Il Fisco è responsabile per gli atti impositivi cosiddetti inutili

la Corte di Cassazione con una recente sentenza ha precisato, in relazione ad un avviso di accertamento erroneamente emesso e notificato ai danni di un contribuente, che quest’ultimo ha comunque il diritto di impugnarlo, a prescindere cioè dal fatto che siffatto accertamento si riveli innocuo o inutile

          Con la sentenza n. 4622 del 26/02/2009, la Corte di Cassazione ha precisato, in relazione ad un avviso di accertamento erroneamente emesso e notificato ai danni di un contribuente, che quest’ultimo ha comunque il diritto di impugnarlo, a prescindere cioè dal fatto che siffatto accertamento si riveli innocuo o inutile.

 

          Il Giudice di legittimità ha statuito che: A) l’Ufficio non può notificare a proprio piacimento atti impositivi assumendo che siano privi di effetti giuridici e pretendere che il contribuente se ne stia tranquillo perché “intanto non accade nulla”; B) sussiste il principio incontestabile che ogni atto giuridico produce effetti; C) anche l’atto definito inutile dallo stesso ente impositore provoca un danno nella sfera giuridica del contribuente (destinatario) che illegittimamente lo riceve, a nulla rilevando le “bonarie” intenzioni dell’emittente (nel caso di specie il contribuente destinatario dell’accertamento innocuo e inutile, vedendosi recapitare un atto impositivo si è dovuto rivolgere, comunque, ad un professionista, affinché tale inutilità dell’atto venisse valutata da un tecnico della materia; ciò ha senza dubbio comportato un inutile ed immotivato  esborso di denaro per il contribuente).

 

          In definitiva, il contribuente ha diritto (1) di impugnare un accertamento a lui notificato anche se l’Ufficio ha sbagliato, fermo restando, in astratto, il diritto del contribuente: 1) a chiedere innanzi al go (2) ex articolo 2043 del cc i danni subiti per aver consultato un professionista circa gli effetti dell’atto definito innocuo dal fisco; 2) a chiedere al giudice tributario la declaratoria di responsabilità ex articolo 96 (3) del c.p.c. (cd. illecito processuale) che è norma speciale rispetto alla norma generale di cui all’articolo 2043 del c.p.c. (cd. illecito aquilano) ricorrendone i seguenti  presupposti soggettivi ed oggettivi. Sussiste una differenza ontologica tra la responsabilità ex articolo 96 del cpc e la violazione del dovere di lealtà e di probità di cui all’articolo 88 del cpc; le due fattispecie sono diverse, ancorché con qualche margine di coincidenza, poiché l’articolo 96 riguarda l’introduzione della causa, mentre l’articolo 88 concerne il comportamento delle parti nella causa.

 

          Questa figura eccezionale di illecito trova nel richiamato articolo 96 del cpc una sua completa disciplina, che preclude sia l’applicazione diretta del citato articolo 2043 del cc sia un eventuale concorso anche alternativo della due disposizioni normative e quindi dei due tipi di responsabilità in relazione ad un medesimo fatto processuale (Cassazione n. 13455/04). Si tratta, com’è noto, di una norma speciale rispetto a quella generale rappresentata dall’art. 2043 c.c..

 

          E’ ius recptum che detta norma inibisce l’invocazione dell’art. 2043 del cc ma non pone chi agisce per il risarcimento di danni di origine processuale in una posizione deteriore e differente rispetto a chi agisce per danni extracontrattuali di diversa origine. Da tempo infatti la giurisprudenza civilistica insegna che peculiare è la causa, non l’effetto: la responsabilità ex art. 96 c.p.c. ha natura processuale, ma “i danni da risarcire sono di qualsiasi tipo…purché causati da uno dei comportamenti tipizzati nella norma” (Cass. 1987/8872; conformi, più di recente, Cass. 1998/4624, 1999/253,2001/4947, 2002/3573).

