La tassazione dei proventi illeciti

anche i proventi illeciti sono soggetti a tassazione indipendentemente dal tipo di violazione cui risultano connessi

I giudici della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42160/2010, tornano sul tema della tassazione dei proventi da illecito, chiarendo definitivamente che questi costituiscono reddito tassabile (Corte di Cassazione, sentenze n. 7411/2009; n. 3124/1996 e n. 220/1997), indipendentemente dal tipo di violazione cui risultano connessi. Affermato questo principio, l’intervento giurisprudenziale in esame offre diversi spunti di riflessione, contribuendo a definire alcuni aspetti peculiari dell’art. 14, cc. 4 e 4-bis della L. n. 537/1993, ma lasciandone – al tempo stesso – invariati altri, come andiamo a commentare.

Innanzitutto, la Suprema Corte precisa l’esigenza di garantire un’interpretazione autentica della novella(1), allo scopo (e con l’effetto) di ricondurre nell’ambito della categorie di cui all’art. 6, c. 1 del DPR n. 917/1986 (Classificazione dei redditi) tutti i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, che non risultino assoggettati a sequestro o confisca.

La riconduzione alle categorie reddituali ordinarie è attuata attraverso il metodo dell’assimilazione, a seconda del grado di somiglianza esistente tra la fattispecie illecita e quella tipica, con la conseguenza che, per essere imponibili, anche gli utili da illecito devono derivare da un’attività produttiva di reddito che risulti ricompresa (o ricomprendibile) nelle fattispecie imponibili (già) previste dalle norme vigenti. Per cui, sussistendo tutti questi requisiti (correttamente) il giudice di legittimità impone anche a tali tipologie reddituali gli stessi obblighi formali previsti per le altre fattispecie, compreso quello dichiarativo eventualmente sanzionato dall’art. 5 del D. Lgs. n. 74/2000.

Soffermandosi, in particolare, sui redditi da attività delittuosa, i giudici della Corte precisano i confini applicativi dell’art. 14 della L. n. 537/1997, chiarendo definitivamente il principio per cui l’assoggettabilità ad imposta di questo genere di proventi non esclude in alcun modo né l’illiceità della condotta (ontologicamente delittuosa), né la sua punibilità e lasciando così intendere che è la necessità di garantire il rispetto del principio costituzionale della capacità contributiva ad imporre all’Amministrazione Finanziaria di riscuotere tali imposte, al fine di garantire l’effettività del presupposto dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e senza generare alcuna disparità di trattamento tra tutti i soggetti chiamati a concorrere alla spesa pubblica.

In questo ragionamento risiede la principale novità della sentenza: i giudici, per la prima volta, trattano autonomamente il tema della tassabilità dei proventi di reato, soffermandosi sulla fattispecie dello sfruttamento della prostituzione ed imputando i profitti da essa derivanti direttamente in capo all’agente, indipendentemente dagli effetti penali della condotta delittuosa connessa all’attività-fonte del reddito(2) e, quindi, scorporando, di fatto, il procedimento di riconduzione dell’utile prodotto entro una delle categorie tipiche di cui all’art. 6 del Tuir dalla valutazione degli indici di punibilità della condotta che lo ha generato.

Da qui l’originalità della sentenza, che consente ai giudici di meglio chiarire la portata applicativa dell’art. 14, c. 4, aggiungendo un ulteriore tassello alla vicenda dei redditi da illecito.

Finora, infatti, la giurisprudenza si è prevalentemente occupata dei proventi derivanti dall’esercizio dell’attività di prostituzione senza valutare gli effetti delle attività delittuose ad essa connesse. La prima, infatti, per quanto possa considerarsi discutibile sul piano morale, rimane pur sempre lecita (da ultimo, v. Corte di Cassazione, sentenza n. 20528/2010) e risulta riconducibile nell’ambito del negozio contrattuale atipico, originariamente viziato perché contrario al buon costume(3). In questo caso, semplicemente, il contratto stipulato tra l’esercente la prestazione ed il soggetto che ne beneficia, deve considerarsi nullo per l’illiceità della sua causa. A tale nullità – nonostante nei fatti le parti adempiano le obbligazioni rispettivamente assunte – corrisponde l’irripetibilità del pagamento effettuato dal cliente in attuazione del disposto di cui all’art. 2035 c.c..

