La disciplina sanzionatoria esonera da responsabilità il contribuente che abbia omesso il pagamento del tributo per fatto esclusivamente imputabile al terzo, all’uopo denunciato all’Autorità giudiziaria.
Con sentenza n. 26848 del 7 novembre 2007 (dep. il 20 dicembre 2007) la Corte di Cassazione ha affermato che la disciplina sanzionatoria esonera da responsabilità il contribuente che abbia omesso il pagamento del tributo per fatto esclusivamente imputabile al terzo, all’uopo denunciato all’Autorità giudiziaria, non rilevando gli ulteriori elementi richiesti dall’art. 1 della Legge n. 423 del 1995 in tema di sospensione del ruolo.
Il fatto
L.M. propose ricorso avverso l’avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio – sulla scorta delle risultanze di un p.v.c. della G.d.F. – le aveva contestato l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ed il conseguente mancato versamento delle imposte irpeg ed ilor per l’anno 1991, con applicazione degli interessi di legge ed irrogazione delle correlative pene pecuniarie.
A fondamento del ricorso, la M. esponeva di essere stata truffata dalla propria consulente fiscale, M.N., la quale aveva trattenuto le somme a lei corrisposte per i versamenti delle imposte, anziché versarle all’Amministrazione Finanziaria.
La contribuente richiese pertanto, tra l’altro, l’annullamento delle sanzioni irrogate, rilevando che si verteva in tema di illecito determinato dal comportamento fraudolento di terzi.
Per il profilo considerato, il ricorso della contribuente fu accolto dall’adita commissione tributaria, che annullò le pene pecuniarie irrogate.
La decisione fu confermata dalla commissione regionale, con riferimento alla previsione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art.6, comma 3 (“Il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitatile esclusivamente a terzi”), ritenuta applicabile – in forza del criterio legale di applicazione della legge più favorevole sancito dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3.
Avverso la decisione di appello, l’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art.1; L. n. 423 del 1995, art.1 e D.Lgs. n. 472 del 1997, art.6, nonché insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia.
In particolare, l’Amministrazione finanziaria censura la decisione impugnata, non contestando l’applicabilità alla fattispecie della previsione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art.6, comma 3, ma sostenendo che il giudice di appello ha, per un verso, omesso di considerare che la responsabilità penale del professionista non era ancora stata accertata con decisione passata in giudicato e, per l’altro, erroneamente ritenuto di poter autonomamente disporre lo sgravio delle sanzioni e delle penalità irrogate ai fini degli accertamenti in questione, pur non essendo stata all’uopo esperita la procedura amministrativa di cui alla L. n. 423 del 1995.
L’Amministrazione ricorrente muove infatti dal presupposto che la previsione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art.6, comma 3, opererebbe in funzione di mera integrazione di quella di cui all’articolo unico L. n. 423 del 1995, sicchè l’esenzione del contribuente dalle sanzioni resterebbe condizionata agli adempimenti e alle formalità prescritte da tale legge. Sarebbe, dunque, precluso al giudice tributario di anticipare, in sede di sindacato giurisdizionale di un avviso di accertamento, gli effetti eventualmente favorevoli di cui potrebbe beneficiare il contribuente solo nella fase di riscossione, ove risultassero sussistenti tutti i presupposti dello sgravio.
La sentenza
Per il giudici di Cassazione, il ricorso è infondato.
A riguardo, i giudici premettono che risulta intangibilmente acquisito che, nella specie, ricorrono le condizioni per l’applicazione – in forza del criterio legale di applicazione della legge più favorevole sancito dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3 – della disposizione di cui all’art.6, comma 3, del medesimo testo normativo, in forza della quale “Il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”.
Ciò posto, osserva la Corte, “il chiaro tenore della disposizione e la sua collocazione (nel testo normativo contenente lo statuto generale delle sanzioni amministrative in campo tributario) inducono a ritenere che, nella prospettiva della norma, la non punibilità del contribuente, in sede contenziosa, presupponga esclusivamente la convincente dimostrazione del fatto che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto addebitabile esclusivamente a terzi e denunciato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dalla ricorrenza delle ulteriori condizioni previste dalla L. n. 423 del 1995, art.1, per la sospensione del ruolo a carico del contribuente e la sua commutazione in capo al professionista responsabile della violazione”.
L’art. 6, comma 3, D.Lgs. contempla, dunque, una disciplina autonoma ed autosufficiente, che non va integrata con quella di cui all’articolo unico della L. n. 423 del 1995, che è norma che opera sul diverso piano della riscossione e della commutazione del ruolo in capo al professionista responsabile.