 

          La cognizione della domanda di risarcimento danni, per comportamenti illeciti dell’A.F. o di altri Enti impositori spetta all’autorità giudiziaria ordinaria non potendo tale controversia assumersi in una delle fattispecie tipizzate, di cui all’articolo 2 del dlgs n. 546/92, attributive della giurisdizione esclusiva delle Commissioni Tributarie (Cassazione sez. unite sentenza n. 722/1999). L’attività della fisco deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla nonna primaria del nemin laedere, per cui è consentito al giudice ordinario – al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato – accertare se vi sia stato da parte della stessa amministrazione un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo.

 

          I principi di legalità. imparzialità e buona amministrazione, dettati dall’art. 97 cost. il fisco  impongono che il fisco è tenuto a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 cc. atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario (Cass. sez. un. sentenza n. 722/1999).

          Gli articoli 28, 103 e 113 della Costituzione fissano il principio della responsabilità diretta della P.A. in virtù dell’immedesimazione organica del dipendente con la P.A.

 

          Trattasi di responsabilità solidale tra agente e p.a. tuttavia, del danno arrecato con colpa lieve risponde solo il Fisco. La soccombenza nel giudizio di risarcimento, ex articolo 2043 c.c. può dare avvio alle procedure di responsabilità amministrativa dinanzi la Corte dei Conti per danno patrimoniale indiretto.

          L’ingiustizia del danno, ex articolo 2043 del c.c. va riferita unicamente al danno non iure, senza la necessità che la lesione sia riferita ad un diritto soggettivo perfetto; al fine della configurabilità, della responsabilità aquiliana della p.a. non rileva la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal privato, posto che la tutela risarcitoria è assicurata, esclusivamente, in relazione all’ingiustizia del danno, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. L’ambito della potestà impositiva non è libera bensì soggetta a limiti precisi e, pertanto, la violazione di detti limiti comporta anche una responsabilità risarcitoria in funzione del pregiudizio arrecato.

 

 

NOTE

 

(1) Una parte della dottrina ritiene configurabile sia la legittimazione ad agire sia l’interesse ad agire nei confronti del soggetto, cui sia stato notificato un atto impugnabile, che ritiene di essere completamente estraneo alla pretesa fiscale. Fabio Pace, il contenzioso in materia di imposte dirette Giuffrè 2002 pag. 20, ipotizza il caso di un soggetto che abbia ricevuto la notifica di un avviso di accertamento nella sua presunta qualità di erede del contribuente deceduto e voglia sostenere la propria completa estraneità alla pretesa fiscale. L’Amministratore non più in carica di una società,  cui l’avviso di accertamento emesso a carico della società sia stato  notificato non per “mera conoscenza”, ma in  considerazione  della  sua  responsabilità personale (nel caso di specie solidale ex art. 98 D.P.R. 602/1973), ben  può impugnare l’avviso di accertamento sia adducendo argomenti che escludono la sua responsabilità per ragioni personali o soggettive (quali il non essere in carica  all’epoca dei fatti); sia contestando la legittimità e corrispondenza al vero dell’avviso di accertamento (cui  gli  amministratori in carica potrebbero aver prestato acquiescenza). L’eventuale pronuncia di illegittimità dell’avviso determina però i suoi effetti esclusivamente nei limiti dell’interesse a ricorrere, in proprio, dell’amministratore non più in carica, e non si estende al debito d’imposta della società (Sent. n. 16382 del 14 maggio 2008 dep. il 17 giugno 2008 della Corte Cass., Sez. tributaria).

Giova osservare che il giudice di legittimità con la precedente sentenza n. 4602 del 27/03/2003, aveva statuito che, sotto il profilo meramente processuale, al riscontrato difetto di legittimazione ad agire consegue  la declaratoria dell’improponibilità del ricorso introduttivo del processo di primo grado e non l’accoglimento del ricorso introduttivo stesso, per la fondatezza del ricorso, con sentenza di merito favorevole. L’accertamento del difetto di legittimazione ad agire comporta una declaratoria di rigetto del ricorso per improponibilità, con la conseguenza che trattasi di sentenza d’accertamento che spiega i suoi effetti fuori del processo, essendo idonea a passare in giudicato tra le parti. Alla luce della predette statuizione non è privo di pregio affermare che il ricorrente, che si dichiari estraneo al rapporto tributario e privo di rappresentanza di un soggetto, che non prospetti neppure un qualsiasi effetto per lui direttamente o indirettamente pregiudizievole derivante dalla rettifica e che non prospetti un’effettiva situazione d’insoddisfazione determinata dall’esistenza di un atto impositivo idoneo ad incidere negativamente sul proprio patrimonio ,è privo di legittimazione ad agire, per la declaratoria della nullità della notifica dell’atto impositivo rivolto verso altro soggetto (di cui ad esempio era stato amministratore), nei confronti dell’ufficio finanziario) vd. Angelo Buscema, sull’improponibilità del ricorso introduttivo in primo grado per mancanza di legittimazione attiva del ricorrente in il fisco n. 41/2003 pag. 6429

