IVA e attività di compro oro tra regime del margine e reverse charge

Partendo da un caso di giurisprudenza vediamo le regole base per la gestione del regime del margine per le attività di compro oro – tale regime IVA è soggetto a molte particolarità e l’attività di compro oro richiede una vigilanza maggiore rispetto al cliente ordinario.

compro oroLa CTP di Firenze, con la sentenza n. 1110/2/16 del 20 Luglio 2016 ha chiarito i termini di applicazione del regime del margine al settore della compravendita di oro “usato”.

Nel caso di specie era stato impugnato il provvedimento di irrogazioni sanzioni, periodo d’imposta 2009, mediante il quale veniva contestato alla società l’emissione di fatture per cessione di rottami di gioielleria in oro con applicazione del meccanismo di inversione contabile ex art. 17 del decreto 633/72, che, a detta dell’Agenzia delle Entrate, dovevano essere invece soggette al regime del margine di cui all’art. 36 legge 85/95.

Sosteneva invece la ricorrente di avere operato in aderenza a quanto previsto dalla Risoluzione n. 92 del 2013, richiamando altresì una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, ove si ammetteva il ricorso al regime del margine se il cessionario svolge attività di lavorazione dell’oro acquistato.

Nelle sue controdeduzioni l’Ufficio contestava le argomentazioni difensive, evidenziando che, nel caso di specie, la società cessionaria svolgeva attività di commercializzazione di beni usati e sottolineando la carenza di elementi probatori fomiti dalla società quali registri dei beni usati e documenti di trasporto per controbattere le ragioni dell’Ufficio.

Per determinare quale regime di IVA fosse applicabile al caso concreto, secondo i giudici di merito, occorreva dunque verificare se il soggetto acquirente svolgesse o meno una attività tesa al recupero dei metalli preziosi e non svolgesse una attività di commercializzazione gioielli.

Per l’applicazione del “reverse charge”, sottolinea la Commissione Tributaria Provinciale, occorre infatti che il cessionario sia una azienda che svolge esclusivamente l’attività di lavorazione industriale dei metalli preziosi e di trasformazione dei rottami d’oro acquistati in nuovi oggetti d’oro recanti il proprio marchio di identificazione.

Se, viceversa, la società acquirente ha anche una attività di commercializzazione non si applica il meccanismo sopra indicato, ma quello del “margine” di cui all’art. 36 della legge 85/95.

Nella dichiarazione della società cessionaria agli atti del ricorso risultava dunque che il materiale prezioso era stato acquistato dopo essere stato fuso e trasformato in oro puro.

E dalla documentazione esibita e rinvenuta dagli accertatori non si poteva validamente sostenere che la destinazione finale dei beni (usati o rottami) fosse stata diversa dalla fusione e/o trasformazione degli stessi, per cui a parere dalla Commissione, nel caso in esame, si applicava il regime della inversione contabile, così come sostenuto dalla ricorrente.

In generale le attività di commercio di oggetti preziosi, prevalentemente usati sono spesso oggetto di specifici controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate.

I soggetti che effettuano tale tipo di attività (si pensi anche ai compro oro), di solito, acquistano infatti oggetti d’oro, prevalentemente da privati ed in minor quantità in aste del monte dei pegni, per poi rivenderle principalmente a società cosiddette Banco Metalli, mediante il meccanismo del reverse charge di cui all’art.17, c. 5, DPR 633/72, qualificando la merce in fattura come rottami auriferi, oppure verga aurifera.

Le verifiche fiscali mirano dunque a contestare l’improprio utilizzo del regime del reverse charge.

Tali società commercerebbero infatti, in realtà, secondo la tesi dell’Amministrazione, in oggetti di gioielleria ed oreficeria d’oro usati più che in “oro”, come definito ai sensi della legge n. 7/2000 e dell’art.17, comma 5, DPR 633/72; pertanto, tali operazioni dovrebbero essere semmai disciplinate dalla normativa dell’Iva sul margine, o addirittura ad imposta sul valore aggiunto in modo ordinario.

In merito al regime del margine si osserva in particolare che tale regime richiede comunque l’esistenza congiunta di determinati requisiti inerenti l’origine del bene, gli operatori, le operazioni e le tipologie di beni.

L’inasprimento in ordine all’onere di verifica del corretto regime applicabile a tali tipi di transazioni trova del resto ragione nel riscontro di diffusi fenomeni di abuso del regime del margine.

Ogni volta che la legge consente di acquistare merce senza il versamento dell’imposta l’operazione si presta infatti all’esecuzione di una frode.

Il regime del margine, disciplinato dagli artt. 36-40 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 marzo 1995, n. 85, è dunque un sistema speciale di calcolo dell’Iva istituito, per alcuni tipi di attività e di beni, allo scopo di evitare l’insorgenza di un fenomeno di doppia o reiterata imposizione, con riferimento a quei beni per i quali il rivenditore non abbia potuto detrarre l’Iva all’atto dell’acquisto.

Così, nel regime dei beni usati, l’imposta, che di norma viene applicata, con l’aliquota prevista, sull’intero prezzo di vendita, colpisce solo la differenza tra il prezzo di acquisto, eventualmente maggiorato dei costi accessori e di riparazione, ed il prezzo di vendita.

I beni che rientrano in questo regime speciale sono i beni usati suscettibili di essere reimmessi in commercio nello stato originario o previa riparazione e gli oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione acquistati senza addebito di imposta da privati, ovvero da soggetti passivi Iva nazionali e comunitari, i quali non abbiano potuto detrarre, in tutto o in parte, l’imposta, ovvero si trovino in un’ipotesi di esenzione nel proprio Stato o ancora operino, a loro volta, nel regime del margine.