Del resto, già con riferimento alla situazione normativa precedente al D.Lgs. n. 472 del 1997, la Corte ha avuto modo di puntualizzare (cfr. Cass. 17578/02) che, in sede contenziosa, “il contribuente, in presenza di condotta penalmente illecita del professionista, va esente da responsabilità per le sanzioni, indipendentemente dal rispetto degli adempimenti procedurali ed alle altre condizioni previste dalla legge medesima”.
La responsabilità del professionista
Pur se l’intervento della Cassazione investe la truffa operata da un professionista nei confronti di un proprio cliente, possiamo ritenere, in ogni caso, di trovarci nel vasto campo della responsabilità professionale.
La sentenza qui esaminata segue a due precedenti e articolate sentenze – la n. 12289 del 4 marzo 2004 (depositata il 5 luglio 2004 (1)) e la n. 10966 del 14 gennaio 2004 (depositata l’8 giugno 2004[2]) – con cui la Corte di Cassazione è intervenuta in materia di professioni intellettuali, relativamente alle questioni tributarie.
Da una parte, affermando, che “costituisce valutazione di merito non sindacabile in sede di legittimità il giudizio della Corte d’Appello che abbia escluso la stipulazione fra una società ed un legale sia del contratto di clientela (con cui avrebbe assunto la generica cura degli interessi della società in ordine ad un accertamento Iva, con libertà di scelta dei mezzi più opportuni) sia del mandato professionale in ordine alla impugnazione di avvisi di accertamento Iva, pur materialmente consegnati al professionista, ma senza conferimento di specifiche procure”, e dall’altra, che “non è sindacabile in sede di legittimità – se correttamente motivata – la valutazione del giudice di merito circa la colpa del professionista (nella specie commercialista); in particolare non presenta vizi logici la considerazione secondo cui il professionista se avesse esaminato con la dovuta diligenza gli atti tributari notificati al proprio cliente, constatando che essi contenevano avvisi di accertamento, avrebbe provveduto all’impugnazione degli atti stessi, data l’aspettativa di un imminente provvedimento di condono”, così come “non è sindacabile in sede di legittimità – se correttamente motivata – la valutazione del giudice di merito circa il presumibile esito di una controversia, ai fini della quantificazione del danno cagionato dalla colpa del professionista che non abbia impugnato un accertamento tributario”.
Ai fini della responsabilità occorre che l’azione od omissione sia cosciente, volontaria, e colpevole.
Pertanto, per potersi configurare la responsabilità è necessario che la violazione sia commessa quanto meno con colpa, e per raffigurare una violazione punibile a carico del consulente per l’attività prestata per la soluzione di problemi di particolare complessità, occorre almeno la colpa grave.
La circolare n.180/E/1998 ha affermato, quanto alla nozione di colpa, che il reato è colposo “quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Per l’esistenza della colpa è necessario che il fatto sia accompagnato da negligenza – intesa come mancanza o insufficiente attenzione o sollecitudine -, imprudenza – intesa come avventatezza o insufficiente ponderazione e cautela -, o imperizia – quale insufficiente preparazione o inettitudine, di cui l’agente non abbia tenuto conto -.
Sul punto, la nota dell’A.F. ha puntualizzato che “l’imperizia colpevole non è soltanto quella di colui che, in relazione all’attività che gli è propria, si deve ritenere in grado di conoscere ed interpretare correttamente la legge, ma anche quella di colui che, non essendo in grado di curare personalmente l’adempimento degli obblighi fiscali, è però in condizione di rendersi conto della insufficienza delle sue cognizioni e della necessità di sopperire a tale insufficienza. In ultima analisi, ciò che si pretende è che ciascuno operi, di persona o ricorrendo all’ausilio di altri, tenendo un comportamento caratterizzato da diligenza e prudenza”.
