Sequestro degli importi sul conto corrente

il contribuente che tenta di distrarre i fondi dal conto corrente per occultarli alla procedura di riscossione tributaria, rischia il sequestro per equivalente delle somme contestate

Con sentenza n. 25677 del 3 luglio 2012 (ud. 16 maggio 2012) la Corte di Cassazione Penale, Sez. III, ha ritenuto che non costituisce reato di sottrazione fraudolenta, ex art. 11 del D.Lgs.n. 74/2000 il prelevamento di tutto il denaro dai propri conti, pur se le somme possono essere oggetto di sequestro per equivalente.

 

I MOTIVI

La giurisprudenza, anche costituzionale (confr. Corte cost. n. 48 del 1994; n. 444 del 1999), è costante nel ritenere che tra i presupposti di ammissibilità del sequestro, sia esso preventivo o probatorio, non è da includere la fondatezza dell’accusa (Sez. Uu., n. 7 del 23/02/2000), bensì la sola astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, salvo il caso che la sua infondatezza emerga ictu oculi, tenuto anche conto delle deduzioni difensive sul punto.

Il primo profilo di censura muove dal presupposto che la condotta configurabile nella specie consisterebbe nel mero tentativo da parte degli indagati di disporre semplicemente dei propri beni senza che siano state compiute nè operazioni simulate, nè altri atti definibili come fraudolenti, sicchè non sarebbero ravvisabili gli estremi, neppure sotto il profilo del fumus sufficiente nella fase processuale in questione, del reato di cui all’art.11, del D.Lgs. n. 74 del 2000, posto alla base del provvedimento di sequestro.

La Suprema Corte, innanzitutto, rileva che “… una condotta di disposizione, da parte del proprietario, dei propri beni (come può essere, appunto, quella del titolare di un conto bancario che richieda al proprio istituto di credito di prelevare, anche integralmente, le somme di denaro ivi depositate) non può, evidentemente, integrare l’elemento oggettivo del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”, di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74/72000.

Tuttavia, gli elementi in fatto della condotta tenuta dagli indagati, lungi dall’essere indicativi di un comportamento semplicemente volto a cercare di disporre dei propri beni, “sono stati dal Tribunale ritenuti caratterizzati dalla componente di fraudolenza che, nella struttura della norma ricordata, colora di illiceità un comportamento altrimenti del tutto lecito”.

L’imputato, infatti, “dapprima ebbe a chiedere, nel marzo del 2010, al proprio istituto di credito di smobilitare una consistente disponibilità giacente presso un deposito fiduciario con trasformazione del valore di Euro 1.745.300,00 in dieci assegni circolari, in parte intestati a se stesso e in parte alla moglie B.E., e, successivamente, nel settembre del 2011, a richiedere la conversione di detti dieci assegni, del valore di 174.530 ciascuno, in 713 assegni circolari del valore di Euro 2.400,00 ciascuno”.

Sul punto il Tribunale, “dopo avere premesso che nei confronti dell’imputato pendeva procedura di riscossione esattoriale (per un complessivo importo, che, stando alle cartelle esattoriali menzionate nell’addebito riportato nel decreto di sequestro in atti, sarebbe, allo stato, pari ad Euro 4.598.432,71), ha sottolineato la oggettivamente anomala condotta consistente nell’avere richiesto alla banca la conversione di una somma assai ingente ivi giacente a garanzia della procedura in numerosissimi assegni di piccolo taglio evidentemente funzionali ad una imminente disposizione della somma ed alla conseguente riduzione della garanzia patrimoniale del debitore”.

