Intervento del giudice di legittimità
I dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso al conto corrente bancario di un professionista consentono di imputare in via presuntiva gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività di lavoro autonomo svolta dal contribuente, il quale può comunque provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della stessa attività. Tale prova deve però essere circostanziata e non può consistere nella mera affermazione che sul conto corrente confluivano anche somme di pertinenza di terzi. In buona sostanza ,nel contesto degli accertamenti operati sulla base dei dati ed elementi rinvenuti nei conti correnti intrattenuti con istituti di credito, l’Amministrazione finanziaria può fondare la pretesa tributaria fruendo della presunzione ex lege dettata in proprio favore onerando il contribuente di adeguata e circostanziata dimostrazione della prova contraria la quale non può risolversi in mere generiche attestazioni bensì deve consistere in elementi idonei a sminuire l’efficacia probatoria dei fatti posti a base della presunzione. Tale importante principio è stato statuito dalla sentenza n. 14847 del 5 giugno 2008 della Corte di Cassazione.
In particolare, l’iter logico giuridico adottato da tale pronuncia può essere così puntualizzata:
Ø Secondo la univoca giurisprudenza del giudice di legittimità, in tema di accertamento delle imposte sui redditi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, i dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un professionista consentono, in virtù della presunzione legale contenuta nella detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività di lavoro autonomo svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività (v. tra le altre cass. n. 4601 del 2002 cit.) e che pertanto, in relazione alla suddetta presunzione concernente gli elementi risultanti dagli accertamenti bancari, si determina una inversione dell’onere della prova, per cui, a differenza di quanto affermato nella sentenza impugnata, deve ritenersi che l’Amministrazione abbia fornito la prova dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria e spetta al contribuente fornire adeguata e specifica prova contraria.
Ø Secondo la giurisprudenza di legittimità, la suddetta prova contraria deve essere circostanziata e non può consistere nella mera affermazione che sul conto corrente confluivano anche somme di pertinenza di terzi, avendo in particolare
Ø E’ peraltro da aggiungere l’assoluta irrilevanza, ai fini dell’operatività della presunzione de qua, del decesso del contribuente subito dopo l’inizio della verifica e della conseguente mancanza della sua firma in calce al relativo verbale, posto che, per giurisprudenza costante, la legittimità della utilizzazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, dei movimenti dei conti correnti bancari non è condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell’accertamento, atteso che l’art. 32 prevede il contraddittorio come oggetto di una mera facoltà dell’amministrazione tributaria, non di un obbligo (v. cass. n. 4601 del 2002); che “l’utilizzazione da parte dell’amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari in disponibilità del contribuente, a fine di accertamento, è legittima anche in assenza di preventiva convocazione dell’interessato” (v. cass. n. 10964 del 2007); infine che, in tema di accertamento delle imposte sul reddito, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, nella parte in cui prevede l’invito al contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari, non impone all’Ufficio l’obbligo di uno specifico e previo invito, ma gli attribuisce una mera facoltà, della quale può avvalersi in piena discrezionalità, con la conseguenza che “il mancato esercizio di tale facoltà non può quindi determinare l’illegittimità della verifica operata sulla base dei medesimi accertamenti, nè comporta la trasformazione della presunzione legale posta dalla norma in esame in presunzione semplice, con possibilità per il giudice di valutarne liberamente la gravità, la precisione e la concordanza, e con il conseguente onere per il Fisco di fornire ulteriori elementi di riscontro” (v. cass. n. 14675 del 2006).
Riflessioni
E’ applicabile anche ai professionisti e non solo a coloro che esercitano attività di’impresa la presunzione di cui all’art. 32, 1° comma n. 2), del D.P.R. n. 600/1973 secondo cui tutti i versamenti sul conto corrente si presumono entrate di carattere professionale, e spetta al contribuente fornire la prova contraria (Sent. n. 11750 del 18 febbraio 2008 dep. il 12 maggio 2008 della Corte Cass., Sez. tributaria).
L’inversione dell’onere della prova, iscritta espressamente in tale norma, è infatti tipico ed unico effetto della praesumptio juris (Cass. nn. 1087/2000, 10631/1998), di cui segnala immancabilmente l’esistenza, al di là delle parole usate.
Principale conseguenza dell’esistenza di una presunzione legale, è che colui a favore del quale sia stabilita (nella specie, l’amministrazione finanziaria) è dispensato dal dover fornire “qualunque” prova (articolo 2728, 1° co, c.c.) della sua pretesa.
