La deducibilità dei servizi infragruppo nell’ambito del consolidato fiscale

un importante aspetto-problematica del “consolidato fiscale” riguardante l’inerenza delle operazioni infragruppo

 

Aspetti generali

L’applicazione pratica del principio dell’inerenza, cardine della disciplina fiscale del reddito d’impresa, richiede una notevole chiarezza in ordine all’estensione dell’ambito dei componenti negativi deducibili, avendo riguardo al loro collegamento (attuale, prospettico, potenziale?) con la produzione dei risultati economici.

Occorre a tale riguardo considerare che l’«impresa» (e la relativa attività) può essere assai articolata, con legami partecipativi e contrattuali tra più soggetti giuridici che non fanno venir meno l’unitarietà del business dal punto di vista economico. Inoltre, bisogna tener conto della presenza di istituti concepiti dal legislatore tributario (consolidato fiscale, liquidazione IVA di gruppo) proprio al fine di tener conto della realtà economica, al di là dei confini giuridici tra i vari soggetti (controllanti, controllati e consociati).

In una recente pronuncia (sentenza n. 45 dell’8.3.2010), la CTP di Reggio Emilia, sezione IV, ha ritenuto nel caso esaminato che l’ufficio fiscale non potesse porre in discussione la ripartizione dei costi effettuata tra i soggetti partecipanti a un consolidato fiscale nazionale, in assenza di danno per l’erario.

I costi sui quali si era concentrata l’azione di controllo (e il successivo contenzioso) erano sopportati dalla capogruppo e quindi riaddebitati pro quota alle società consolidate: relativamente agli stessi, era stata contestata l’assenza del requisito di inerenza in quanto non ricollegabili all’attività d’impresa della consolidante.

I temi segnalati verranno affrontati premettendo qualche opportuna considerazione e precisazione relativamente all’operatività del principio di inerenza in un contesto plurisoggettivo.

Cos’è l’inerenza?

Nell’estrema sintesi della formulazione normativa, l’inerenza è il principio in attuazione del quale (art. 109, quinto comma, TUIR) «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi».

Tale «canone» è stato sviluppato dalla prassi interpretativa dell’amministrazione (circolare 7.7.1983, n. 30/9/944) e dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass., sezione Trib., n. 10062 del 1° agosto 2000), con l’affermazione che la «spesa inerente» deve intendersi legata non necessariamente ai ricavi dell’impresa, bensì all’«attività» della stessa(1).

È stata quindi riconosciuta la deducibilità, in capo alla stabile organizzazione italiana, di una quota delle spese sostenute dalla società madre residente a Hong Kong: tale orientamento si supportava sia sul modello di Convenzione OCSE del 1977 (che, per l’appunto, riconosceva in capo alla stabile organizzazione le spese di direzione e di amministrazione), sia sulla stessa « … logica della produzione del reddito d’impresa, a maggior ragione quando, come nella specie, la distribuzione dei costi avviene nell’ambito di un gruppo».

Secondo la logica seguita dai giudici di legittimità, la strategia e la finalizzazione degli investimenti effettuati all’interno di un gruppo (e pertanto anche dei relativi costi) non può essere confinata entro i limiti che valgono per l’investitore singolo. Il gruppo può infatti prescindere dal vantaggio economico immediato per perseguire ragioni economiche relative alla presenza sui mercati, alla tutela dell’immagine del gruppo stesso, etc., programmando una distribuzione dei costi sostenuti da un soggetto X (la casa madre nel caso di specie) al soggetto Y (la sede fissa italiana)(2).

Inerenza e divieto di doppie imposizioni

L’art. 67 del D.P.R. n. 600/1973 vieta le situazioni di doppia imposizione economica, impedendo quindi che la stessa imposta possa esser fatta gravare due volte in dipendenza del medesimo presupposto, anche se in capo a soggetti diversi.

D’altro canto, una stretta applicazione del principio di inerenza richiede di escludere la deducibilità dei componenti reddituali negativi che non siano correlati (sia pure intesa in senso amplio) all’attività dell’impresa specificamente individuata. È chiaro infatti che l’indebita deduzione, in capo a un determinato soggetto, dei costi in realtà imputabili a un altro soggetto, costituisce un’alterazione del corretto meccanismo contabile/fiscale che presiede alla determinazione del reddito d’impresa, comportando il rischio di arbitraggi tra sistemi, regimi e situazioni diverse.