Il fumus dell’illiceità della condotta “è stato, così, correttamente, individuato non già nella richiesta di potere integralmente disporre della somma di denaro in pendenza di una procedura di riscossione esattoriale (pendenza la cui contestualità rispetto alla condotta descritta dall’art. 11 cit. non sarebbe neppure necessaria, attesa la natura di reato di pericolo della fattispecie in oggetto: vedi Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2001, Cualbu, Rv. 251076), ma nell’avere richiesto (ed ottenuto) che tale somma fosse frazionata in 713 assegni il cui importo si situava, significativamente, al di sotto del limite di tracciabilità previsto dalla normativa con conseguente esenzione da ogni possibilità di controllo, di per sé ‘idonea’ a rendere inefficace la procedura di riscossione”. L’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000, nell’individuare la condotta illecita del reato, contempla, del resto, accanto ad uno specifico atto, rappresentato dalla vendita simulata, un’ulteriore, non tassativa, serie di atti la cui illiceità appare risiedere nel carattere fraudolento degli stessi; “e non vi è dubbio che, nella terminologia del legislatore, debba essere considerato atto fraudolento ogni comportamento che, formalmente lecito (analogamente, del resto, alla vendita di un bene), sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno. Va del resto ricordato che, sia pure con riferimento ad altri reati, questa Corte ha affermato che il ‘mezzo fraudolento’ consiste in ‘qualsiasi artificio, inganno o menzogna concretamente idoneo a conseguire l’evento del reato’ (Sez. 6, n. 26809 del 07/04/2011, Rivela ed altri, Rv. 250469 e Sez. 6, n. 40831 del 08/06/2010, Dell’Aquila e altri, Rv. 248788, con riferimento al reato di cui all’art. 353 c.p.) ovvero in ‘comportamenti improntati ad astuzia o scaltrezza, tali da eludere le cautele e gli accorgimenti predisposti dalla persona offesa a tutela delle proprie cose’ (Sez. 4, n. 13871 del 06/02/2009)”.

 

Brevi considerazioni

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, inteso come stratagemma artificioso del contribuente, tendente a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario, può assumere le più diversificate forme, potendo estrinsecarsi attraverso l’abuso di strumenti giuridici rientranti solo in apparenza nella fisiologia della vita aziendale o societaria (operazioni straordinarie, scissioni simulate, alienazioni).

La norma mira a sanzionare il compimento di attività fraudolente, non essendo più necessaria l’esistenza di una procedura esecutiva in atto o la previa effettuazione di accessi della polizia tributaria o la notificazione di atti di accertamento da parte degli uffici finanziari, né la verifica dell’inefficacia dell’esecuzione esattoriale.

Sul punto si veda la sentenza n. 19595 del 18 maggio 2011 (ud. del 9 febbraio 2011) della Corte di Cassazione, Sez. III, Penale, ove la Corte prende atto che le operazioni societarie, sia in riferimento alla cessione dei rami di azienda, che in riferimento alla scissione delle società ed il conferimento degli immobili alle società beneficiane, sono state simulate o comunque fraudolente. “Inoltre dal punto di vista oggettivo, il Collegio del riesame ha ritenuto che tali operazioni, delle quali è stata fornita una chiara descrizione, erano pienamente idonee a rendere in tutto o in parte inefficace la successiva procedura di riscossione coattiva dei crediti tributari vantati dallo Stato nei confronti delle ‘originarie’ società: in sintesi, a fronte dell’uscita dal patrimonio di beni immobili, altri cespiti mobiliari (con conseguente privazione di ogni capacità operativa e produttiva), nessun corrispettivo od incremento patrimoniale risultava conferito, in sinallagma, alle società cedenti, sia perchè le scissioni societarie erano avvenute senza corrispettivo, sia perchè i corrispettivi contrattualmente pattuiti per le cessioni dei rami di azienda, al settembre 2010, o non erano stati corrisposti o lo erano stati con ‘compensazioni volontarie’ e quindi con movimenti di denaro formali, se non fittizi”. Del pari viene ritenuta corretta la risposta del Tribunale del riesame alla deduzione della non configurabilità del reato per la mancanza di una procedura esecutiva in atto da parte dell’amministrazione finanziaria, essendo la stessa un elemento non necessario ad integrare la fattispecie, come da consolidata interpretazione giurisprudenziale (sin da Sez. 3, Cass. n. 17071/2006, De Nicolo, Rv. 234322).

