Ispezioni e verifiche: i limiti all’inviolabilità dello studio professionale

vediamo quali sono i limiti ai poteri dell’Amministrazione rispetto all’accesso negli studi professionali, con una rassegna della giurisprudenza più importante al riguardo

Con la sentenza n. 3014 del 27 gennaio 2011, i giudici della Cassazione penale si sono pronunciati in ordine ai limiti entro cui è consentito al professionista tutelare l’inviolabilità del proprio studio professionale. In particolare, la questione ha riguardato il caso di un professionista che allo scopo di impedire l’accesso allo studio ad una propria cliente, nella circostanza particolarmente “esuberante”, ha procurato alla stessa lesioni. In sostanza, il quesito posto è se l’esercizio del diritto all’inviolabilità del proprio domicilio (nel caso specifico studio professionale) può spingersi fino a giustificare la violenza commessa dal professionista. Partendo dalle considerazioni formulate dalla Suprema Corte, intendiamo definire i limiti di estensione del diritto all’inviolabilità del domicilio.

 

Nella recente sentenza n. 3014 dello scorso 27 gennaio, i giudici della Cassazione penale hanno affrontato il tema dei limiti entro cui è consentito al professionista tutelare l’inviolabilità del proprio studio professionale. In particolare, la questione ha riguardato il caso di un professionista che allo scopo di impedire l’accesso allo studio ad una propria cliente, nella circostanza particolarmente “esuberante”, ha procurato alla stessa lesioni.

 

Esercizio del diritto all’inviolabilità

I giudici sono stati quindi chiamati a pronunciarsi in ordine al quesito se l’esercizio del diritto all’inviolabilità del proprio domicilio (nel caso specifico studio professionale) può spingersi fino a giustificare la violenza commessa dal professionista. Partendo dalle considerazioni formulate dalla Suprema Corte, intendiamo fornire indicazioni circa i limiti entro cui il diritto all’inviolabilità del domicilio può spingersi.

 

Sentenza Cassazione del 27 gennaio 2011 n. 3014

La questione trattata dai giudici della Cassazione nella recente sentenza n. 3014 del 27 gennaio 2011, trae origine da uno spiacevole episodio verificatosi presso uno studio professionale.

 

Di fronte all’ingerenza di una propria cliente, un professionista, allo scopo di ostacolarne l’accesso e/o impedirne la permanenza nello studio professionale, aveva spinto la stessa, procurandole, a causa dell’urto contro il montante della porta d’ingresso, lesioni.

 

In ordine alla posizione del professionista, che era stato denunciato dalla cliente, si era in primo grado pronunciato il Tribunale di Torino che aveva condannato il professionista per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in concorso con il delitto di lesioni personali.

 

Successivamente, a seguito di ricorso, la Corte d’Appello di Torino aveva riformato la sentenza di primo grado, riducendo la pena a 2 mesi e 15 giorni di reclusione.

 

Il ricorso in cassazione

Anche questa decisione veniva impugnata dal professionista dinanzi la Corte di Cassazione.

Al riguardo, i giudici di legittimità hanno innanzitutto posto l’accento su quanto affermato dalla Corte di Appello di Torino per la quale costringere con violenza la cliente ad allontanarsi dallo studio professionale, non può essere in alcun modo discriminato dalla legittima difesa, per essa intendendo la necessità di difendere l’inviolabilità dello studio professionale.

 

I giudici della Cassazione hanno ritenuto invece di seguire un percorso diverso.

 

Gli stessi hanno infatti dapprima rilevato che allo studio professionale deve essere riservata la stessa tutela prevista per il domicilio privato.

 

In questo senso, i giudici di legittimità hanno richiamato la propria precedente decisione 27 novembre 1996, n. 879 in cui, proprio in relazione ad uno studio professionale, era stato osservato che: “deve ritenersi pienamente configurabile il reato di violazione di domicilio, nel caso di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali dello studio di un libero professionista il quale eserciti compiti che si inseriscono in un’attività procedimentale di rilevanza pubblicistica”.

 

Ciò in quanto, secondo i giudici della Cassazione, l’esercizio di tali compiti, da parte del libero professionista, non comporta la perdita della qualità di luogo non aperto indiscriminatamente al pubblico del suo studio professionale e non priva il professionista stesso del diritto di escludere dall’ingresso nei propri locali – o di invitare ad allontanarsene – le persone che ritenga di non ammettere, per qualunque motivo non contrario alla legge.

 

A tale riguardo, i giudici di legittimità hanno tuttavia puntualizzato che occorre verificare in concreto se la tutela del proprio domicilio doveva avvenire richiedendo l’intervento delle forze dell’ordine.

 

La Cassazione ha infatti sostenuto che occorre accertare se possa trovare accoglimento la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 del codice penale, poiché la stessa non sussiste nei casi in cui il diritto sia esercitato con violenza o minaccia.

 

Partendo da tali considerazioni, i giudici si sono quindi posti il problema di verificare se la condotta adottata dal professionista debba inquadrarsi nell’ambito dellaviolenza privata, prevista dall’art. 610 del codice penale, ovvero dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui al successivo art. 393.

 

Coazione giustificata

Al riguardo, il professionista sosteneva che – essendo stato accertato il reato di violazione di domicilio, previsto dall’art. 614 del codice penale, in quanto il cliente si stava trattenendo in ufficio contro il volere dello stesso – la coazione doveva ritenersi giustificata, essendo stata la violenza o la minaccia posta in essere allo scopo di costringere altri ad adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta illecita o immorale.