Da sempre quindi – indipendentemente dalla qualificazione civilistica della fattispecie contrattuale e dagli effetti che su di essa produce la definizione giuridica dell’attività-fonte del reddito – i profitti realizzati dall’esercente l’attività di prostituzione sono stati ricondotti entro la categoria dei redditi di lavoro autonomo, sul comune presupposto del possesso. Gli utili della prostituzione sono stato considerati imponibili, a prescindere dall’inefficacia dell’attività-fonte, derivando essi da una condotta originariamente lecita connotata di una peculiare professionalità.

Diverso e del tutto caratteristico è, invece, il caso della tipizzazione del reddito dello sfruttatore della prostituzione perché, innanzitutto, il soggetto cui il reddito risulta imputabile commette un illecito penale. In ciò si coglie la principale novità della sentenza in commento, perché i giudici optano per la piena imponibilità dei redditi così realizzati, superando il limite dell’impossibilità di riferire la definizione fiscale dell’organizzazione imprenditoriale/autonoma anche agli illeciti.

E ciò in piena rottura con il precedente orientamento interpretativo, che non considerava le attività delittuose come attività economiche (ex art. 2082 c.c.), o di tipo commerciale (ex art. 2195 c.c.), definendole inesistenti perchè ab origine viziate. A ciò la Corte perviene attribuendo, da una parte, un peso specifico maggiore alla definizione penalistica della fattispecie e trascurando, dall’altra, il nesso funzionalistico (organico ed essenziale) instaurato tra l’illiceità della condotta e lo scopo dell’attività ad essa connessa, con la conseguente impossibilità di elevare l’attività-fonte del reddito a bene giuridico meritevole di tutela sul presupposto dell’illiceità del suo oggetto.

Nella sentenza in esame, quindi, i giudici svincolano definitivamente l’illiceità penale della condotta delittuosa dalla sua idoneità a produrre reddito, verosimilmente sulla considerazione che l’inclusione dei proventi da reato in una delle categorie tipiche ai fini impositivi non incide sulla tutela della libertà di iniziativa economica del singolo, laddove il requisito della professionalità esemplifica l’orientamento dell’attività svolta verso il mercato, stante la sostanziale specularità dell’attività contra ius a quella giuridicamente protetta.

In altre parole, superato lo scoglio dell’inconciliabilità tra delitto ed obbligazione tributaria, la prospettiva da cui prendere le mosse è quella dell’esistenza di una “economia illecita”, che riproduce (storpiato nei meccanismi di derivazione ed allocazione), quello dell’economia lecita. Parallelismo questo che risulta costruito sulla verifica della compatibilità sostanziale tra le condotte che generano il profitto illecito e quelle dalle quali deriva il reddito tipico, sulla base della loro somiglianza strutturale e materiale.

Questo metodo consente di conciliare l’illiceità dell’attività-fonte del reddito da sfruttamento della prostituzione con l’imponibilità dell’utile realizzato, indipendentemente dalla connotazione penalistica della fattispecie.

Chiariti questi presupposti, tuttavia, rimangono alcune questioni insolute.

L’aspetto più complesso rimane quello del contestuale operare degli altri strumenti del diritto, tra cui il sequestro o la confisca, che delimitano – in concreto – l’effettività dell’imponibilità, perché la novella considera queste misure ablatorie quali presupposti in presenza dei quali il provento -pur astrattamente riconducibile al reddito-tipo – non deve considerarsi tassabile.

Conclusione questa che, interpretata a contrario, riconduce alla mancata irrogazione di tali provvedimenti l’irrilevanza del fonte ai fini della tassazione (anche) dei profitti dell’illecito, interpretando in modo del tutto peculiare la regola del possesso del reddito quale criterio di garanzia del principio costituzionale dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

Inoltre, nemmeno nella sentenza in commento la Corte affronta la questione della confisca e del sequestro come cause di esclusione della tassabilità.

