Il valore dell’avviamento nella cessione d’azienda

Il problema della determinazione del valore di avviamento ai fini dell’imposta di registro, ha sempre suscitato un vivace dibattito in dottrina ed una copiosa giurisprudenza, a causa dei criteri estremamente empirici adottati dall’Amministrazione Finanziaria.

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Il problema della determinazione del valore di avviamento ai fini dell’imposta di registro, ha sempre suscitato un vivace dibattito in dottrina ed una copiosa giurisprudenza, a causa dei criteri estremamente empirici adottati dall’Amministrazione Finanziaria nella quantificazione del valore di avviamento tassabile ai fini dell’imposta di registro.

Secondo l’orientamento prevalentemente seguito dall’Amministrazione Finanziaria, il valore di avviamento si quantificava, mediante la capitalizzazione del reddito fiscale ai fini IRPEF / IRPEG.  In altri termini, l’avviamento veniva calcolato con il seguente algoritmo:

( REDDITO FISCALE X  COEFFICIENTE DI CAPITALIZZAZIONE)

Quindi esemplificando, posto il reddito fiscale ai fini IRPEF / IRPEG pari a € 50.000,00 e il coefficiente di capitalizzazione pari a 3, l’avviamento si quantificava il € 150.000,00.

Considerare la metodologia di calcolo descritta sommaria appare un eufemismo ! La definizione più corretta dovrebbe aggettivarla non già come astratta, bensì come errata.

E ciò almeno per due ragioni:

1) Il processo di capitalizzazione considera trasferibili elementi che non lo sono affatto quali : le capacità organizzative del cedente o la sua abilità tecnica sintetizzate nello stipendio direzionale;

2) il trasferimento di rendite finanziarie diverse da quella addizionale rispetto a quella ordinaria ritraibile da un investimento di pari valore a basso rischio quale potrebbe essere un investimento obbligazionario o in titoli di stato, sintetizzabile nell’interesse di computo.

In effetti la variabile di reddito capitalizzabile potrebbe essere soltanto quella che la dottrina aziendalistica definisce EXTRA-REDDITO o SOVRA-PROFITTO, giammai il reddito fiscale in quanto così procedendo si giungerebbe al paradosso di capitalizzare persino dei consumi di reddito[1].

 

In altri termini la variabile da capitalizzare dovrebbe essere così determinata:

(MEDIA TRIENNALE DEI REDDITI D’ESERCIZIO – STIPENDIO DIREZIONALE – INTERESSE DI COMPUTO )

= EXTRA-PROFITTO

Determinato l’extra-profitto si dovrebbe scegliere un tasso adeguato di capitalizzazione su base discreta o perpetua.

Purtroppo con l’introduzione del D.P.R. 460/1996 – norme concernenti l’accertamento con adesione del contribuente – si è data un ulteriore spallata ai criteri che i professionisti contabili utilizzano per l’effettuazione delle perizie di stima del valore di avviamento e ciò al solo scopo di mettere a disposizione degli Uffici Finanziari uno strumento che potesse creare gettito fiscale a tavolino.

Infatti, con l’art. 2 punto 4) del D.P.R. 31/07/1996 n. 460 si è stabilito che:

per le aziende e per i diritti su di esse il valore di avviamento è determinato sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi 3 periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata 3.

La percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d’impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte e nel medesimo periodo. Il moltiplicatore è ridotto a 2 nel caso in cui emergano elementi validamente documentati e, comunque, nel caso in cui ricorra almeno una delle seguenti situazioni:

  1. l’attività sia iniziata entro i tre periodi di imposta precedenti a quello in cui è intervenuto il trasferimento;

  2. l’attività non sia stata esercitata, nell’ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto il trasferimento, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento dell’attività stessa;

  3. la durata residua del contratto di locazione dei locali, nei quali è svolta l’attività, sia inferiore ai dodici mesi.

 

In un articolo recentemente pubblicato su Guida Normativa[2] n. 220 del 11/12/2003 si sottolinea come con la Comunicazione di Servizio n. 52 del 25/07/2003, diramata dall’Agenzia delle Entrate in materia di  controllo selettivo delle cessioni d’azienda da assoggettare a valutazione, si sia confermata la legittimità  della formula contenuta nel D.P.R. 460/1996, come strumento di valutazione della congruità del valore di avviamento denunciato in atti.

Nel contempo la comunicazione ha stabilito che fossero sottoposti a controllo gli atti che avessero presentato una delle seguenti anomalie:

  1. valore di cessione aziendale inferiore alla somma del valore delle rimanenze finali e dei beni       strumentali dichiarati nell’anno più prossimo disponibile in banca dati;
  2. valore di cessione inferiore a quello determinato ai sensi dell’art. 2 punto 4) del D.P.R. 460/1996;
  3. contemporanea presenza di entrambe le anomalie nel contratto di cessione.