L’Amministrazione può utilizzare i dati che emergono dai movimenti di conto corrente bancario del contribuente lavoratore autonomo (incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare quali operazioni non siano espressione di attività imponibile), e non è tenuta a contestare preventivamente i dati acquisiti al contribuente per consentirgli di fornire spiegazioni (Sent. n. 19330 del 7 giugno 2006 dep. l’8 settembre 2006 della Corte Cass., Sez. tributaria).
Tutte le somme che transitano sul cc sono considerate inerenti all’attività di lavoro autonomo, comprese quelle di “passaggio” che il contribuente definisce “somme affidate in amministrazione”. Per invalidare l’accertamento il professionista deve dimostrare che tali somme nulla centrano con la sua attività, e in tema di “passaggio” deve dare la prova analitica della inerenza alla sua professione di maneggio di denaro altrui per ogni singola movimentazione bancaria.
La disciplina fiscale dell’accertamento effettuato per il tramite di esame e riscontro di movimentazioni di conti correnti detenuti dal contribuente presso istituti di credito contempla l’inversione dell’onere della prova dovendosi presumere proventi imponibili le somme di cui ai versamenti ed ai prelevamenti. La prova contraria deve essere fornita in modo rigoroso (iscrizione in contabilità, individuazione dei beneficiari) e non può essere superata da presunzione semplice o circostanza desumibile secondo id quod plerumque accidit.( Sent. n. 13516 del 3 aprile 2008 dep. il 26 maggio 2008 della Corte Cass., Sez. tributaria).
La prova liberatoria, che consente di superare la presunzione legale secondo cui le movimentazioni dei conti correnti bancari legittimano l’accertamento, non può essere meramente generica e cioè relativa all’attività esercitata, ma deve essere specifica in relazione ad ogni singola operazione. Pertanto, è necessario fornire la prova specifica (rectius: analitica) della riferibilità di ogni movimentazione bancaria all’ attività di maneggio di danaro altrui, diversamente la rispettiva movimentazione, in assenza di altra idonea giustificazione, è configurabile quale provento non dichiarato (sentenza n. 13818 del 3 maggio 2007 dep. il 13 giugno 2007 della Corte Cass., Sez. tributaria).
La circostanza che la contribuente riceveva sul proprio conto corrente rimesse altrui non è idonea di per sé, ai fini di cui trattasi, ad escludere la totale imputabilità di tutte le movimentazioni bancarie direttamente all’intestataria del conto corrente in assenza di elementi contrari in tal senso.
La prova liberatoria ai fini di cui trattasi non può essere solo generica e cioè relativa all’attività esercitata, ma deve essere altresì, specifica in quanto, stante la presunzione di cui all’art. 51, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, se il contribuente utilizza il conto corrente a lui personalmente intestato anche per maneggio di danaro altrui deve fornire la prova specifica – rectius: analitica – della riferibilità di ogni movimentazione bancaria alla sua attività di maneggio di danaro altrui, diversamente la rispettiva movimentazione, in assenza di altra idonea giustificazione, è configurabile quale corrispettivo non dichiarato”.
In tema di accertamento dell’Irpef e dell’Iva, le presunzioni, stabilite dagli artt. 32 del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 2, n. 2), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo le quali i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti rispettivamente previsti dai successivi artt. 38 e 39 e 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, hanno un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime Iva, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti; essa può essere vinta dal contribuente il quale offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi si riferiscono ad operazioni imponibili” (cfr. Cass., sentenze n. 3929 del 2002, n. 2435, n. 8457 del 2001, n. 9946 del 2000 e n. 18421, n. 26692 e n. 28324 del 2005).
Secondo una precisa ricostruzione (Vd. da ultimo la circolare n. 32/2 del 19/10/2006 dell’Agenzia delle Entrate), il riscontro di flussi finanziari in entrata e in uscita dal conto corrente bancario possono essere presi e valutati dall’ufficio quali indicatori di reddito; trattasi, infatti, di una presunzione legale relativa o iuris tantum (sentenza n. 80 del 8 giugno 2006 della Commissione Tributaria Regionale di Roma sez. 26; Cassazione n. 19003 del 28 /09/2005) poiché la presunzione in questione data la fonte legale non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’articolo 2729 del c.c. per le presunzioni semplici; sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività d’impresa, se questi non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei (es. si pensi ai rimborsi di imposte; si pensi ai prelevamenti che sono stati impiegati, come si evince da idonea documentazione, per spese personali del contribuente o per donazioni o beneficenza ovvero per operazioni extra professionali) alla produzione del reddito.
