La prova contraria nell’ambito delle indagini finanziarie

Quali sono le opzioni di difesa per il contribuente soggetto a controlli bancari, controlli che rappresentano una delle più incisive e invasive modalità di indagine, tra quelle orientate all’attività di accertamento.

Indagini finanziarie – Aspetti generali

indagini finanziarieI controlli bancari (che possono caratterizzare sia le operazioni propriamente definibili di polizia tributaria, sia quelle di polizia giudiziaria, eseguite nell’ambito di istruttorie penali riguardanti varie ipotesi di crimini economici) rappresentano una delle più incisive e «invasive» modalità di indagine, tra quelle orientate all’attività di accertamento.

In ambito fiscale, essi traggono tutta la propria forza dall’operare di presunzioni legali relative, e dunque dall’inversione dell’onere della prova, posto a carico dei soggetti controllati.

I controlli di tipo bancario/finanziario, anche supportando e integrando le attività di verifica in loco, consentono di individuare direttamente i flussi e le disponibilità di mezzi finanziari, da questi risalendo al presupposto impositivo (cioè al possesso di redditi).

La notevole «forza istruttoria» dello strumento incontra dei vincoli ed è sottoposta a garanzie a tutela dei soggetti coinvolti nell’indagine, come previsto dallo «Statuto del contribuente»; svolge in tale contesto una funzione particolarmente importante la produzione della prova contraria, ossia della dimostrazione che le somme riferibili alle movimentazioni riscontrate non assumono rilevanza ai fini della ricostruzione delle basi imponibili, ovvero sono già incluse nel reddito (o nel volume d’affari) reso manifesto mediante la dichiarazione fiscale.

Le indagini finanziarie si inseriscono in un contesto di presunzioni legali relative, suscettibili di prova contraria da parte del contribuente in sede di controllo e accertamento (prova che può essere prodotta e valorizzata sia in sede di contraddittorio nell’ambito della verifica, sia successivamente, avanti l’ufficio accertatore).

 

Quando vengono eseguite le indagini finanziarie?

La prassi operativa della Guardia di Finanza può fornire in tale scenario degli importanti chiarimenti, considerando la spiccata specializzazione investigativa posseduta dal Corpo: può quindi valere il riferimento alla circolare del Comando Generale n. 1/2008, secondo la quale le indagini finanziarie, così come gli altri strumenti istruttori in ambito tributario, possono essere attivate dagli organismi ispettivi se ciò risulta utile, opportuno e consigliabile per poter giungere all’esatta ricostruzione della posizione fiscale dei contribuenti.

Non è infatti disciplinata alcuna «tipizzazione legale» delle circostanze legittimanti l’avvio di tali controlli, il cui fondamento deve ricercarsi nelle generali esigenze di natura istruttoria. Sul piano operativo, inoltre, l’esercizio del potere di attivazione del controllo finanziario non è necessariamente subordinato al preventivo avvio di una verifica fiscale.

Sempre secondo la circolare della G.d.F., le indagini finanziarie possono ad esempio essere intraprese se occorre eseguire approfondimenti sulla posizione fiscale di un contribuente non residente in Italia ma che risulti titolare di rapporti finanziari nel territorio nazionale, anche su input di Amministrazioni estere, nell’ambito dei rapporti di cooperazione amministrativa ai fini fiscali.

La particolare pervasività dello strumento, oltre che le esigenze di economicità e proficuità dell’azione amministrativa, inducono tuttavia a ben motivare e giustificare (negli atti della procedura) l’utilizzo di tale modalità istruttoria, alla luce delle necessità di approfondire l’indagine fiscale in corso.

In particolare, le indagini finanziarie sono ritenute «auspicabili» nei seguenti contesti operativi:

  • forme di evasione totale o paratotale;

  • ipotesi di omessa tenuta delle scritture contabili o di loro tenuta in maniera palesemente inattendibile;

  • casi di frode fiscale e altre fattispecie penali tributarie;

  • situazioni di evidente e significativa sproporzione tra le manifestazioni di capacità contributiva e i redditi dichiarati dai contribuenti.

 

Il controllo può riguardare tutti i «rapporti» intrattenuti con intermediari finanziari

Le norme che legittimano l’Amministrazione fiscale – allo stato, l’Agenzia delle Entrate, oltre che la G.d.F. nell’ambito delle proprie funzioni di polizia tributaria – a controllare i conti e i rapporti intrattenuti dai contribuenti con istituti di credito, o con la società Poste Italiane S.p.a., sono riconducibili:

  • per l’IVA, all’art. 51, secondo comma, n. 7), del D.P.R. 26.10.1972, n. 633;

  • per le imposte sui redditi, agli artt. 32, primo comma, n. 7), e 33, commi secondo, terzo e sesto, del D.P.R. 29.9.1973, n. 600.

