Nuovo redditometro e incrementi patrimoniali

uno dei punti più critici del nuovo redditometro è la gestione dei cosiddetti incrementi patrimoniali realizzati dal contribuente per i quali non viene più considerata una spalmatura automatica su cinque periodi d’imposta come nel vecchio redditometro

La vicenda che caratterizza l’assenza nel nuovo redditometro della previsione circa la “spalmatura” dei cosiddetti “incrementi patrimoniali” è nota: il Legislatore non ha inteso replicare la previsione legale, ancorché relativa, che per lo strumento vigente sino alle modifiche apportate dal decreto legge n. 78/2010 di approvazione del nuovo accertamento sintetico sanciva la “spalmatura” dell’acquisto per il periodo d’imposta in cui la spesa era stata effettuata e per i quattro precedenti.

In altre parole, una spesa per incremento patrimoniale sostenuta nel 2008, poniamo di 100 mila euro, era suscettibile di determinare un’imputazione di reddito sinteticamente attribuibile al contribuente di 20 mila euro per ciascun anno dal 2008 sino, a ritroso, al 2004.

Il che potrebbe determinare, nel nuovo redditometro, come una spesa per incrementi patrimoniali possa anche essere imputata interamente nel periodo d’imposta in cui è stata sostenuta dal contribuente: con i risultati del caso che è facile immaginare per una presunzione che, non è superfluo ricordarlo, ricade necessariamente sull’Agenzia delle entrate.

L’assenza nel testo normativo del nuovo articolo 38 del Dpr n. 600/73 è stata ulteriormente rafforzata dal testo del decreto ministeriale del 24 dicembre scorso, attuativo dello strumento, il quale non reca alcuna specificazione in ordine alla fattispecie in parola nell’ambito dei cinque articoli di cui si compone: la novità, semmai, è ravvisabile nella “tabella A” che correda il medesimo con i nuovi elementi indicativi di capacità contributiva.

Ebbene riguardo tutti gli incrementi patrimoniali, che peraltro vengono per la prima volta individuati specificamente rispetto alle indeterminatezze del “vecchio” strumento, la citata tabella prevede che alla determinazione dell’importo rilevante ai fini della ricostruzione reddituale si giungerà considerando l’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno, meno l’ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti all’acquisto dei beni, risultante da dati disponibili o presenti in Anagrafe tributaria.

Volendo esemplificare il tutto, ne deriva la formula che segue:

 

FORMULA

 

IP = IA D

D = DA + (DA-1 + DA-2 + DA-3 + DA-4)

dove:

IP =Incremento patrimoniale

IA = Investimenti effettuati nell’anno

D = Disinvestimenti

 

 

La previsione potrebbe comportare qualche facile entusiasmo circa una possibile dilatazione della tempistica dei disinvestimenti: in sostanza, si potrebbe ritenere che l’allegato al decreto ripristini l’abrogata previsione normativa che, per il redditometro ante modifiche del decreto legge n. 78/2010, prevedeva la “spalmatura” quinquennale.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, non sarà così, e per più di un motivo.

Il primo: occorre sottolineare la netta differenza esistente, tra “vecchio” e “nuovo” redditometro, in ordine ai cosiddetti incrementi patrimoniali. Nel vecchio sistema, la “spalmatura” dava adito ad una quota di reddito da “caricare” sul periodo d’imposta pregresso; nel nuovo sistema, invece, assume rilievo la sola “provvista fondi” frutto delle eventuali dismissioni, e dunque un elemento “a discarico” nei confronti della presunzione reddituale. Quindi, se in passato l’incremento patrimoniale generava un potenziale maggior reddito sul contribuente, attualmente svolge un ruolo di possibile catalizzatore di somme finanziarie nella disponibilità del soggetto, grazie alle dismissioni contemplate dalla tabella del decreto.

Il secondo: proprio per questa sua possibile connotazione di elemento acquisito anche grazie ai disinvestimenti posti in essere dal contribuente, è arduo ipotizzare un automatismo quanto al riconoscimento di dette somme “a defalco” del reddito ascrivibile all’incremento patrimoniale. In sostanza, è da escludere che, per il solo fatto che il disinvestimento determini una disponibilità di somme, al contribuente possa essere decrementato, per i corrispondenti importi, l’incremento patrimoniale.

Gli uffici, in proposito, certamente richiederanno che il soggetto controllato dimostri che proprio “quelle” somme entrate nella sua disponibilità hanno contribuito all’acquisto e non siano, diversamente, state utilizzate per sostenere altre spese, comunque rientranti nel fuoco di mira del fisco ma “diverse” da quella che potrebbe/dovrebbe essere “nettata” in sede di ricostruzione sintetica del reddito: anche perché, se così non fosse, si attribuirebbe alla disponibilità di fondi una significatività completamente avulsa dall’utilizzo reale.

Un ultimo aspetto, ma forse quello più rilevante: la tabella fa riferimento ai soli “disinvestimenti”, ma ciò non può voler dire che soltanto questa componente è suscettibile di “nettare” l’incremento patrimoniale.

Infatti il contribuente avrà buon gioco ad opporre giustificazioni quali la disponibilità di somme diverse da quelle eventualmente oggetto di disinvestimento (una donazione, ad esempio), rientranti pienamente nella facoltà di fornire la prova contraria, sancita normativamente dalla nuova versione dell’articolo 38 del Dpr n. 600/1973 e ribadita ulteriormente dall’articolo 4 del decreto ministeriale attuativo dello strumento di controllo.

Ciò che rileverà, infatti, non sarà la tipologia della provenienza della disponibilità finanziaria quanto la sua capacità di non essere attratta in alcun modo a tassazione in capo al soggetto controllato: per avere già scontato l’imposizione o per esserne, legittimamente, esente.

 

4 febbraio 2013

Carlo Nocera