l’avviso di recupero con il quale l’ufficio procede al recupero del credito di imposta per insussistenza delle condizioni del beneficio, rientra nel novero dei provvedimenti impositivi presupposti al diniego delle fruite agevolazioni, tenuto conto che l’avviso di recupero manifesta la volontà impositiva dello Stato su una pretesa ben individuata nell’an e nel quantum al pari di un avviso di accertamento o di liquidazione
L’art. 19, comma 1, lett. h) del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 prevede che il ricorso può essere proposto avverso “il diniego o la revoca di agevolazioni” (1). Come chiarito con la circolare n. 98/E del 23 aprile 1996, la norma in esame contiene “l’esplicita indicazione di alcuni atti conclusivi di un procedimento, o sub-procedimento, che un consolidato indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto autonomamente impugnabili per il fatto di avere come causa l’affermazione di un’obbligazione tributaria e di incidere concretamente nella sfera giuridica del soggetto passivo del tributo“. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che, con la lett. h) del comma 1 dell’art. 19 del DLGS n. 546 del 1992, il legislatore ha previsto la categoria generale degli atti di diniego di agevolazioni tra quelli autonomamente impugnabili (2) dinanzi alle commissioni tributarie (Cass. 24 gennaio 2001, n. 1004).
Occorre segnalare la sentenza della Corte di Cassazione n. 4963 del 2 marzo 2009, che in tema di avvisi di recupero dei crediti d’imposta ante 1° gennaio 2005, ha così statuito “l’avviso di recupero con il quale l’ufficio procede al recupero del credito di imposta ex lege 388/00 per insussistenza delle condizioni del beneficio rientra nel novero dei provvedimenti impositivi presupposti al diniego delle fruite agevolazioni“, tenuto conto che “l’avviso di recupero… manifesta la volontà impositiva dello Stato su una pretesa ben individuata nell’an e nel quantum al pari di un avviso di accertamento o di liquidazione“. In tal modo, la suprema Corte rileva l’infondatezza di una delle principali eccezioni sollevate in giudizio dai contribuenti, secondo cui i predetti atti di recupero non potevano essere ricondotti ad alcuna delle tipologie di atti previste dall’ordinamento tributario. Una delle censure sollevate dai contribuenti in sede di impugnazione avverso tali atti consisteva, in effetti, nella impossibilità per l’ente impositore di emettere un avviso di recupero non riconducibile in alcuna delle tipologie di atti previste dall’ordinamento tributario.
Secondo la recente decisione n. 414 del 26 gennaio 2009 del Consiglio di Stato (3) il diniego di disapplicazione delle norme antielusive non può essere assimilato ai provvedimenti di cui all’art. 19, lettera h), d.lgs. nr. 546 del 1992, non trattandosi né di diniego né di revoca di agevolazioni in senso proprio, bensì di determinazione in ordine alla facoltà, riconosciuta ex lege all’amministrazione finanziaria, di non applicare in singoli casi una normativa (quella antielusiva) ordinariamente applicabile, che penalizza il contribuente; tale determinazione consegue a una valutazione discrezionale dell’amministrazione finanziaria, rispetto alla quale la posizione del contribuente che chiede la disapplicazione avrebbe chiaramente consistenza di interesse legittimo.I provvedimenti in questione, pertanto, oltre a rientrare nel più ampio genus degli atti tipicamente assoggettati alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, non rientrano fra quelli che il precitato art. 19 d.lgs. nr. 546 del 1992, con elencazione tassativa, dichiara impugnabili dinanzi al giudice tributari
Giova osservare che la scelta ermeneutica del giudice di legittimità si pone in perfetta armonia con la circolare n. n. 7/E del 3 marzo 2009 dell’Agenzia delle Entrate che così recita: Si evidenzia, infine, che non sono condivisibili le argomentazioni a favore dell’impugnabilità dell’interpello c.d. disapplicativo contenute in alcune pronunce dei giudici di merito. In particolare, alcune Commissioni tributarie hanno sostenuto che l’interpello disapplicativo sarebbe un atto impugnabile, assimilabile agli atti di diniego o di revoca di agevolazioni, previsti dall’art. 19, comma 1, lett. h) del D.Lgs. n. 546 del 1992. Tale interpretazione non può essere condivisa alla luce delle considerazioni sopra svolte, in quanto postula la natura provvedimentale delle risposte rese agli interpelli e, per questa via, le riconduce alla particolare specie