Sul punto, vale la pena di ricordare che la prima, a differenza della seconda, ha carattere definitivo, perché consiste nell’espropriazione a favore dello Stato dei beni collegati alla commissione di fatti costituenti reato. Nella L. n. 537/1993, il legislatore tributario non richiama la distinzione penalistica tra la confisca c.d. “obbligatoria” e quella “facoltativa”, rimettendo di fatto al giudice (o all’Amministrazione Finanziaria) il compito di verificare – caso per caso – se il provento del reato possa(4) o debba (5) essere soggetto a confisca, ai sensi dell’art. 240, c. 2 c.p. o di altra norma speciale. Né richiama la distinzione tra sequestro conservativo e previsto disposto, rispettivamente, per i beni mobili dell’imputato o delle somme o delle cose da lui dovute quando via sia fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria o delle spese del procedimento o di altre somme dovute allo Stato (art. 316 c.p.p.); ovvero per evitare il pericolo che la disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o perpetrare le conseguenze del reato stesso, ovvero agevolare la commissione di altri reati (art. 321 c.p.p.).

Ciò lascia intendere che, nel caso i cui i proventi dell’illecito risultino già sottoposti a sequestro o confisca (producendo tali misure ab origine i loro effetti) e qualora il contribuente avesse già versato l’imposta, egli avrà diritto ad ottenere la restituzione della somma versata, avendo anche la possibilità di addurre la perdita della disponibilità materiale del provento a sostegno della tesi della non debenza dell’imposta, indipendentemente dal verificarsi del presupposto al momento dell’emissione dell’atto di accertamento (Corte di Cassazione, sentenza n. 3259/1993).

La conclusione cui si giunge, in questo caso, è quella dell’ambivalente rilevanza della regola del possesso che costituisce, al tempo stesso, il requisito positivo di tassabilità del reddito quale elemento soggettivo del presupposto d’imposta (6) e condizione di intassabilità del reddito-entrata, reddito che può essere ricondotto entro una delle categorie tipiche, ma non essere soggetto comunque ad imposta per l’operare delle suddette misure ablatorie.

Infine, nella sentenza in esame i giudici della Corte affrontano anche il tema dell’indeducibilità dei costi da reato, ai sensi del comma 4-bis dell’art. 14, ribadendo – in via generale – che nessun costo di produzione dell’attività delittuosa può essere dedotto.

Anche in questa occasione la teoria dell’indeducibilità suscita alcuni dubbi.

E’ chiaro che la questione potrà porsi soltanto per quelle tipologie reddituali che, per loro natura, si determinano in base al sistema ricavi meno costi (quali sono, tipicamente, quelli da impresa e da lavoro autonomo), potendosi altresì riferire soltanto ai reati, non accennando minimamente il Legislatore agli atti, ai fatti e alle attività qualificabili come illecito civile o amministrativo.

Anche in questa occasione, però, il dettato legislativo mostra tutta la sua debolezza interpretativa ed applicativa perchè:

  • non distingue tra le diverse tipologie di costi da reato obbligatoriamente tassabili ovvero non deducibili;

  • fa leva su un generale concetto di “riconducibilità” del costo all’attività-reato che, di volta in volta, viene interpretato secondo il requisito della strumentalità.

In conclusione, tutte queste considerazioni sulla portata applicativa dell’art. 14, cc. 4 e 4-bis della L. n. 537/1993 consentono di sintetizzare l’efficacia innovativa della sentenza, nella parte in cui con essa i giudici superano l’ostacolo della struttura ontologicamente delittuosa dell’attività considerata fonte del reddito, al fine di ricondurre i profitti da essa derivati nell’ambito del corrispondente regime impositivo, inoltre chiarendo che è ancora lunga la strada da percorrere per ottenere una compiuta regolamentazione della fattispecie, nella misura in cui – ad esempio – gli effetti delle misure ablatorie costituiscono cause di esclusione della tassazione del reddito.