Si verifica un’inversione dell’onere della prova (Cassazione n. 19330 del 7 giugno 2006), che impone al contribuente, posto di fronte alla documentazione di versamenti o prelevamenti evidenziati dai conti bancari o postali e non annotati nelle scritture contabili, di provare di averne tenuto conto nella determinazione del reddito o a fini Iva, o di provare l’estraneità alla tassazione, perché esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta.
I versamenti e i prelevamenti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti in quanto sono considerati come componenti positive di reddito occultate, in base ad una presunzione, qualora non si indichi il soggetto beneficiario e sempre che non risultino in contabilità.
I prelevamenti o gli importi riscossi non risultanti dalle scritture contabili, nel caso in cui il contribuente non ne indichi l’effettivo beneficiario (si pensi al pagamento di tangenti, di retribuzioni fuori busta o di acquisti in nero), sono considerati ricavi o compensi e sono accertati in capo allo stesso soggetto (ad. esempio se il fornitore non viene individuato è perché dal costo nero il professionista trae un compenso presumibilmente superiore allo stesso, poiché la mancata individuazione del percettore del costo sottende una preordinata convergenza evasiva di comune convenienza).
Dal punto di vista di imposizione indiretta gli importi accreditati sono considerati vendite di beni o prestazioni di servizi in nero e gli importi riscossi o prelevati rappresentano acquisti altrettanto in nero. L’utilizzazione da parte dell’Amministrazione finanziaria dei dati relativi ai movimenti bancari del contribuente costituisce valida prova presuntiva (Cass. n. 15447/2001), che esige, per essere disattesa, l’integrale prova liberatoria da parte del contribuente (Cass. n. 7329/2003; Cassazione sent. n. 8637 del 6 aprile 2007).
L’utilità dello strumento investigativo de quo risiede nella cosiddetta inversione dell’onere della prova, per cui spetta al contribuente dimostrare che gli incassi e i pagamenti sono stati regolarmente dichiarati (Cassazione, sentenza n. 2435 del 19/02/2001) oppure che non hanno alcuna rilevanza ai fini della determinazione del reddito; ad esempio, il contribuente, al fine di vincere la presunzione de qua, deve fornire concrete giustificazioni in ordine a ogni singolo movimento (Cassazione sentenza n. 18429 del 16 settembre 2005) bancario, non essendo in alcun modo sufficiente a questo scopo mere illazioni o supposizioni. Non è sufficiente per il contribuente sostenere che le entrate sono ad esempio le risultanze di vendite di immobili o di finanziamenti in conto capitale poiché occorre in tal caso la relativa idonea documentazione.
I prelevamenti esigui, occasionali e coerenti con il tenore di vita rapportabile al volume di affari dichiarato (si pensi, infatti, ai casi dei prelevamenti del professionista per fini di spese attinenti la sfera personale) non hanno rilevanza fiscale; i contribuenti interessati possono ritenersi sollevati dall’onere di fornire la predetta dimostrazione in relazione a prelievi che, avuto riguardo all’entità del relativo importo ed alle normali esigenze personali o familiari, possono essere ragionevolmente ricondotte nella gestione extra-professionale (si pensi ai ticket sanitari, le bollette per le lampade votive nei cimiteri, l’acquisto online di biglietti per spettacoli o manifestazioni sportive).
Angelo Buscema
21 Giugno 2008
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ALLEGATO
Sent. n. 14847 del 27 febbraio 2008 (dep. il 5 giugno 2008)
della Corte Cass., Sez. tributaria
Svolgimento del processo –
proposto dagli eredi di P.T. avverso avviso di accertamento emesso nei
confronti del predetto ai fini Irpef e Ilor per l’anno 1991.
Entrate di Caserta, rilevando che la sentenza impugnata era supportata da
precisi riscontri normativi e giurisprudenziali.
Rilevavano altresì i giudici d’appello che il decesso del contribuente appena iniziata la verifica (e perciò la mancanza della sua firma in calce al relativo verbale) avrebbero dovuto indurre l’Ufficio ad integrare gli accertamenti della Guardia di Finanza con elementi probatori idonei a confermare che le somme depositate presso gli istituti di credito
provenivano esclusivamente dall’attività professionale del T., mentre
l’Ufficio si era limitato e richiamare il verbale di accertamento, inidoneo
a costituire esclusiva fonte di prova, posto che dall’esame dei conti correnti emergeva una perfetta corrispondenza tra la voce “dare” e la voce “avere”, rendendo evidente che il T. aveva l’abitudine di far transitare sui suoi conti anche denaro non proprio e redditi terziari non identificati.