di provvedimenti rappresentata dagli atti di diniego e di revoca di agevolazioni. Il diniego e la revoca di agevolazioni hanno sostanzialmente natura di atti impositivi (cfr., fra le tante, Cass. n. 16250 del 23 luglio 2007, che richiama il consolidato orientamento della Suprema Corte sul punto), in quanto assoggettano a tassazione fatti già avvenuti.L’interpello, invece, ha lo scopo di consentire al contribuente di conoscere in tempi certi e brevi l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria in ordine alla futura applicazione di disposizioni tributarie rispetto a specifici casi concreti. Questa caratteristica esclude che una pronuncia giurisdizionale possa sostituire la risposta amministrativa all’interpello per i seguenti motivi:
a) è inammissibile l’azione giudiziale di accertamento preventivo del debito tributario (cfr. Cass. n. 103 del 12 marzo 2001
b) i tempi di formazione del giudicato di fatto non sono compatibili con la necessità propria dell’interpello di avere una risposta definitiva in tempi brevi;
c) mentre la risposta all’interpello vincola solo l’ente impositore interpellato e non l’interpellante, il giudicato dovrebbe invece vincolare entrambi. A conferma di quanto affermato, si può richiamare la consolidata posizione della Suprema Corte secondo cui la tutela del contribuente “può svolgersi solo attraverso l’impugnazione di specifici atti impositivi dell’Amministrazione finanziaria, nell’inammissibilità di ogni accertamento preventivo, positivo o negativo del debito di imposta, sia dinanzi alle Commissioni tributarie, che dinanzi al giudice ordinario (cfr. Cass., SS.UU., n. 103/2001)” (Cass., SS. UU., n. 6224 del 21 marzo 2006). Dal carattere di “impugnazione” del processo tributario discende l’individuazione specifica da parte del legislatore degli atti “tipici” impugnabili innanzi al giudice, fra i quali non è ricompreso l’interpello proprio perché con esso l’Amministrazione non definisce il contenuto della pretesa tributaria. La Cassazione, nell’affrontare il tema dell’impugnabilità di un atto non ricompreso nell’elenco di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, ha sottolineato nella sentenza n. 16293 del 24 luglio 2007 come “ai fini dell’accesso alla giurisdizione tributaria debbano essere qualificati come avvisi di accertamento o di liquidazione di un tributo tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita…. Cioè appare essenziale, perché si possa parlare di avviso di accertamento o di liquidazione, che il testo manifesti una pretesa tributaria compiuta e non condizionata, ancorché accompagnata dalla sollecitazione a pagare spontaneamente per evitare spese ulteriori (o anche essere ammesso a qualche beneficio)”, mentre non sono impugnabili quegli atti che “manifestano una volontà impositiva ancora in itinere e non formalizzata in un atto cancellabile solo in via di autotutela (o attraverso l’intervento del giudice).” L’impugnazione della risposta agli interpelli configurerebbe una vera e propria azione di accertamento negativo nei riguardi dell’Amministrazione finanziaria, che è improponibile in quanto “secondo l’orientamento espresso da queste Sezioni Unite, la proposizione di un’azione di accertamento negativo innanzi al giudice tributario, ‘pur essendo considerata estranea al modulo di tale processo, che deve essere necessariamente introdotto con l’impugnazione di specifici atti, non dà luogo ad un’ipotesi di difetto di giurisdizione, ma soltanto ad un’improponibilità della domanda, essendo la giurisdizione attribuita in via esclusiva e ratione materiae, e non in considerazione dell’oggetto della domanda…’ (Cass. S.U. n. 20889 del 2006, in motivazione; v. nello stesso senso Cass. S.U. n. 103 del 2001; 6224 del 2006)” (Cass., SS.UU., n. 24011 del 20 novembre 2007). Infatti, “Certamente l’azione di accertamento negativo è estranea alla struttura del processo tributario innanzi alle commissioni tributarie, prevedendo la regola di diritto emergente dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, nel testo applicabile ratione temporis (e la situazione non è oggi diversa, alla luce del combinato disposto del novellato art. 2 e dell’art. 19 del medesimo decreto), che la tutela del contribuente si attui mediante la proposizione di ricorsi avverso specifici atti di accertamento o di imposizione dell’amministrazione finanziaria ovvero avverso il rigetto di istanze di rimborso di somme indebitamente pagate.” (citata Cass., SS.UU., n. 24011 del 2007).