Il funzionamento dei due principi (inerenza e divieto di doppie imposizioni) è fonte di qualche problema nelle situazioni intersoggettive proprio in ordine al ripristino della «legalità» violata, se si pensa che la contestazione operata dall’ufficio fiscale, che dia luogo a un recupero d’imposta in capo al soggetto X, si pone in conflitto con l’omessa deduzione del costo in capo al soggetto Y (controllato, collegato, controllante, etc.).

Se, pertanto, la X avesse indebitamente «spesato» dei costi rispetto a essa ritenuti non inerenti perché in realtà relativi all’attività della Y, occorrerebbe ripristinare la situazione corretta eventualmente intervenendo sulla dichiarazione fiscale di quest’ultima. Ovvero, escludendo l’ipotesi di un intervento «d’ufficio», dovrebbe ammettersi per la Y la possibilità di rettificare la dichiarazione.

Occorre a tale riguardo rammentare il principio più volte espresso dalla Corte di Cassazione, secondo la quale la dichiarazione fiscale non costituisce la fonte dell’obbligo tributario, ma rappresenta unicamente un momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione, con la conseguenza che essa è emendabile e ritrattabile, e che non si può precludere al contribuente – anche in conformità al principio di capacità contributiva – di dimostrare l’inesistenza, anche parziale, dei presupposti d’imposta erroneamente dichiarati. Il termine ragionevole per l’emendabilità della dichiarazione deve individuarsi, nel silenzio della norma, in quello quadriennale per l’accertamento(3).

Il disconoscimento fiscale dei costi «soggettivamente» non inerenti potrebbe quindi condurre Y (nell’esempio sopra illustrato) a inserire tali costi, ex post, entro una dichiazione rettificativa, chiedendo altresì il rimborso delle maggiori imposte già versate, che verrebbero a ridursi per effetto della deduzione dei componenti negativi disconosciuti dall’ufficio in capo alla X (e pertanto riconosciuti in capo alla Y).

Il consolidato fiscale e l’inerenza infragruppo

Sia sotto il profilo dell’inerenza che sotto quello delle valide ragioni economiche (apprezzabili nell’ambito della norma antielusiva «a vocazione generale» di cui all’art. 37–bis del D.P.R. n. 600/1973), l’istituto della tassazione di gruppo (consolidato fiscale) richiede necessariamente di ridiscutere le vecchie «certezze», ammettendo la rilevanza fiscale dei componenti positivi e negativi in un ambito plurisoggettivo.

Va affermato, a tale proposito, che la chiara riferibilità di un comportamento a un vantaggio (o all’eliminazione o riduzione di uno svantaggio) per l’attività d’impresa dovrebbe prevalere sulla diversa soggettività giuridica delle società cui il vantaggio è riferito, se tali società partecipano a un gruppo che, unitariamente considerato, funziona come un’unica impresa.

A maggior ragione, tale assunto è valido se il gruppo partecipa a un istituto che, come il consolidato, conduce alla determinazione di un unico imponibile complessivo.

Con riferimento al settore impositivo dell’IVA, la sentenza della Corte di Giustizia del 29.4.2004, nel procedimento C-137/02, ha ritenuto che la nozione di inerenza à valida anche per le operazioni effettuate da soggetti «altri» rispetto a quello in capo al quale sorgerebbero gli effetti fiscali, affermando il principio secondo il quale il diritto alla detrazione del tributo per le operazioni passive effettuate può avvenire anche se le relative operazioni attive imponibili sono state effettuate da un altro soggetto(4).

Nel contesto del consolidato fiscale nazionale e mondiale, l’estensione dell’inerenza sembra poter derivare automaticamente dal riconoscimento di una determinazione «esogena» dell’imponibile. In sede di accertamento, l’Amministrazione dovrebbe quindi valutare le «inerenze incrociate» tra consolidante e consolidate, e tra singole consolidate.

Quello della tassazione di gruppo è, per così dire, l’«alveo naturale» delle valide ragioni economiche intese in senso estensivo, poiché non potrà facilmente negarsi la valenza fiscale delle operazioni poste in essere all’interno del gruppo, in vista di effetti tributari che sono ormai incardinati nelle norme del TUIR.

