L'accesso nei locali di abitazione necessita dell'autorizzazione della Procura

vediamo il caso di un accesso in un locale che è adiacente e comunicante con quello adibito ad abitazione del contribuente: quali autorizzazioni sono necessarie per eseguire verifiche?

Con sentenza n. 16570 del 28 luglio 2011 (ud. del 17 maggio 2011) la Corte di Cassazione ha confermato che l’accesso in locali promiscui necessita dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

 

Il processo

Con avviso di accertamento notificato il 28.12.1999 l’agenzia delle entrate di Bari ha rettificato la dichiarazione Iva della F.S. s.r.l. per l’anno 1995, irrogando sanzioni nella misura di legge.

La rettifica trova fondamento in un p.v.c. di constatazione della polizia tributaria, a mezzo del quale fu contestata un’indebita detrazione di imposta conseguente alla registrazione di fatture di acquisto per operazioni inesistenti.

La società ha proposto ricorso, con esito favorevole, alla commissione tributaria provinciale di Bari.

La relativa sentenza, impugnata dall’agenzia delle entrate, è stata confermata in appello, dalla CTR delle Puglie, sulla preliminare ed assorbente considerazione che l’accesso nei locali dell’impresa non era stato autorizzato dal procuratore della Repubblica. “Donde sia l’accesso che gli atti consequenziali erano da ritenere invalidi e insuscettibili di produrre effetti”.

Invero la commissione ha ritenuto provato – “in considerazione dei prodotti certificati anagrafici, della planimetria dell’immobile e di uno stralcio di deposizione testimoniale resa in separato procedimento penale da uno dei militari verbalizzanti – che l’opificio in questione fosse in verità adibito a uso promiscuo, avendo costituito al contempo sede dell’impresa e (in locali comunicanti) luogo di abitazione familiare”.

Avverso la sentenza d’appello l’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che la succinta motivazione dell’impugnata sentenza non consente di intendere con esattezza cosa la commissione abbia inteso per “uso promiscuo“; in particolare “se, con tale locuzione, abbia inteso riferirsi all’uso, tanto commerciale-industriate, quanto abitativo, degli stessi locali, ovvero alla semplice contiguità, e possibilità di accesso, tra i locali adibiti a opificio e i locali adibiti ad abitazione. Sostiene che, ove intesa la statuizione in fatto in tal secondo senso, errata ne sarebbe la conclusione in diritto, dal momento che la fattispecie prevista nell’art. 52 cit. si realizza quando nello stesso locale il soggetto contestualmente abiti e svolga la propria attività d’impresa; mentre, in caso di abitazione contigua ai locali di esercizio dell’impresa, l’autorizzazione del p.m. si rende necessaria solo per eventualmente accedere ai locali destinati ad abitazione privata. Se invece intesa nel primo senso, la sentenza – aggiunge la ricorrente – sarebbe viziata nella motivazione, dal momento che il convincimento sarebbe stato insufficientemente argomentato con rinvio a dati – planimetrici e anagrafici – evidenzianti accessi esterni dell’opificio nettamente separati da quello dell’abitazione, e a uno stralcio di deposizione in verità allusiva della esistenza di un’abitazione (della famiglia S.) soltanto annessa”.

 

La decisione

I giudici, preliminarmente, rilevano che l’accertamento in fatto, di cui all’impugnata sentenza, evidenzia in modo chiaro e testuale – che nella specie “ebbe a trattarsi di locali adibiti a uso promiscuo in considerazione della comprovata esistenza di punti comunicanti tra l’opificio e l’abitazione della famiglia S”.

Per consolida giurisprudenza la destinazione sussiste “non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, come invece asserito dall’amministrazione medesima; ma ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi”.