NOTE
(1) Secondo la circolare n. 22/E del 16 maggio 2005 dell’Agenzia delle Entrate i provvedimenti delle direzioni regionali che comunicano la non iscrizione o la cancellazione dall’Anagrafe Onlus costituiscono atti di diniego o revoca di agevolazioni fiscali, come tali impugnabili ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, rientrando le relative controversie nell’oggetto della giurisdizione tributaria così come definita dall’art. 2 del citato decreto legislativo, come sostituito dall’art. 12, comma 2, della L. n. 448 del 28 dicembre 2001. Il provvedimento di cancellazione dall’Anagrafe Onlus, qualificato come atto che impedisce il godimento delle agevolazioni fiscali previste dal D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, rientra nella previsione che include tra gli atti impugnabili in sede di contenzioso tributario “il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari” [art. 19, comma 1, lettera h), del D.Lgs. n. 546/1992].
(2) L’Amministrazione finanziaria può disconoscere in sede di accertamento l’operatività di un’agevolazione od esenzione fiscale invocata dal contribuente senza essere tenuta a formalizzare detto diniego in apposito atto. Parimenti, l’atto di diniego – equiparato ai fini dell’autonoma impugnabilità all’avviso di accertamento – non è soggetto alle disposizioni in tema di decadenza dell’azione di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973(Sent. n. 16250 del 23 luglio 2007 della Corte Cass., Sez. tributaria)
(3) È condivisibile l’affermata tipicità degli atti impugnabili, ex art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, mentre va approfondita l’asserita impossibilità, sotto il profilo logico-giuridico, di inquadrare il diniego di disapplicazione ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 tra i dinieghi di agevolazioni di cui alla lettera h) del comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992.Giova, a tale riguardo, precisare che l’interpretazione estensiva dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, tollerata dall’elencazione tassativa degli atti impugnabili, permette di affermare che è corretto propugnare l’impugnazione dinanzi alla Commissione tributaria di un atto che, al di là della qualificazione formale (nomen attribuito) sia equipollente ad uno degli atti tipici per cui è ammesso il ricorso, atteso che la qualificazione di un atto amministrativo deve essere effettuata con riferimento al contenuto ed alle finalità che si intende perseguire; in buona sostanza, per verificare se un atto è suscettibile di autonoma impugnazione occorre fare riferimento alla sua sostanza e non al nomen attribuito; l’atto di diniego di disapplicazione è equiparabile al diniego di agevolazione di cui all’art. 19, comma 1, lettera h), del D.Lgs. n. 546/1992; c’è equiparazione ontologica e funzionale tra l’atto di diniego espresso di agevolazioni di cui all’art. 19, comma 1, lettera h), del D.Lgs. n. 546/1992 e l’atto di diniego di disapplicazione della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973( Carmela Lucariello, Tutela giurisdizionale differita o negata per le società di comodo in “il fisco” n. 13 del 2 aprile 2007, pag. 1845). La risposta negativa fornita dall’Agenzia delle Entrate in merito all’istanza di interpello formulata dal contribuente ai sensi della disciplina relativa alle società non operative, giusta la quale sia richiesta la disapplicazione della menzionata normativa, può costituire atto impugnabile davanti al giudice tributario in quanto assimilabile al diniego o revoca di agevolazioni, ex art. 19, comma 1, lett. h), D.Lgs. n. 546/1992(Sent. n. 93 del 15 aprile 2008 della Comm. trib. prov. di Lecce, Sez. V). La risposta negativa all’istanza di interpello formulata nei confronti della D.R.E. e resa al contribuente non è suscettibile di impugnazione davanti alla giurisdizione tributaria, né può ricondursi ad un provvedimento di diniego di agevolazioni ex art. 19, comma 1, lett. h), del D.Lgs. n. 546/1992.( Sent. n. 108 del 2 maggio 2008 della Comm. trib. prov. di Milano, Sez. VIII).