 

I giudici della Suprema Corte hanno riconosciuto come, in effetti, su un piano astratto, le lesioni subite dalla cliente possono essere “giustificate” dalla necessità di difendere un proprio diritto.

Occorre, però, valutare e comparare sul piano concreto – compito che spetta ai giudici di merito, cui viene rimessa la decisione – la condotta dei due soggetti contrapposti, allo scopo di verificare se il comportamento del professionista abbia travalicato i limiti della legittima difesa, sfociando nell’eccesso colposo, in quanto accompagnata da manifestazioni sproporzionate di violenza non funzionali al mero allontanamento della “cliente dallo studio professionale.

 

In quest’ultima circostanza, sempre secondo i giudici di legittimità, il professionista potrebbe essere ritenuto responsabile del reato di eccesso colposo di legittima difesa, previsto dall’art. 55 del codice penale, secondo cui se – nell’ambito di uno dei fatti previsti dagli articoli da 51 a 54 – si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi.

 

La tutela del domicilio

La tutela del domicilio trova da sempre riconoscimento nel nostro sistema penale.

Nella garanzia costituzionale della libertà domiciliare, è infatti possibile ravvisare le condizioni per l’esercizio di tutti gli altri diritti di libertà, quali il diritto di riunione (previsto dall’art. 17), di iniziativa economica (art. 41) e di associazione (art. 18).

 

Il domicilio rappresenta conseguentemente unluogo privilegiato, nel quale ciascun soggetto può svolgere, senza interferenze esterne, ogni attività individuale e collettiva.

 

L’art. 14 della Costituzione italiana, attraverso la previsione secondo cui “il domicilio è inviolabileattribuisce fondamento normativo, di rilevanza costituzionale, al diritto di “libertà domiciliare”, considerandolo espressione del più ampio diritto “alla libertà individuale.

 

Nel contesto che ci occupa, assumono rilevanza, in particolare gli artt. 51 e 52 del codice penale, rispettivamente rubricati “Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere” e “Difesa legittima.

 

Con specifico riguardo al primo dei due articoli, lo stesso prevede che “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità esclude la punibilità”.

 

In sostanza, la ratio della non punibilità va, in tali casi, ricercata nel principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico che non può contraddirsi, concedendo una facoltà di agire e al tempo stesso vietando l’esercizio di quella stessa facoltà.

Inoltre, la consapevolezza (eventualmente maturata anche con errore) di agire in modo lecito, condizione usuale per chi agisce nell’ambito dell’esercizio di una facoltà riconosciutagli, sostituisce l’elemento soggettivo del reato, in ordine al dolo ed alla colpa.

 

Al riguardo va comunque rilevato che l’art. 51 non indica quando la norma su cui si fonda il diritto debba ritenersi prevalente rispetto alla norma penale incriminatrice; il problema sorge perché in taluni casi è la norma penale ad avere prevalenza sulla norma che fonda il diritto esercitato.

A titolo esemplificativo, si consideri il caso di un giornalista che, nell’ambito del proprio diritto di cronaca, leda la reputazione di taluno, diffondendo notizie che ne attentano la credibilità: il diritto di cronaca sarebbe in questo caso contrapposto al diritto all’onore del soggetto sottoposto all’attenzione del cronista.

Entrambi sono diritti tutelati dall’ordinamento, i quali tuttavia possono confliggere e determinare conseguentemente difficoltà laddove si debba decidere a quale dei due attribuire prevalenza.

 

La legittima difesa

L’art. 52 del codice penale prevede, invece, al primo comma, che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.

 

Al medesimo articolo è stato aggiunto dal Parlamento il 24 gennaio 2006 il comma 2, secondo cui nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma (violazione di domicilio), sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:

      • la propria o altrui incolumità;

      • i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.

 

Inoltre, la disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

 

Presunzione assoluta di proporzionalità tra difesa e offesa

In sostanza, è stata introdotta una presunzione assoluta di proporzionalità fra difesa e offesa, nei casi di reazione avvenuta durante la commissione di delitti di violazione del domicilio ed in presenza di un pericolo di aggressione fisica.

 

Perché operi la presunzione di proporzione è tuttavia necessario che ci si trovi in uno dei casi previsti dall’art. 614, commi 1 e 2 c.p. (violazione di domicilio), che colui che pone in essere la legittima difesa abbia il diritto di trovarsi in quel luogo e che vi sia un pericolo per l’incolumità della persona.

 

Occorre infine che la legittima difesa sia operata attraverso un’arma o un altro strumento di coercizione legittimamente detenuto da chi la adopera.

In difetto anche di una sola di tali condizioni, la presunzione di proporzione non può operare.

 

Ciò non toglie, tuttavia, che ai sensi dell’art. 52, comma 1, del codice penale, la legittima difesa possa comunque essere riconosciuta in tutti i casi in cui vi sia proporzione tra difesa ed offesa.

 

Considerazioni conclusive

A prescindere dalle interessanti annotazioni che la Corte di Cassazione ha formulato in ordine ai limiti entro cui può essere consentito ai professionisti esercitare forza allo scopo di impedire che la violazione del proprio domicilio prosegua, in tutti i casi in cui ci si trovi in circostanze analoghe a quelle oggetto della pronuncia in commento, è assolutamente necessario che, appena dopo aver informato il proprio cliente della responsabilità penale cui va incontro nel caso in cui non lasci i locali dello studio, il professionista stesso contatti le Forze di polizia per richiederne l’immediato intervento.

 

Tale condotta metterà, infatti, al riparo il professionista da qualsiasi censura circa possibili lesioni, vere o presunte che siano, lamentate dal cliente “invadente.

 

19 settembre 2011

Antonio Gigliotti