 

La comunicazione proseguiva enunciando che dal controllo andavo esclusi i trasferimenti a titolo gratuito per successione mortis causa  in quanto esenti ai sensi dell’art. 13 della Legge 383/2001 e i trasferimenti a titolo gratuito per atto tra vivi in quanto esenti ai sensi  dell’art. 69 della Legge 342/2000.

In aggiunta, la comunicazione affermava che andavano altresì esclusi da controllo, gli atti in relazione ai quali era intervenuta definizione agevolata ai sensi dell’art. 11, comma 1, della Legge 289/2002  con l’aumento del 25% dell’importo originariamente dichiarato.

Ovviamente chi oggi si trovasse in condizioni di anomalia potrebbe beneficiare della riapertura dei termini del condono fiscale, regolarizzando la propria posizione entro il 16/03/2004.

Fermo restando che non riteniamo – per le argomentazioni sopra richiamate – legittima l’applicazione tout court dei criteri di cui al D.P.R. 460/1996 in quanto un’astratta formulazione matematica non può, in assoluto, condizionare le trattative commerciali inerenti i trasferimenti d’azienda[3].

Un metodo che non tenesse conto dei singoli fattori, positivi e negativi, specifici di ciascuna azienda, sarebbe sfornito di adeguata motivazione e quindi passibile di impugnazione innanzi agli organi della  giurisdizione tributaria, che per la verità fino ad adesso, non si sono pronunciati sul metodo, bensì sul valore[4].

Nell’applicazione del metodo matematico indicato dalla norma più volte citata resta però un altro problema quello del calcolo della percentuale di redditività da applicare alla media dei ricavi e ciò soprattutto in relazione alle cessioni che dovessero perfezionarsi nel periodo che va dalla presentazione dell’ultima dichiarazione dei redditi anteriore alla cessione, alla successiva. Cercheremo di illustrare il problema con un esempio.

Nella tabella che segue sono riportati i dati in Euro che sono alla base del calcolo del valore di avviamento ex art. 2, punto 4) del D.P. R. 460/1996:

 

ANNO RICAVI REDDITO
2002 100.000,00 7.000,00
2001 115.000,00 53.000,00
2000 135.000,00 45.000,00
MEDIA 116.666,67 35.000,00

 

Supponiamo altresì che i ricavi dell’anno 2003 – anno in cui è avvenuta la cessione – ammontino a € 70.000,00 mentre il reddito dello stesso anno ammonti a € 25.000,00. Applicando il disposto normativo, il valore di avviamento dovrebbe essere calcolato attraverso la seguente formula:

( 116.666,67 x ( 25.000 : 70.000) x 3) = > ( 116.666,67 x 35,71% x 3) = > 124.985,00

Dalla formulazione del metodo emerge subito che l’applicazione della percentuale calcolata in base al rapporto (Reddito / Ricavi ) riferiti all’anno della cessione, postula che l’annualità non solo sia terminata ma che sia stata già oggetto di dichiarazione definitiva.

Quindi, in linea di massima, tutte le cessioni d’azienda che si perfezionassero nel periodo che va dall’inizio del periodo d’imposta al termine di presentazione della dichiarazione dei redditi dovrebbero essere, per così dire arretrate di un anno, per cui l’anno di base per il calcolo della percentuale di redditività dovrebbe essere l’ultimo anno precedente quello in cui è avvenuto il trasferimento – nel nostro caso il 2002 – e il triennio precedente utilizzato per il calcolo della media dei ricavi dovrebbe anch’esso contemplare il 2002.

Quindi la formula cambierebbe così:

( 116.666,67 x ( 35.000,00 : 116.666,67) x 3) = > ( 116.666,67 x 30,00% x 3) = > 105.000,00

 

Pur riconoscendo la difformità della formula precedente rispetto al dettato normativo, non vediamo altra soluzione, considerato che la dichiarazione dei redditi dell’anno 2003 – anno che potrebbe constare solo di alcuni mesi – verrà prodotta nel 2004.

L’Agenzia delle Entrate dovrebbe così attendere diversi mesi per prima di poter tassare l’atto recante il trasferimento d’azienda, oppure occorrerebbe imporre all’azienda cedente una dichiarazione dei redditi anticipata, pur non essendo ciò contemplato da nessuna norma vigente.

Cosicché si consiglia in tutti i casi di discutere preventivamente con l’Agenzia delle Entrate competente per il territorio, ogni singola fattispecie, al fine di prevenire ogni possibile contenzioso diveniente da una norma che certamente non brilla per praticità.

 

Dicembre 2003

Enrico Larocca

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