Concetta Pagano
19 Gennaio 2009
NOTE
(1) In particolare, nei fatti oggetto della sentenza n. 12289 del 4 marzo 2004, una società di persone chiamò in giudizio un professionista, chiedendo il risarcimento del danno ricevuto, per negligenza nell’espletamento dell’incarico professionale relativo all’impugnazione di avvisi di accertamento in materia di Iva. Il Tribunale accolse la domanda nei limiti della somma di lire 23.000.000 contro i 350 milioni di lire richiesti. La Corte di appello ha, invece, rigettato la domanda proposta nei confronti del tributarista, dichiarando, fra l’altro, che non era stata data la prova del conferimento dell’incarico professionale, né per agire in giudizio, né per impugnare gli avvisi di rettifica Iva, né per svolgere un mandato professionale per ogni futura e successiva vicenda impositiva che fosse scaturita dal verbale della Guardia di finanza, dal quale erano derivati, per relationem, gli avvisi di rettifica dell’Iva. La Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso della società, evidenziando che il contratto di clientela ed il mandato professionale sono contratti distinti: “ il primo può avere contenuti vari, con riferimento ai quali si possono configurare rapporti diversi: quello di vera e propria para subordinazione; quello di mandato professionale specifico; quello, più generico, corrispondente allo schema atipico del “do ut facias”, …..mentre il mandato professionale ad un avvocato realizza, invece, il cosiddetto contratto di patrocinio, con il quale il professionista assume l’incarico di rappresentare la parte in giudizio”. Nel caso in questione, la Corte d’appello di Bologna ha escluso la configurazione del contratto di clientela, atteso che era “rimasto totalmente non provato” che gli attuali ricorrenti avessero conferito “un mandato comprensivo di ogni e futura e successiva vicenda impositiva, che fosse scaturita dal verbale della Guardia di finanza”, così come del mandato professionale avente ad oggetto la presentazione dei ricorsi tributari in materia di Iva, in quanto pur non essendo decisivo il conferimento della procura, trattandosi di contratto che non è soggetto a particolari oneri di forma, “ l’atto di accertamento tributario, in ragione della varietà delle contestazioni in esso contenute, presupponeva un mandato professionale distinto per ogni tipo di contestazione, l’esistenza del quale non si poteva semplicemente presumere”.
(2) Un professionista conveniva in giudizio una società di assicurazione per ottenerne la condanna al pagamento di un indennizzo dovutogli per responsabilità civile per i danni involontariamente cagionati a terzi nell’esercizio della sua attività professionale di commercialista. La controversia nasceva dal fatto che dal legale rappresentante di una società sua cliente gli erano stati consegnati, per tutti i necessari adempimenti, otto processi di constatazione con avviso di accertamento e due processi verbali di constatazione ed avvisi di irrogazione di sanzioni, e che egli, senza avvedersi che gli atti in questione erano di fatto già atti di accertamento ed avvisi di irrogazione di sanzioni, aveva consigliato di non procedere alla oblazione delle pene pecuniarie e di attendere la notificazione di successivi avvisi per impugnarli innanzi alla competente Commissione tributaria di I grado. In pratica aveva guardato solo i p.v.c., omettendo invece la lettura dei successivi atti impositivi. Accortosi dell’errore, scaduto il termine di impugnazione, ne aveva informato il cliente ed aveva denunciato il sinistro alla società di assicurazione. La società V.A. S.p.a contrastava la pretesa e rilevava che il professionista non poteva non essersi accorto della natura degli atti, evidenziando fra l’altro che non era stato dimostrato che l’impugnazione diretta a far dichiarare l’illegittimità delle sanzioni, se proposta, avrebbe avuto riscontro positivo. Il Pretore adito rigettava la domanda. Il Tribunale di Pesaro, invece, condannava l’assicurazione a pagare al professionista la somma reclamata, ed a restituirgli quanto l’appellante aveva corrisposto per evitare l’esecuzione in suo danno della sentenza di primo grado. I giudici d’appello fondavano la propria sentenza, fra l’altro, sulla constatazione della negligenza del professionista, che non aveva compiuto un esame accurato degli atti, rilevando, comunque, l’assenza di dolo, posto che la controversia avrebbe potuto avere la ragionevole certezza di essere accolta in base alle argomentazioni di prassi e giurisprudenza. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società assicuratrice deducendo che non si era trattato di errore attribuibile a colpa del professionista, ma di una deliberata scelta, che non poteva essere esclusa dalla postuma resipiscenza, derivante dalla sopraggiunta normativa di favore della chiusura delle liti pendenti. I Giudici Supremi, rilevato che è pacifico nella giurisprudenza della Corte (ex plurimis: Cass. n. 1286/1998; Cass. n. 5264/1996; Cass. n. 4044/1994; Cass. n. 5325/1993), che “la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e che, in particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica l’indagine positiva del probabile esito positivo dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita” – giudizio prognostico correttamente compiuto sulla scorta della situazione giuridica e fattuale esistente al momento della colpevole omissione -, hanno rigettano il ricorso.