Per la determinazione dell’imposta sono previsti tre diversi criteri di calcolo, differenziati in ragione delle categorie di soggetti e delle modalità di esercizio del commercio in questione.

A seguito delle verifiche fiscali emerge dunque spesso l’improprio utilizzo del regime del reverse charge di cui all’art. 17, c. 5, DPR 633/72, senza dunque alcun addebito di imposta.

L’Ufficio contesta di solito in tali casi sia l’utilizzo del meccanismo del reverse charge che la descrizione della merce effettuata dalle società in ottemperanza alle prescrizioni della L. 17 gennaio 2000, n. 7, intitolata “Nuova disciplina del mercato dell’oro, anche in attuazione della Direttiva comunitaria n. 98/80/CE”, nonché sulla base delle indicazioni fornite dalla Banca d’Italia in materia d’oro e dell’Ufficio Italiano Cambi (in particolare, il documento esplicativo “Chiarimenti in materia d’oro” del 20/06/2001).

Questi documenti delineano la figura dell’operatore professionale in oro quale soggetto economico legittimato a effettuare cessioni di materiale aurifero da investimento e ad uso prevalentemente industriale, prevedendo specifici requisiti soggettivi ed oggettivi.

Per le cessioni di oro da destinare al consumo, diverso, quindi, da quello rientrante nel concetto di materiale aurifero da investimento e ad uso prevalentemente industriale, non è invece necessaria la qualifica di operatore professionale in oro, né, di conseguenza, il rispetto dei requisiti per essi prescritti.

Proprio in questo ambito di operatività vengono ad essere inquadrati gli esercizi commerciali comunemente denominati “Compro oro”, la cui attività consiste nell’acquisto di oggetti preziosi usati direttamente da privati e nella successiva rivendita degli stessi senza ulteriore lavorazione o trasformazione, configurando, in tal modo, un’attività di commercio di prodotti finiti.

Le distinzioni evidenziate hanno naturalmente anche effetti fiscali:

  • Per le cessioni dell’oro da investimento, è previsto un generale regime di esenzione (salvo poter optare per il regime di imponibilità secondo il meccanismo del reverse charge);

  • le cessioni di oro industriale sono sempre imponibili; se sono effettuate nei confronti di soggetti passivi, si applica il regime del reverse charge, altrimenti si applica il regime ordinario (o il margine, al ricorrere di determinati requisiti di legge);

  • per le cessioni di prodotti d’oro finiti (non disciplinate dalla legge n. 7/2000 e non previste dall’art. 17, c. 5 DPR 633/72, applicabile ratione temporis, che limita il reverse charge alle “cessioni imponibili di oro da investimento di cui all’art. 10, numero 11), nonché per le cessioni di materiale d’oro e per quelle di prodotti semilavorati di purezza pari o superiore a 325 millesimi”), andrebbe applicato il regime ordinario o il margine di cui agli articoli 36 e seguenti del D.L. n. 41 del 1995 al ricorrere di tutti i presupposti ivi previsti.

Queste conclusioni sono anche condivise dalla giurisprudenza di merito, la quale ha osservato che “In tema di evasione dell’imposta sul valore aggiunto, il regime del c.d. reverse charge, di cui all’art. 17, comma 5 del D.P.R. n. 633 del 1972, è applicabile soltanto a due categorie di beni: cessioni imponibili di oro da investimento e cessioni di materiale d’oro e prodotti semilavorati di purezza pari o superiore a 325 millesimi.

Trattasi di quei beni che possono essere esclusivamente commercializzati dagli operatori professionali in oro. Ne discende che, rientrando i rottami i gioielli nella nozione di materiale d’oro ed essendo i soggetti regolarmente iscritti all’Albo degli operatori professionali in oro, i soli qualificati ad effettuare questo tipo di commercio, è da escludere qualsiasi tipo di attività esercitata in tal senso da soggetti autorizzati al solo commercio di preziosi, intesi come oggetti finiti, quali i “compro-oro”.

Per quanto concerne le cessioni di oggetti finiti, anche se si tratta di cessioni destinate ad aziende che poi li reimpiegheranno in processi di trasformazione, esse non potranno essere effettuate beneficiando del reverse charge trattandosi di prodotti che hanno completato il loro specifico processo produttivo e che devono essere considerati prodotti finiti e non materia prima destinata alla lavorazione. In tali casi non può trovare applicazione l’art. 17, comma 5 e l’imposta sul valore aggiunto deve assolversi nei modi ordinari” (CTR Lecce, Sez. XXIII, nn. 213 del 18 settembre 2013 e n. 64 del 05 aprile 2012).

Vero è che poi la Risoluzione n. 92/E del 2013, invocata anche nel contenzioso in esame, ha distinto tra oro usato e rottame a seconda della loro destinazione (se univoca) e non delle caratteristiche intrinseche del bene.

Tale Risoluzione può però applicarsi solo nel caso in cui, come anche evidenziato in sentenza, il cessionario è un’azienda che effettua esclusivamente l’attività di lavorazione industriale dei metalli preziosi (e quindi non svolga alcuna ulteriore attività se non quella esclusiva di fusione e successiva affinazione chimica per il recupero del materiale prezioso contenuto nei beni acquistati), ovvero è un’azienda di fabbricazione, titolare di marchio d’identificazione ai sensi del d.lgs. 251/1999 (e quindi immette nel mercato solo nuovi oggetti d’oro, recanti il proprio marchio di identificazione).

Diversamente, l’esercizio da parte dell’azienda dell’attività di affinazione e, contestualmente, di commercializzazione dei beni, anche se come attività secondaria, esclude l’applicazione dell’art. 17, c. 5, DPR 633/73 (e impone, per l’effetto, l’utilizzo del regime ordinario o del margine).

6 aprile 2017

Giovambattista Palumbo