Angelo Buscema
12 Marzo 2009
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ALLEGATO
Dec. n. 414 del 26 gennaio 2009 (ud. del 25 novembre 2008) del Consiglio di Stato, Sez. IV
Fatto – La società Lucchini S.p.a. ha impugnato la sentenza con la quale il T.A.R. della Lombardia ha dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, il ricorso dalla stessa proposto avverso il provvedimento (prot. nr. 2005/59844 del 10 ottobre 2005) con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva respinto l’istanza di disapplicazione, ai sensi dell’art. 37-bis, comma VIII, del d.P.R. 29 settembre 1973, nr. 600, delle disposizioni antielusive in relazione a due operazioni aventi a oggetto, rispettivamente, il trasferimento della maggioranza del proprio capitale sociale a nuovi azionisti e la fusione con altra società.
A sostegno dell’impugnazione, ha dedotto:
1) violazione dell’art. 111, comma VI, Cost.; difetto di motivazione; violazione dei precetti di rango costituzionale di cui agli artt. 24, 25, comma I, 53, 102, comma II, 103, comma I, 111, commi I e II, Cost.; violazione degli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, nr. 2248; violazione degli artt. 7, comma V, e 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, nr. 546, nonché dell’art. 7, comma IV, del d.P.R. 27 luglio 2000, nr. 212 (in relazione all’erronea declaratoria di insussistenza della giurisdizione dell’adito giudice amministrativo);
2) violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.; falsa e inesatta applicazione dell’art. 34 della legge 6 dicembre 1971, nr. 1034, sulla remissione in termini, letto alla luce degli artt. 30 e 35, comma II, della stessa legge, dell’art. 50 c.p.c., nonché degli artt. 382, comma I, e 367, comma II, c.p.c., da cui si ritrae la regola della translatio iudicii valevole anche in presenza di una pronuncia del giudice di merito con cui declina la giurisdizione, anche in assenza di errore scusabile; violazione del precetto espresso nella sentenza additiva di principio della Corte Costituzionale 5-12 marzo 2007, nr. 77, per cui devono essere fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda di tutela giurisdizionale proposta avanti a giudice sprovvisto di giurisdizione (in via subordinata, con riferimento alla reiezione da parte del giudice di primo grado della anzi detta domanda di remissione nei termini).
Tanto premesso, per l’auspicata ipotesi di accoglimento della doglianza di cui sub 1), e quindi di affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo, l’appellante ha riproposto come segue le censure di merito articolate in primo grado:
3) erronea presupposizione in fatto e in diritto; violazione delle norme di cui agli artt. 3, 41 e 53 Cost.; violazione dell’art. 37-bis, comma VIII, d.P.R. nr. 600 del 1973; violazione delle statuizioni interpretative di cui alla sentenza della Corte di giustizia CE 17 luglio 1997, nr. C-28/95; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 3 della legge 7 agosto 1990, nr. 241, e 7 dello Statuto del contribuente; carenza istruttoria; violazione del principio del giusto procedimento; eccesso di potere (in relazione all’erronea affermazione di insussistenza, nella specie, dei presupposti per la chiesta disapplicazione delle norme antelusive).
Le Amministrazioni appellate si sono costituite, opponendosi sotto tutti i profili all’accoglimento dell’appello.
All’udienza del 25 novembre 2008, la causa è stata ritenuta per la decisione.
DIRITTO
1. L’appello è infondato e, pertanto, meritevole di reiezione. In particolare, va condivisa la conclusione raggiunta dal giudice di primo grado in ordine all’insussistenza, nel caso che occupa, della giurisdizione del giudice amministrativo.