Analogamente la nozione di inerenza, che pone in relazione il componente negativo con l’attività economica dell’impresa, dovrebbe essere ridefinita, ampliando il secondo termine della relazione (l’impresa), che dovrebbe riconoscersi come non più (necessariamente) legato a un solo soggetto determinato.

I servizi intercompany e il riaddebito dei costi in seno ai gruppi

In ambito impositivo IVA, la risoluzione dell’Agenzia Entrate n. 6/E del 3.2.2004 ha puntualizzato, relativamente alla situazione di un gruppo assicurativo, che i servizi di «centrale operativa» (consistenti nella ricezione delle chiamate degli assicurati e nell’organizzazione degli interventi che la compagnia assicurativa doveva effettuare in funzione delle polizze emesse) svolti da una delle società del gruppo non possono essere considerati «ausiliari», costituendo invece «un’attività essenziale e caratterizzante il ciclo operativo» della compagnia.

Secondo la posizione espressa nella pronuncia, quindi, si ammette, al di là dell’eventuale partecipazione a istituti di determinazione unitaria dell’imponibile o delle imposte dovute, l’estensione di un «ciclo operativo» più esteso rispetto ai confini giuridici del soggetto.

Relativamente alle spese di regia, assume invece rilevanza la sentenza della Corte di Cassazione, sezione Tributaria, 14.3.2008, n. 6939, la quale ha precisato (con richiamo della propria giurisprudenza pregressa) che il riaddebito di costi comuni dalla sede centrale alle succursali nazionali, nell’ambito di un gruppo multinazionale, può ritenersi inerente ai ricavi delle varie partecipate, «purché si siano tradotte in servizi resi a queste ultime».

Secondo la Corte, infatti, nel caso delle imprese facenti parte di un Gruppo multinazionale si deve guardare « … non alla corrispondenza costi/ricavi, ma all’oggetto dell’impresa (…) nell’ambito del Gruppo che governa il processo produttivo complessivo».

Il gruppo formale e informale

La realtà economica del gruppo societario esprime un contesto di relazioni tra diversi soggetti uniti da accordi, scambi, prassi comuni, etc., all’interno di un determinato «mercato» e/o settore economico. Spesso, ma non sempre, il «gruppo» in senso economico-sostanziale viene formalizzato e diviene a tutti gli effetti un «gruppo» anche in senso giuridico, con una società che esercita l’attività di direzione/coordinamento e varie società partecipate, seguendo uno schema più o meno complesso, che può prevedere anche partecipazioni in soggetti non residenti.

Un parziale riconoscimento del gruppo anche ai fini fiscali è consentito, oltre che dalla procedura di liquidazione dell’IVA di gruppo, anche – ai fini dell’imposizione reddituale – dall’istituto del consolidato fiscale nazionale e mondiale, il quale prevede la determinazione unitaria di un unico reddito complessivo globale per la «fiscal unit» composta da una società od ente consolidante e dalle società controllate, in presenza di determinati requisiti.

La questione esaminata dalla CTP di Reggio Emilia

Nella sentenza citata sopra, la CTP di Reggio Emilia ha assunto una posizione alquanto definita, affermando che, nel caso esaminato – caratterizzato dalla presenza dell’opzione per il consolidato fiscale nazionale – al disconoscimento di costi in capo a uno dei soggetti partecipanti (società utilizzatrice dei servizi intercompany) deve corrispondere (per non incorrere nel divieto di doppie imposizioni) il riconoscimento di minori ricavi imponibili in capo a un altro soggetto (società prestatrice dei servizi).

In tale situazione, la rettifica in aumento del reddito della prima società corrisponderebbe a una speculare rettifica in diminuzione del reddito della seconda società, in un gioco a «somma zero», giacché il reddito complessivo globale (base per l’applicazione dell’IRES) non subirebbe alcune variazioni.

All’Amministrazione è stato quindi disconosciuto l’interesse ad agire in giudizio, su una base logico-giuridica in verità un po’ fragile (perché prescinde dalla ricostruzione dell’imponibile reale sotto il profilo tecnico impositivo e si traduce quindi in un’affermazione apodittica.