 

(2) Angelo Buscema, La responsabilità aquilana del fisco: fondamento, presupposti e limiti in  La responsabilità aquilana del fisco: fondamento, presupposti e limiti MARZO 2007

 

(3) Angelo Buscema, Nuovi approdi della responsabilità aggravata ex articolo 96 del c.p.c. per illecito processuale nel processo tributario?

 

Angelo Buscema

6 Marzo 2009

 

**********************

 

ALLEGATO

 

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sent. 26 febbraio 2009, n. 4622

 

Fatto

 

Il sig. S.B. ha impugnato due avvisi di accertamento con i quali il competente ufficio finanziario ha rettificato la dichiarazione dei redditi della Dolciaria del Garba srl, riferita all’esercizio 1989, della quale il B. è stato amministratore fino al 31 luglio 1990, ed ha conseguentemente contestato che in relazione al maggior reddito accertato non erano state effettuate e versate le ritenute di acconto sugli utili distribuiti ai soci della società, a ristretta base partecipativa.

A sostegno dell’originario ricorso, il contribuente eccepiva vizi di motivazione degli atti impugnati, illegittimità delle pretese fiscali avanzate nei confronti di un ex legale rappresentante e infondatezza nel merito delle pretese stesse.

La commissione tributaria provinciale, previa riunione dei ricorsi, ha rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione del B., sollevata dall’ufficio, sul rilievo che in quanto destinatario degli atti il contribuente era legittimato ad impugnarli; nel merito, ha accolto il ricorso ritenendo illegittimo l’accertamento effettuato con metodo induttivo.

L’ufficio ha impugnato la decisione di primo grado riproponendo l’eccezione di difetto di legittimazione del B., deducendo tra l’altro che l’ex legale rappresentante della società poteva contestare soltanto il la sussistenza del vincolo dell’obbligazione solidale per il pagamento delle sopratasse e delle pene pecuniarie previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, comma 6.

La commissione tributaria regionale ha accolto l’appello dell’ufficio ritenendo che il B. non fosse legittimato ad impugnare gli atti in contestazione, essendo estraneo alla compagine sociale, che è il soggetto passivo d’imposta: avrebbe potuto far valere eventualmente questa sua estraneità in sede di riscossione.

Avverso quest’ultima decisione ricorre il contribuente con cinque motivi.

L’amministrazione finanziaria dello Stato resiste con controricorso, insistendo nel prospettare la tesi della carenza di legittimazione del B., al quale gli avvisi sarebbero stati notificati “solo per conoscenza… per le sole implicazioni penali ed amministrative” (v. p. 1 dell’odierno ricorso).

 

Diritto

 

Il ricorso appare fondato in relazione al terzo motivo, assorbiti tutti gli altri motivi, fatta eccezione per il primo, che e’ infondato.

Infatti, con il primo motivo di ricorso viene denunciata la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, anche sotto il profilo della omessa pronuncia, in quanto la CTR non avrebbe tenuto conto della eccezione di inammissibilità dell’appello dell’ufficio, per mancanza di motivi specifici di impugnazione. Tale censura appare infondata, oltre ad essere formulata in maniera ambigua. In ogni caso, dalla lettura dei brani riportati nel ricorso odierno (p. 5) emerge con chiarezza che i motivi posti a sostegno dell’appello non erano generici, risultando incentrati sulla questione della violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, che è il tema sul quale, in particolare, si è sviluppata la vicenda processuale. D’altra parte, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “nel processo tributario, l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza” (Cass. 1224/2007).

