la giurisprudenza conferma che, in caso di perdita della contabilità, è il contribuente a dover provare il diritto alla detrazione dell’IVA ricostruendo le fatture dei fornitori
Con sentenza n. 14034 del 27 giugno 2011 (ud. del 31 marzo 2011) la Corte di Cassazione, seguendo i principi generali in materia di onere della prova, ha affermato che “l’esistenza delle operazioni in relazione alle quali il contribuente assuma di aver versato l’Iva, invocando il diritto alla relativa detrazione, deve essere provata da chi intenda esercitare quel diritto, ma a tal fine è sufficiente il possesso della fattura emessa dal soggetto che ha eseguito la prestazione, regolarmente annotata nell’apposito registro tenuto dal beneficiario della stessa. Ed infatti secondo consolidata giurisprudenza di legittimità: ‘La deducibilità dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’impresa, prevista dall’Cass. 23.9.2005 n. 18710′”.
La Corte, inoltre, fa proprio anche il principio recentemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità: “In tema di IVA, ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni o servizi, spetta al contribuente l’onere di provare la legittimità e la correttezza della detrazione mediante l’esibizione delle corrispondenti fatture annotate nell’apposito registro“.
Così che, ad esempio, “quando il predetto soggetto non è in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione per aver denunciato un furto della contabilità, non spetta all’Amministrazione operare un esame incrociato dei dati contabili ma al contribuente attivarsi attraverso la ricostruzione del contenuto delle fatture emesse, con l’acquisizione – presso i fornitori -della copia delle medesime. Né la denuncia di furto è di per se stessa sufficiente a dare prova dei fatti controversi, se priva della precisa indicazione riguardante le singole fatture e il loro contenuto specifico (in tal senso v. 16.9.2003 n. 13605; 3.5.2002, n. 6341)”.
Alla stregua della copiosa giurisprudenza innanzi richiamata, “è dunque solo quando il contribuente sia in grado di produrre fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, che si ribalta su di essa l’onere di provare che le operazioni sottostanti in realtà non sono state mai poste in essere, ed allo stesso tempo è solo se l’amministrazione fornisca validi elementi – alla stregua dell’12.12.2005, n. 27341)”.
Così riassunta e sistematizzata la giurisprudenza in materia, nel caso di specie il giudice di merito ha accolto il ricorso della contribuente addebitando all’Ufficio di non aver fornito elementi sufficienti a far desumere “con tranquillante certezza la prova della inesistenza delle prestazioni fatturate“, in tal modo trascurando di considerare che prima ancora di porsi interrogativi al riguardo avrebbe dovuto esso giudice rilevare l’inidoneità delle fatture contestate, a costituire valida prova delle prestazioni fatturate, “per la dichiarata difformità del soggetto emittente rispetto a quello che, secondo l’assunto della contribuente, avrebbe eseguito le prestazioni”. In proposito è dalla stessa sentenza impugnata che emerge infatti “pacificamente la non conformità al vero dei contenuti delle fatture, risultando dai tre documenti che le prestazioni fatturate sarebbero state eseguite dalla … mentre la stessa … aveva dichiarato di aver avuto rapporti con … titolare della ditta individuale…, che avrebbe pertanto abusivamente emesso le fatture”.
Brevi considerazioni
Il consolidamento della posizione della Corte di Cassazione, in materia di operazioni inesistenti, prende le mosse dalla sentenza n. 21953 del 21 settembre 2007 (dep. il 19 ottobre 2007), che ha negato l’esistenza di un presunto contrasto interno in ordine al soggetto che deve assolvere la prova: “le sentenze che vengono abitualmente citate a sostegno della teoria secondo cui l’onere della prova graverebbe sull’Amministrazione, in realtà non contengono affatto simile asserzione. Ed invero poiché le operazioni passive denunciate dal contribuente sono fonte di credito a suo vantaggio (nell’ambito dell’Iva) di detrazione dall’imponibile (nell’ambito delle imposte sui redditi), appare logico concludere che spetta al contribuente fornire la prova dell’esistenza di fatti da cui scaturisce un suo diritto”. Simile tesi, prosegue la Corte, è ribadita nella sentenza n. 17799 del 21 agosto 2007, “secondo cui l’onere per il contribuente di provare la veridicità delle fatture scatta soltanto quando gli organi di controllo fiscale adducono elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle fatture; ed è assurda la tesi secondo cui tutte le fatture si presumerebbero false fino a prova contraria offerta dal contribuente”. Prosegue la Corte che “viene abitualmente citata come in contrasto con l’indirizzo finora esposto la sentenza n. 7144 del 23 marzo 2007 secondo cui in tema di Iva, ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative a prestazioni inesistenti, spetta al contribuente l’onere di provare la legittimità e la correttezza dell’operazione mediante l’esibizione dei relativi documenti contabili. Pertanto, quando costui non è in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione, questa deve ritenersi indebita, sicché legittimamente l’ufficio provvede a recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta (a questa sentenza può accostarsi la pronuncia n. 16896 del 31 luglio 2007)”.
Ma nella sentenza che si annota si conferma anche il principio più volte espresso (cfr. Cass. n. 5182/2011) secondo cui la perdita – pur incolpevole – dei documenti contabili non esonera la parte dall’onere della prova, consentendo però al contribuente la ricostruzione delle scritture contabili andate distrutte attraverso elementi desumibili dal corredo dei documenti in possesso di clienti e fornitori. Richiamando precedenti pronunce (cfr., ex multis, Cass. nn. 10174/1995, 11109 e 13605/2003, 21233/2006, 1650/2010), la Corte osserva che “nella disciplina dell’IVA, di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, la deducibilità dell’imposta pagata dal contribuente (in sede di rivalsa) per l’acquisizione di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’impresa (art. 19) postula che il contribuente stesso sia in possesso delle relative fatture, le annoti in apposito registro (art. 25), ed, inoltre, conservi le une e l’altro (art. 39); l’ufficio, in presenza di una denuncia annuale che faccia valere le suddette poste a credito, è legittimato ed è tenuto all’accertamento in rettifica, depennando tali poste, ove non trovino rispondenza in quelle fatture ed in quel registro (art. 54, comma 2). Detta disciplina, quindi, si conforma al criterio secondo cui la dimostrazione dei fatti costitutivi di un credito deve essere offerta da chi lo faccia valere, e, sul piano probatorio, introduce limitazioni ai mezzi di prova, esigendo atti scritti, compilati e tenuti con specifiche modalità”.
Questa ennesima sentenza, tesa a confermare il principio che il furto non libera il contribuente dall’onere probatorio che rimane a suo carico sempre, imputa comunque al contribuente l’onere di provare la veridicità delle operazioni.
4 agosto 2011
Roberta De Marchi