2. Oggetto della presente impugnazione è il provvedimento con il quale l’Amministrazione finanziaria, in riscontro ad apposita istanza inoltrata dalla società appellante, ha opposto il proprio diniego alla richiesta di disapplicazione della normativa antielusiva, ai sensi dell’art. 37-bis, comma VIII, del d.P.R. 29 settembre 1973, nr. 600, in relazione a talune operazioni societarie poste in essere dalla stessa appellante.
Il ridetto art. 37-bis, come è noto, è stato introdotto nella disciplina in materia di accertamento delle imposte sui redditi dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, nr. 358; la specifica normativa regolamentare relativa alle modalità per la richiesta e l’ottenimento della disapplicazione di cui al comma VIII è contenuta nel d.m. 19 giugno 1998, nr. 259.
3. Tanto premesso, parte appellante assume l’erroneità della statuizione di primo grado, laddove ha ritenuto che le controversie inerenti alle determinazioni amministrative in ordine all’istanza tesa alla disapplicazione de qua appartengano alla giurisdizione tributaria anziché a quella amministrativa ai sensi dell’art. 19, lettera h), del d.lgs. 31 dicembre 1992, nr. 546, trattandosi di provvedimenti latamente assimilabili alla categoria del diniego o della revoca di agevolazioni.
Tale assunto si fonda su una serie di argomentazioni estremamente articolate, che possono così riassumersi:
– il diniego di disapplicazione delle norme antielusive non potrebbe essere assimilato ai provvedimenti di cui all’art. 19, lettera h), d.lgs. nr. 546 del 1992, non trattandosi né di diniego né di revoca di agevolazioni in senso proprio, bensì di determinazione in ordine alla facoltà, riconosciuta ex lege all’amministrazione finanziaria, di non applicare in singoli casi una normativa (quella antielusiva) ordinariamente applicabile, che penalizza il contribuente;
– tale determinazione conseguirebbe a una valutazione discrezionale dell’amministrazione finanziaria, rispetto alla quale la posizione del contribuente che chiede la disapplicazione avrebbe chiaramente consistenza di interesse legittimo;
– i provvedimenti in questione, pertanto, oltre a rientrare nel più ampio genus degli atti tipicamente assoggettati alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, non rientrano fra quelli che il precitato art. 19 d.lgs. nr. 546 del 1992, con elencazione tassativa, dichiara impugnabili dinanzi al giudice tributario;
– neanche potrebbe affermarsi, peraltro, che la determinazione de qua possa essere conosciuta incidentalmente dal giudice tributario, ai sensi dell’art. 7, comma V, dello stesso d.lgs. nr. 546 del 1992, trattandosi di atto che palesemente conclude il procedimento di accertamento sulla spettanza o meno della disapplicazione, e che quindi non può dirsi avere natura meramente endoprocedimentale;
– l’opposto avviso esporrebbe il contribuente da un lato alla necessità di assoggettarsi alla normativa antielusiva per poi successivamente impugnare la cartella esattoriale, con conseguente applicazione della regola del solve et repete già dichiarata incostituzionale, e per altro verso comporterebbe il rischio che siffatta impugnazione della cartella esattoriale possa essere dichiarata inammissibile, essendo l’atto impugnato in parte qua meramente esecutivo o confermativo della determinazione di diniego della disapplicazione a suo tempo adottata dall’Amministrazione.
4. Tali rilievi, pur estremamente suggestivi e non privi di coerenza logica, tuttavia non persuadono.
4.1. Ed invero, principiando dall’osservazione in ordine alla natura della situazione giuridica soggettiva che connota il contribuente che abbia chiesto la disapplicazione delle disposizioni antielusive, è evidente – e difatti anche parte appellante lo riconosce – che la qualificazione di essa come interesse legittimo non è ex se sufficiente ad attribuire la relativa controversia alla cognizione del giudice amministrativo.
A ciò va aggiunto che tale qualificazione non è neanche di per sé in contrasto con l’impostazione del primo giudice, che ha ricondotto la disapplicazione de qua alla categoria delle “agevolazioni” il cui diniego o la cui revoca sono contemplati dalla lettera h) dell’art. 19 d.lgs. nr. 546 del 1992.