Quanto alla censura di omessa pronuncia, la sentenza impugnata si dilunga proprio sulla questione della legittimazione processuale del B., sul merito della quale è incentrato il terzo fondato motivo di ricorso, che va esaminato con precedenza su tutti gli altri.

Con il terzo motivo, infatti, il ricorrente lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, comma 6, perchè erroneamente la CTR ha ritenuto che il B. non fosse legittimato ad impugnare gli atti notificatigli, perchè da questi non poteva derivargli alcun pregiudizio.

Giova preliminarmente chiarire che trattasi di avvisi di accertamento notificati il 21.11.1997, vale a dire prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, (operante dal 1 aprile 1998, ai sensi dell’art. 29, dello stesso D.Lgs.) che ha abrogato il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98.

Nel merito, la censura appare fondata. Non è affatto vero che la notifica degli avvisi di accertamento era un atto “indifferente” per il contribuente, tanto più se, come osserva l’Ufficio, l’accertamento notificato alla società era divenuto definitivo. La stessa amministrazione ricorrente riconosce che gli avvisi contestati sono stati notificati al B. per le implicazioni penali ed amministrative. La difesa del contribuente, che all’epoca dei fatti era l’amministratore della società, non può essere limitata al solo profilo della sussistenza del vincolo della obbligazione solidale degli effetti sanzionatori, come erroneamente scrive la CTR, ma può e deve essere estesa a tutti i profili che attengono alla sussistenza delle violazioni contestate, che sono il presupposto dei profili sanzionatori. Il “palo” può difendersi dall’accusa del concorso in furto sia dimostrando di non aver svolto tale ruolo di “sentinella”, ma anche dimostrando che il furto non si è verificato.

Il fatto che l’avviso di accertamento non sia stato impugnato da chi aveva la rappresentanza della società quando è stato notificato il relativo atto dimostra che una efficace tutela giudiziaria del B. non può che essere affidata alla sua iniziativa “a tutto campo” rispetto ad atti impositivi che gli andavano comunque notificati. D’altra parte, o il B. veniva chiamato in giudizio come litisconsorte necessario o comunque avrebbe potuto poi formulare tutte le eccezioni utili alla sua difesa, di merito e di rito, rispetto alle contestazioni fiscali anche in sede di riscossione. La mancata impugnazione dell’avviso notificato alla società non lo vincola in alcun modo sul piano delle conseguenze sanzionatorie. Così come non lo avrebbe vincolato l’eventuale giudicato formatosi nei confronti dei destinatari dell’atto di accertamento diretto alla società, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato. D’altra parte, se il B. non avesse impugnato gli atti notificatigli, facendoli diventare definitivi, non avrebbe potuto poi impugnare gli atti successivi, come ad esempio l’iscrizione a ruolo, se non per vizi propri (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3).

In definitiva, l’ufficio non può notificare a proprio piacimento atti impositivi assumendo che siano privi di effetti giuridici e pretendere che il contribuente se ne stia tranquillo “tanto non accade nulla”. Ogni atto giuridico produce effetti e se un atto viene definito inutile dallo stesso emittente c’è da chiedersi (a parte i dubbi legittimi sulla sanita’ mentale e/o idoneità professionale delle persone fisiche responsabili di tali comportamenti) perchè sia stato adottato e notificato, fermo restando gli effetti di danno che può comunque produrre nella sfera giuridica del destinatario, a prescindere dalle intenzioni dell’emittente (in un caso come quello in esame, ad esempio, e’ evidente che il destinatario degli atti ha la necessità di rivolgersi ad un professionista per verificare se e quali effetti possa produrre un atto definito “innocuo” dalla controparte, anche se poi in ipotesi l’atto si riveli effettivamente innocuo, contrariamente a quanto avvenuto nella specie).

Tutte le altre censure attengono al merito della vicenda e sono quindi assorbite, dovendo eventualmente essere esaminate dal giudice del rinvio.

Conseguentemente, il ricorso va accolto in relazione al terzo motivo, rigettato il primo ed assorbiti gli altri, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice di merito, per il giudizio di appello. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il terzo, assorbiti tutti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale del Veneto.