In simile eventualità è comunque necessaria l’autorizzazione all’accesso da parte del procuratore della Repubblica, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 1, ancorchè non essendo richiesta, all’uopo, la presenza di gravi indizi di violazioni di norme del medesimo d.p.r. secondo quanto invece stabilito dal comma 2, della disposizione de qua allo specifico fine di reperire, in locali diversi da quelli destinati all’attività d’impresa, libri, registri, documenti e scritture. In tema di accertamento dell’Iva, cioè, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, prescritta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, commi 1 e 2, ai fini dell’accesso degli impiegati dell’amministrazione finanziaria (o della guardia di finanza, nell’esercizio dei compiti di collaborazione con gli uffici finanziari a essa demandati) a locali adibiti anche ad abitazione del contribuente o a locali diversi (cioè adibiti esclusivamente ad abitazione), è sempre necessaria. Essa rimane subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni tributarie soltanto in quest’ultimo caso (id est, appunto, in locali “diversi” in quanto solo abitativi), e non anche quando si tratti di locali a uso promiscuo (cfr. Cass. nn. 2444/2007, 10664/1998). Ma resta ferma la necessità dell’autorizzazione previa, ancorchè non motivata dai ripetuti gravi indizi, laddove si sia in presenza di immobili complessivamente destinati – in ragione della facilità di comunicazione interna – anche a un uso abitativo. In tal caso l’autorizzazione all’accesso da parte dell’A.G., in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamente, lo spazio di libertà dei contribuente, rileva alla stregua di condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni (da ultimo, per riferimenti, Cass. n. 6908/2011). Giacchè il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost. (v. Cass. nn. 8181/2007, 19689/2004)”.

 

Brevi riflessioni

Già con ordinanza n. 24178 del 29 novembre 2010 (ud. del 23 settembre 2010) la Corte di Cassazione aveva avuto modo di affermare che per l’accesso nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, ed anche ad abitazione del contribuente, è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica (l’uso promiscuo sussiste non solo quando gli ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma anche quando vi è la possibilità di comunicazione interna la quale consente il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi). Nel caso di specie, il locale bar dove era stata effettuata la verifica era “tutt’uno” con locale adibito ad abitazione (cucina), e l’accesso era stato effettuato senza l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. La Corte prende atto che “i giudici d’appello hanno confermato l’accertamento in fatto dei giudici di primo grado, secondo i quali l’accesso dei verificatori era avvenuto nei locali in cui si svolgeva l’attività della contribuente, locali che comprendevano un vano della sovrastante abitazione della contribuente adibito a cucina, e che pertanto l’accesso era avvenuto anche in un locale adibito ad uso abitativo, essendo irrilevante, ai fini della norma in esame, che si trattasse solo della cucina, mentre il resto dell’abitazione era posta al piano superiore”. La Corte rileva “che deve ritenersi l’uso promiscuo non solo nella ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qual volta la agevole possibilità di comunicazione interna consente il trasferimento dei documenti propri della attività commerciale nei locali abitativi (v. tra le altre Cass. n. 10664/1998)”.

Come è noto, l’accesso può avere luogo nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali e agricole. Se per l’accesso presso l’abitazione privata del contribuente – tutelata dall’art. 14 della Costituzione – è necessaria la previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, e in caso di gravi indizi di violazione delle norme fiscali, conformemente a quanto disciplinato dal comma 2, dell’articolo 52 del D.P.R. n. 633/1972, per l’accesso in locali destinati anche ad abitazione non sono necessari i gravi indizi, essendo l’accesso preordinato ad una ordinaria attività di ispezione fiscale.

Sul punto, la Corte di Cassazione – sentenza n. 19689 dell’1.10.2004 – ha fornito una precisa interpretazione comparativa fra i commi 1 e 2 dell’articolo 52 del D.P.R. n. 633/72: mentre per l’accesso nei locali adibiti anche ad abitazione, è sufficiente la sola autorizzazione del Procuratore della Repubblica, per l’accesso nei locali esclusivamente adibiti ad abitazione, l’autorizzazione del magistrato deve essere concessa solo in presenza di gravi indizi di violazione delle norme fiscali. Per quanto riguarda i locali adibiti promiscuamente ad abitazione e ad attività commerciali o agricole deve trattarsi di un effettivo uso promiscuo, che si ha quando, negli stessi locali, vi è abitazione e attività d’impresa. In questi casi, si può ritenere, pertanto, che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica sia un atto dovuto, in quanto se pur rilasciata dopo un attento esame della richiesta, non necessita della presenza di gravi indizi di evasione fiscale ( in senso confermativo Cass. sentenza n. 9611 del 21 marzo 2008, dep. l’11 aprile 2008).

 

26 agosto 2011

Francesco Buetto