Al riguardo, è sufficiente richiamare il pluridecennale dibattito dottrinario sulla nozione di “agevolazione tributaria“, la quale – come noto – non trova una sua precisa e puntuale definizione nella normativa positiva: per quanto qui interessa, è ampiamente diffuso l’avviso secondo cui – contrariamente a quanto sembra presupporre l’odierna appellante – detta nozione non implica affatto che il contribuente sia titolare sempre e in ogni caso di un vero e proprio diritto soggettivo all’agevolazione, essendo tutt’altro che infrequenti ipotesi in cui questa consegue a una valutazione discrezionale dell’amministrazione finanziaria, a fronte della quale la posizione del soggetto passivo del rapporto tributario acquisisce i connotati tipici dell’interesse legittimo.
4.2. Al di là di ciò, il Collegio reputa che la stessa questione della qualificabilità o meno della disapplicazione ex art. 37-bis, comma VIII, d.P.R. nr. 600 del 1973 come agevolazione tributaria sia scarsamente conferente rispetto alla soluzione del quesito circa l’attribuzione della giurisdizione per la relativa controversia.
Per meglio comprendere tale affermazione, occorre muovere da una lettura sistematica delle norme che delimitano oggi l’area della giurisdizione tributaria, in coerenza con la ratio che ha ispirato la riforma da ultimo attuata con la legge 28 dicembre 2001, nr. 448.
In tale sede, come noto, si è proceduto a “riscrittura” dell’art. 2 del d.lgs. nr. 546 del 1992, a mente del quale oggi: “…Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio“, mentre ne restano escluse “soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602“.
Con tale disposizione, secondo la dominante giurisprudenza, la giurisdizione tributaria è stata resa “generale”, con attribuzione alla stessa di tutte le controversie relative al rapporto tributario lato sensu inteso (cfr. ex multis Cass. civ., SS.UU., 10 agosto 2005, nr. 16776).
Da ciò discende che l’art. 19 del medesimo d.lgs. nr. 546 del 1992, innanzi citato, va letto in stretta connessione con la disposizione di principio testé richiamata: segnatamente, se è vero che lo stesso richiama, con elencazione tassativa, gli atti impugnabili innanzi al giudice tributario, ciò non implica affatto che gli atti esclusi da tale elencazione sfuggano sic et simpliciter alla giurisdizione generale ex art. 2, per ricadere nella cognizione di altra autorità giurisdizionale.
Infatti, l’unico modo di coniugare le due disposizioni non può che essere quello di ritenere che con l’art. 19 il legislatore intenda dettare una mera regola tecnica, escludendo che possa essere oggetto di impugnazione ogni e qualsiasi atto astrattamente adottabile dall’amministrazione nell’ambito del rapporto tributario, e anzi – al contrario – ponendo un numerus clausus di atti impugnabili: opzione normativa che certamente rientra nella discrezionalità legislativa ed è giustificata, a tacer d’altro, da evidenti esigenze di certezza e speditezza dell’accertamento dell’obbligazione tributaria, il cui iter procedimentale non si tollera possa essere ostacolato o rallentato da iniziative giudiziarie del contribuente, se non in presenza di specifici atti “tipizzati” una volta e per tutte dalla legge.
4.3. A fronte di tale lettura del quadro normativo in subiecta materia, è vano richiamare il carattere non endoprocedimentale della determinazione ex art. 37-bis, comma VIII, d.lgs. nr. 546 del 1992.
Infatti, se è vero che il già richiamato d.m. nr. 259 del 1998 certamente delinea l’iter conseguente all’istanza di disapplicazione come un procedimento autonomo, destinato a concludersi con un provvedimento che può dirsi definitivo a tutti gli effetti, ciò nulla muta rispetto alle conclusioni cui si è pervenuti al punto che precede.
È evidente, infatti, che la scelta del legislatore di dettare un’elencazione tassativa di atti immediatamente impugnabile prescinde totalmente dalla qualificazione degli stessi come endoprocedimentali o meno; sicché, ben può darsi che anche atti definitivi restino esclusi da tale numerus clausus, non risultando quindi autonomamente impugnabili.