Può inoltre affermarsi che il flusso reddituale non è stato disconosciuto perché «inesistente», ma perché ritenuto non inerente, ossia non collegato all’attività dell’impresa (plurisoggettiva). Resta quindi dubbio, a parere di chi scrive, che il suo mancato riconoscimento in capo alla società utilizzatrice debba necessariamente tradursi in una rettifica in diminuzione dei ricavi della società prestatrice (la quale avrebbe effettivamente prodotto e ceduto il servizio, privo però del requisito di inerenza).

Considerazioni di sintesi

La pronuncia dei giudici emiliani si situa sulla linea delle interpretazioni più ampliative in materia di costi infragruppo, ponendo l’interessante principio che l’intervento nel giudizio tributario presuppone un interesse ad agire che non sussisterebbe poiché – in buona sostanza – al costo dedotto in capo alla società X corrisponde un maggior imponibile in capo alla società Y, come la prima partecipante alla fiscal unit.

Tale ragionamento, a ben vedere, potrebbe essere proposto anche per i soggetti non partecipanti al consolidato fiscale, anche se entro il regime della tassazione di gruppo il principio (della reciproca «neutralizzazione fiscale» del costo e del ricavo) trova la propria esaltazione: la determinazione unitaria del reddito complessivo globale comporta infatti anche il calcolo unitario dell’IRES dovuta.

Ciò nonostante non può escludersi radicalmente e in tutti i casi un interesse al giudizio, giacché anche l’istituto del consolidato fiscale prevede numerose disposizioni anti-abuso: si pensi ad esempio agli scrupoli manifestati dal legislatore in ordine alle possibilità di indebito utilizzo delle perdite extra e ante consolidato. Con riferimento alle questioni che qui interessano, il costo dedotto dalla X (ma ritenuto non inerente dall’organismo di controllo) potrebbe corrispondere all’emersione di un maggior imponibile per Y in realtà fatto sorgere per compensarlo mediante perdite altrimenti «condannate» all’esaurimento, perché anteriori all’ingresso nell’istituto.

Inoltre, come si è evidenziato sopra, non è scontato che al costo disconosciuto perché non inerente in capo alla società beneficiaria debba corrispondere un minor ricavo in capo alla prestatrice: il servizio è infatti «effettivo», ancorché non inerente (secondo la tesi erariale).

Trattandosi di servizi intercompany, forse, poteva piuttosto sostenersene (in maniera più lineare) l’inerenza, in un contesto di rapporti fondato sulla relazione tra più soggetti, all’interno di un sistema unitario di determinazione dell’imponibile.

Infine, l’esclusione dell’interesse ad agire da parte dell’amministrazione sulla base delle affermazioni sopra riportate non convince perché il semplice controllo riferito a una delle società della fiscal unit, ancorché relativo a una dichiarazione «senza imposta», è suscettibile di dar luogo all’applicazione di sanzioni (che a parere di chi scrive non possono essere considerate meramente formali perché si associano a un comportamento che può dar luogo a un minor debito d’imposta, nei termini sopra accennati).

NOTE

  1. Le medesime considerazioni erano espresse nella successiva risoluzione n. 158/E del 28.10.1998, anch’essa richiamata dalla Corte; a rafforzamento della tesi dell’inerenza «allargata» erano altresì citate le norme IVA (art. 19, D.P.R. n. 633/1972), che ammettono la detrazione per l’imposta assolta, dovuta o addebitata a titolo di rivalsa «in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa».

  2.  È tuttavia evidente – sia detto incidentalmente – che la mancata formalizzazione della distribuzione dei componenti reddituali negativi, soprattutto in presenza di un contesto inter/sovranazionale, come pure la coesistenza di regimi fiscali o situazioni particolari differenti da soggetto a soggetto potrebbe consentire indebiti arbitraggi, spostando i costi laddove essi risultano più convenienti (cioè entro il regime soggetto a tassazione più elevata).

  3.  Cfr. tra le altre la sentenza della Sezione tributaria n. 18076 del 2.7.2008, che a sua volta richiama la precedente giurisprudenza della S.C..

  4.  Nel caso di specie, si trattava di un rapporto tra una società «preparatoria», il cui oggetto sociale consisteva nella mera costituzione di una società di capitali, e quest’ultima società.

    26 aprile 2010

    Fabio Carrirolo