Ed ancora va ancora registrata la sentenza n. 35310 del 29 settembre 2011 (ud. del 7 giugno 2011) con cui la Corte di Cassazione ha affermato che integra il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte la prossimità temporale tra la consapevolezza dei debiti fiscali e la stipula di atti di cessione volti a sottrarre i beni del contribuente alle pretese dell’erario nonché il permanere nella materiale disponibilità degli immobili tramite lo strumento della locazione finanziaria.

Da ultimo, con sentenza n. 36290 del 6 ottobre 2011 (ud. del 18 maggio 2011) la Corte di Cassazione ha ribadito, “comunque, l’orientamento ormai consolidato di questa Corte secondo il quale, la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, è diversa rispetto all’omologa fattispecie, oggi abrogata, di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 97, comma 6, (come modificato dalla L. n. 413 del 1991, art. 15, comma 4), in quanto – a fronte della identità sia dell’elemento soggettivo costituito dal fine di evasione ed integrante il dolo specifico, che della condotta materiale rappresentata dall’attività fraudolenta – la nuova fattispecie, da un lato, non richiede che l’amministrazione tributaria abbia già compiuto un’attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo e, dall’altro, non richiede l’evento che, nella previgente previsione, era essenziale ai fini della configurabilità del reato, ossia la sussistenza di una procedura di riscossione in atto e la effettiva vanificazione della riscossione tributaria coattiva”. La fattispecie delittuosa – nell’attuale formulazione – costituisce reato di pericolo e non più di danno e l’esecuzione esattoriale, quindi, “non configura un presupposto della condotta illecita, ma è prevista solo come evenienza futura che la condotta tende (e deve essere idonea) a neutralizzare. Ai fini della perfezione del delitto, pertanto, è sufficiente la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace (anche parzialmente) la procedura di riscossione – idoneità da apprezzare con giudizio ex ante – e non anche l’effettiva verificazione di tale evento (vedi Cass.: Sez. 3′, 9.4.2008, n. 14720; Sez. 5′, 26.2.2007, n. 7916 e Sez. n. 18.5.2006, n. 17071)”. L’interesse oggetto di tutela diretta da parte della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 11, del D.Lgs. n. 74 del 2000, “non è il diritto di credito del fisco: infatti, pur costituendo questo il fine ultimo perseguito dal legislatore, la sua lesione non costituisce elemento necessario della fattispecie, potendo configurarsi il reato anche qualora, in concreto, dopo il compimento degli atti fraudolenti richiesti dalla norma, avvenga il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori”.

Ricordiamo che il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è disciplinato dall’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, attraverso il quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce (con la reclusione da 6 mesi a 4 anni) colui il quale, al fine di sottrarsi al pagamento delle II.DD. o dell’IVA o di interessi o sanzioni relative a dette imposte, di ammontare complessivo superiore a € 51.645 alieni simulatamente o compia altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione.

Detta norma è stata rivisitata dalla cd. Manovra correttiva (D.L.n.78 del 31 maggio 2010), che ha inasprito la formulazione e aumentato le pene, prevedendo soglie di punibilità diverse, e nuove fattispecie delittuose.

La norma adesso risulta così formulata: “è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”.

Inoltre, l’art. 11 del D.Lgs.n.74/2000, viene arricchito di un secondo comma, che punisce, “con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l’ammontare di cui al periodo precedente e superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”.

Per l’Amministrazione finanziaria – circolare n. 154/E del 4 agosto 2000, punto 3.4. – il reato si perfeziona con “la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione, e non anche l’effettiva verificazione dell’evento”

Il delitto contempla, quindi, una condotta esclusivamente commissiva, consistente nell’alienazione simulata di beni del proprio patrimonio o il compimento di altri atti fraudolenti sui beni propri o altrui preordinati al fine di pregiudicare l’efficacia della riscossione coattiva.

Tuttavia, nella sentenza che si annota, la suprema corte ha confermato il sequestro per equivalente disposto sul conto corrente – in pendenza di una procedura esattoriale – avendo posto in essere una serie di azioni – prelevamento e frazionamento in assegni circolari delle somme presenti nel proprio conto corrente – ritenute anomale e, quindi, determinante ai fini della configurabilità del reato contestato.

 

25 luglio 2012

Francesco Buetto