hanno a volte frammentato in tante micro attività l’impresa, con l’illusione che l’ottimo globale fosse generato dalla somma delle singole ottimizzazioni, portando invece alla fine disgregamenti nel raggiungimento dell’obiettivo.
Ma il vero e grosso punto debole delle PMI è da sempre stato costituito dalle scarse risorse da dedicare alla formazione, alla ricerca e all’innovazione. Studi recenti indicano infatti che in Italia la spesa per ricerca e sviluppo incide l’1,3% in rapporto al PIL, in Germania questo dato è più che doppio, pari al 2,8%, mentre l’eurozona mostra un valore dell’1,9%. Se non costruiamo il futuro oggi ma pensiamo solo al presente, difficilmente potremo competere domani e dal momento in cui, per carenza di risorse finanziarie, molte PMI non innovano proprio più da diversi anni, tale ritardo accumulato sta costando molto caro.
Chi gira per le aziende percepisce bene queste cose: da una parte l’imprenditore (o chi per lui) sempre più preso dagli eventi quotidiani (pagamenti, incassi…), dall’altra parte i commercialisti, che non riescono più a stare dietro con il passo alle continue novità, modifiche ed integrazioni in materiale fiscale e legale. Quando il commercialista si incontra con l’imprenditore si parla quasi esclusivamente di bilancio e di conti in rosso o l’argomento verte sulle novità in materia legislativa o magari potenziali finanziamenti da chiedere agli istituti di credito. Ma chi pensa all’azienda in termini strategici e di competitività? Le imprese sono fatte di presente ma soprattutto sono il frutto di decisioni prese in passato. Se non facciamo più ricerca su nuovi potenziali mercati di sbocco o non abbiamo mai considerato l’idea di diversificare il business o semplicemente la nicchia al fine di incrementare il fatturato, se non abbiamo mai vagliate le potenziali opportunità offerte dalle alleanze strategiche o dalle reti d’impresa, se non abbiamo mai preso in considerazione l’idea di introdurre un sistema CRM per meglio gestire le esigenze sempre più complesse dei clienti, se non facciamo formazione puntando alla qualità delle prestazioni, se non pianifichiamo una corretta gestione del portafoglio prodotti in base agli specifici cicli di vita, se non monitoriamo costantemente le nostre performance al fine di migliorarci e capire dove siamo limitati, attuando magari modelli di core activities, o non abbiamo mai preso in considerazione un piano di turnaround… ossia se non siamo in grado di pianificare e monitorare le attività strategiche ed operative necessarie per essere competitivi nel mondo di oggi, difficilmente avremo un futuro. Lavoreremo barcamenandoci in espedienti che ci illudono di aver trovato le corrette soluzioni, ma che sono solo temporanee e facilmente sgretolabili. Il vecchio adagio caro a noi italiani “tira oggi che viene domani” non funziona più già da tempo, in una arena iper-competitiva dove è difficile sopravvivere consoluzioni tampone. È difatti probabile che con due semplici click di mouse su internet, troveremmo prodotti e/o servizi superiori rispetto a quelle che la nostra impresa sta offrendo: allora è chiaro che diventa necessario costruirsi consolidati plus e munirsi di adeguati strumenti di controllo.
Ma a queste considerazioni si ribatte con il fatto che le PMI non hanno le risorse finanziarie necessarie per “crescere”, dimenticando che invece esistono svariati fondi interprofessionali gratuiti (Fondimpresa in primis) o altri fondi che permettono di avere formazione qualificata ed affiancamento manageriale a costo zero per l’impresa. Quando utilizzati, tali fondi vengono per lo più veicolati per i corsi obbligatori per legge: carrellisti, corso per squadre antincendio, corso di pronto soccorso, decreto legge 81 oppure per le ISO9001, ISO14001… e così via. Trascurando il fatto che molto probabilmente, con le imprese che chiudono, ai carrellisti di fatto non servirà nessun attestato e non servirà dimostrare a nessuno che si stava lavorando a tutela dell’ambiente.
Probabilmente quello che oggi sta mancando davvero alle nostre piccole e medie imprese è una sana e corretta cultura d’impresa che ne permetta la crescita e nel contempo ne incrementi la competitività. Il concetto di cultura d’impresa prevarica qualsiasi schema precostituito, allarga gli orizzonti e consente di avere maggiori strumenti per sopravvivere in un mercato globalizzato. Ma esso deve essere introdotto in maniera pratica, in primis apportando soluzioni concrete ai problemi imminenti, altrimenti resta semplicemente uno sterile scambio di vedute.
Forse la fonte del problema consiste proprio nel dare agli imprenditori quelle leve, quegli strumenti che diano la possibilità di rivedere la propria impresa in ottica strategica, oltre che operativa.
La speranza e l’augurio sono nel vedere competere ancora una volta il nostro tessuto industriale in campo internazionale, come vorrebbe la tradizione di noi italiani.
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22 maggio 2014
Luciano Cipolletti