Secondo i giudici d’appello, occorreva considerare inoltre che, secondo gli eredi, alcune poste del conto erano riferibili all’attività politica espletata dal Dott. T. e per la quale egli doveva rendere conto al partito, ed inoltre che, essendo egli in comunione legale dei beni col coniuge, erano imputabili al T. solo la metà delle somme rinvenute sui conti correnti, al netto delle operazioni concernenti l’interscambio di assegni a titolo gratuito e l’organizzazione del partito nel quale il defunto militava.
Concludevano i giudici d’appello rilevando che non risultava fornita la
prova dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria.
Avverso questa sentenza ricorrono per cassazione il Ministero
dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate; resistono con controricorso F.M. e D.T., la prima in proprio e nella qualità di erede di
P.T., il secondo solo nella qualità.
Motivi della decisione – Col primo motivo, deducendo violazione
dell’art. 112 c.p.c., artt. 2697 c.c., nonché D.P.R. 22 dicembre 1986, n.
917, art. 22 ss., art. 41 ss., art. 51 ss., art. 81 ss., oltre che vizi di
motivazione, i ricorrenti rilevano che la sentenza fonda su argomentazioni
mai dedotte nel ricorso introduttivo nè successivamente deducibili.
In particolare, nel suddetto ricorso introduttivo non risulterebbe alcun
accenno ad attività extraprofessionali del T., tali da far presumere che le
somme sui suoi conti potessero essere riferibili a terzi, nè ad una riferibilità per metà dei conti in esame al coniuge in comunione di beni, argomento peraltro inadeguato, secondo i ricorrenti, perchè anche la moglie del T. era destinataria dell’avviso impugnato e quindi parte ricorrente in proprio, oltre che nella qualità di erede.
Secondo i ricorrenti, inoltre, la sentenza impugnata ometterebbe di
pronunciarsi sul motivo d’appello relativo alla sufficienza delle risultanze bancarie ad assumere il valore di presunzione,. immotivatamente affermando che il p.v.c. non poteva costituire esclusiva fonte di prova della maggiore pretesa tributaria e che il T. poteva essere ritenuto titolare delle somme di cui ai conti correnti in esame solo per metà e solo al netto delle somme concernenti il partito e l’interscambio di assegni a titolo gratuito, senza che la parte avesse mai dimostrato quali e quante fossero tali somme, o che esse fossero di pertinenza altrui o che la stretta corrispondenza tra versamenti e prelievi fosse prova dell’alterità delle somme.
Infine, secondo i ricorrenti, i giudici d’appello avrebbero erroneamente
affermato che l’amministrazione doveva provare la provenienza esclusiva delle somme sui conti dall’attività professionale del contribuente, laddove,
secondo la normativa vigente, sono imponibili tutti i redditi, di qualunque natura, anche diversi da quelli di lavoro (e inclusi perfino i proventi da attività illecite). Le censure esposte sono fondate.
E’ innanzitutto da chiarire che, secondo la univoca giurisprudenza di
questo giudice di legittimità, in tema di accertamento delle imposte sui
redditi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, i dati raccolti
dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un professionista consentono, in virtù della presunzione legale contenuta nella
detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività di lavoro autonomo svolta dal medesimo,
salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività (v. tra le altre cass. n. 4601 del 2002 cit.) e che pertanto, in relazione alla suddetta presunzione
concernente gli elementi risultanti dagli accertamenti bancari, si determina
una inversione dell’onere della prova, per cui, a differenza di quanto affermato nella sentenza impugnata, deve ritenersi che l’Amministrazione
abbia fornito la prova dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria e spetta al contribuente fornire adeguata e specifica prova
contraria.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, la suddetta prova contraria deve essere circostanziata e non può consistere nella mera affermazione che sul conto corrente confluivano anche somme di pertinenza di terzi, avendo in particolare questa Corte affermato (v. cass. n. 13819 del 2007) che, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, “non è sufficiente dimostrare genericamente di avere fatto affluire su un proprio conto corrente bancario, nell’esercizio della propria professione, somme affidategli da terzi in amministrazione, ma è necessario che egli fornisca la prova analitica della inerenza all