In questa occasione, quindi, i giudici di legittimità hanno perso un’occasione importante per chiarire non soltanto l’effettivo grado di incidenza di tali misure sulla tassabilità del reddito da illecito, ma anche il grado di incidenza dei costi sostenuti dall’agente per la realizzazione della fattispecie penalmente rilevante. Perché, ancora una volta, i costi dell’attività delittuosa risultano, in via generale non detraibili, senza che al concetto di strumentalità sia stata apportata alcuna variazione in considerazione delle peculiarità interpretative connesse alla fonte illegale dalla quale il profitto deriva.

Note

1) Sul punto, i giudici della Corte di Cassazione erano già intervenuti con sentenza n. 13335/2003, chiarendo che: “in tema di imposte sui redditi, l’art. 14, comma 4 della L. n. 537/1997, in via di interpretazione autentica dell’art. 6 del D.P.R. n. 917/1986, considera tassabili anche i proventi derivanti da illecito penale se non già sottoposti a confisca, comprendendo nel suo disposto tanto le ipotesi di confisca facoltativa, quanto quelle di confisca obbligatoria …, e quindi include nel reddito tassabile anche il prezzo del reato, obbligatoriamente soggetto a tale misura …. Tale disposizione interpretativa, ancorché non vincolante rispetto alla precedente disciplina … costituisce criterio ermeneutico influente alla stregua della sostanziale identità della stessa in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione, e pertanto impone di considerare parte di detto imponibile il prezzo del reato anche nel vigore della normativa antecedente al citato D.P.R n. 917/1986”. Nel senso della mera interpretazione dispongono anche la Relazione Ministeriale di accompagnamento alla legge e la Circolare n. 105/94 del Ministero della Finanze. A favore della natura innovativa della norma, invece, si sono pronunciate alcune Commissioni Tributari Provinciali e Regionali, ritenendo che con l’art. 14 il Legislatore abbia introdotto un principio completamente nuovo nel regime tributario ordinario, stabilendo che il provento illecito assume la natura di reddito imponibile, se risulta riconducibile entro una delle categorie reddituali tipiche; ma che – successivamente – potrebbe perdere il requisito della tassabilità, semplicemente, per effetto della sua dismissione dal patrimonio, in caso di sequestro o confisca (v. C.T.P. di Avellino, sent. n. 515/1998; C.T.R. di Torino, sent. n. 30/1998; C.T.P. di Milano, sent. n. 124/1997).

2) Il reato di sfruttamento della prostituzione è stato espressamente disciplinato dall’art. 3 della L. 20 febbraio 1958, n. 75 recante norme sull’abolizione della regolamentazione della prostituzione di cui agli artt. 531- 536 del Codice Penale.

3) V. Corte di Cassazione, sentenza n. 4927/1986, in cui i giudici sanciscono la liceità dell’attività di prostituzione, pur non ritenendola direttamente produttiva di reddito di lavoro autonomo o dipendente. Sul presupposto che il reddito ottenuto mediante lo svolgimento di tale attività dovesse considerarsi quale risarcimento di un danno arrecato alla dignità di chi vende le proprie prestazioni sessuali.

4) In via generale, la confisca deve ritenersi facoltativa perché può essere applicata (ex art. 240, c. 1 c.p.) soltanto nei casi di sentenza di condanna, e sulla base del presupposto dell’accertata pericolosità della cosa in riferimento all’uso che il reo ne può fare mantenendone la disponibilità.

5) Di norma, la confisca è obbligatoria nelle ipotesi di: a) cose che costituiscono il prezzo del reato; b) cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna. La Corte di Cassazione con sentenza n. 2798/1994 ha preso esplicitamente posizione sulla tassabilità dei proventi da reato anche in caso di confisca precisando che l’interpretazione autentica dell’art. 14 della L. n. 537/1993 deve riferirsi a tutti i casi di confisca, sia obbligatoria, sia facoltativa. Sul presupposto che la nozione di “provento” le comprende tutte in se le nozioni di prodotto, profitto, e prezzo del reato.

6) L’articolo 36, comma 34-bis del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248, ha modificato la normativa sulla tassazione dei proventi illeciti specificando che: “in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”.

5 febbraio 2011

Valeria Fusconi ed Eleonora Bartolotta