4.4. Orbene, se i rilievi fini qui svolti sono veri, non appare condivisibile neanche un ulteriore argomento di parte appellante, e cioè quello secondo cui la non impugnabilità del diniego de quo comporterebbe che esso potrebbe essere unicamente disapplicato dal giudice tributario, ex art. 7, comma V, d.lgs. nr. 546 del 1992, con conseguente impossibilità di una sua rimozione dal mondo del diritto.
Al riguardo, va anzi tutto rilevato che il ridetto art. 7, comma V, è letteralmente riferito ai soli regolamenti ed atti generali che, in ipotesi, possano costituire il presupposto su cui si fonda l’atto impugnato; laddove l’ipotesi in esame andrebbe più correttamente ricondotta alla cognizione incidenter tantum di “ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie“, che l’ultimo comma del citato art. 2 attribuisce alle commissioni tributarie (con la sola eccezione di quelle in materia di querela di falso e sullo stato e la capacità delle persone).
Tanto premesso, non può affatto escludersi (e, anzi, discende dall’applicazione del principio generale di cui al primo comma dell’art. 2) che nell’ambito di tale cognizione il giudice tributario abbia il potere non solo di disapplicare, ma anche di annullare, tutti gli atti non generali, che il contribuente abbia ritenuto di impugnare unitamente a un atto rientrante nell’elencazione di cui all’art. 19, in quanto ne costituiscono il presupposto o l’antecedente logico-giuridico.
Insomma, si tratta di situazione non diversa da quella che si verifica nel processo amministrativo, laddove un parere, ancorché non immediatamente impugnabile, può essere impugnato unitamente al provvedimento conclusivo del procedimento e, laddove in esso parere si sia verificato il vizio di legittimità, può certamente essere annullato dal giudice amministrativo unitamente al provvedimento stesso.
4.5. L’interpretazione qui sostenuta non comporta i rischi di incostituzionalità paventati dall’appellante, dovendo quindi dichiararsi manifestamente infondata la questione sul punto articolata (ancorché in via subordinata).
In particolare, detta interpretazione non implica una riproposizione del principio del solve et repete, già da tempo dichiarato incompatibile con svariati precetti costituzionali.
Infatti, tale incompatibilità investe le norme che subordinino l’iniziativa giudiziale del contribuente, quale condizione di proponibilità dell’azione, al previo pagamento del tributo contestato (tale essendo, nella sua corretta accezione, la regola solve et repete); laddove nella specie nulla di tutto questo è previsto, rinvenendosi unicamente un meccanismo processuale che consente l’immediata impugnazione di taluni atti e non di altri, regolamentando il diritto di azione del contribuente, piuttosto che limitarlo.
Nemmeno può parlarsi di violazione del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, comma VI, Cost., atteso che non si è in presenza di norme che allunghino irragionevolmente i tempi del giudizio, ma di una disposizione che – anzi – proprio perché ne differisce l’avvio al verificarsi di determinati presupposti, opera in una fase anteriore al giudizio medesimo e non incide in alcun modo sulla sua durata.
5. I rilievi che precedono, se inducono a riaffermare l’inammissibilità della pretesa articolata in primo grado per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, servono anche a comprendere il perché non possa trovare accoglimento neanche la domanda di remissione in termini per la proposizione dell’azione dinanzi al giudice tributario, articolata sia pure in via subordinata.
Al riguardo, infatti, va condiviso l’avviso del primo giudice, che ha argomentato dalla non immediata impugnabilità del diniego qui censurato, per inferirne che in nulla è pregiudicato il diritto della società odierna appellante di impugnare, tempestivamente e a tempo debito, gli eventuali atti rientranti nella previsione dell’art. 19 d.lgs. nr. 546 del 1992, nei quali dovesse farsi applicazione delle disposizioni antielusive il cui esonero è stato negato con la nota oggetto del presente contenzioso.
6. Alla luce dei rilievi che precedono, restano altresì assorbite le censure di merito articolate nel ricorso introduttivo avverso il provvedimento gravato, e riproposte ex extenso nella presente sede di appello.
7. In considerazione della complessità delle questioni affrontate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese relative a entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione IV, respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.