Per effetto dei commi 402-404 dell’art. 1 della L. 30.12.2004, n. 311 (Finanziaria 2005), la richiesta dell’Amministrazione (Agenzia delle Entrate o Guardia di Finanza), precedentemente limitata ai «conti» bancari, si è estesa ai dati, alle notizie e ai documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, compresi i servizi prestati dalle banche e dagli altri soggetti interessati nei confronti dei propri clienti, nonché le garanzie prestate da terzi.

L’ampliamento delle ipotesi di controllo ha avuto l’evidente finalità di garantire un’istruttoria completa ed efficace acquisendo le «tracce» dell’evasione che non hanno comportato la movimentazione di conti, ma hanno nondimeno interessato banche, Poste, intermediari finanziari, etc. (es.: l’incasso di assegni allo sportello).

La richiesta della copia dei conti e la specificazione dei rapporti inerenti o connessi deve intendersi riferita alle sole informazioni relative al contribuente indicato nella richiesta, dovendosi invece escludere che – nella fase iniziale del controllo – possano essere richiesti alla banca dati o informazioni su altri soggetti.

Nelle fasi successive – quella della richiesta mediante questionario di ulteriori dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi ai conti, e quella, eventuale, dell’accesso presso la banca – gli uffici possono invece acquisire i documenti sottostanti i conti, normalmente riferiti anche a soggetti diversi dal contribuente.

Può essere rammentato che l’attivazione del controllo bancario/finanziario comporta l’inversione dell’onere della prova a carico del controllato, il quale dovrà dimostrare all’ufficio, che le movimentazioni riscontrate sono riferite a proventi dichiarati o comunque a valori contabilizzati, ovvero non sono rilevanti ai fini della quantificazione del reddito. Se la dimostrazione non sarà ritenuta sufficiente, operano le presunzioni normativamente previste, in forza delle quali non solamente gli incassi (movimentazioni attive), ma anche i prelevamenti (movimentazioni attive) possono essere considerati «ricavi» per le imprese e «corrispettivi» per i professionisti1.

Ancorché si segnali un orientamento giurisprudenziale secondo il quale, comunque, al reddito di impresa (ovvero quello di lavoro autonomo) vanno associati i relativi costi2, è evidente l’insidiosità della presunzione legale, che deve quindi essere affrontata con adeguata «attrezzatura» probatoria e documentale.

 

La difesa del contribuente sottoposto a controllo

Di fronte a una modalità istruttoria così incisiva, in grado di penetrare la «riservatezza» dei conti e dei rapporti finanziari e di attingere direttamente – al livello della manifestazione finanziaria – le informazioni da utilizzare in sede di accertamento, è lecito attendersi qualche problema relativamente alla compatibilità con il diritto di difesa costituzionalmente garantito, che nei rapporti tributari si traduce nella possibilità del contribuente di provare e controargomentare a proprio favore.

Con l’ordinanza 6.7.2000, n. 260, relativa al giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 51, secondo comma, nn. 2) e 7), del D.P.R. n. 633/1972, la Corte Costituzionale ha affermato che – con riferimento alle disposizioni sui controlli bancari/finanziari – la censura di violazione dell’art. 24 della Costituzione non ha fondamento, poiché il controllato viene «tempestivamente informato» delle richieste di acquisizione della documentazione bancaria, e non gli è precluso il pieno esercizio, prima in sede amministrativa, e quindi in sede giudiziale, del proprio diritto di fornire riscontri probatori finalizzati a dimostrare l’irrilevanza fiscale delle movimentazioni esaminate (art. 51, c. 2, n. 2, D.P.R. n. 633/1972).

Inoltre, secondo le indicazioni fornite dalla Consulta, il valore presuntivo assegnato alle risultanze dei conti, con facoltà di prova contraria da parte del contribuente, «si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente».

Di analogo tenore è l’ordinanza n. 33 del 26.2.2002, sortita dai giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 51, c. 2, n. 2, del D.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 32, c. 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973.

Pur ravvisando la totale correttezza procedurale della trasmissione degli atti del processo penale e del loro utilizzo in sede tributaria (questioni che erano emerse avanti il giudice di merito rimettente), era stata evidenziata «una inconciliabile antinomia fra il regime istruttorio-probatorio proprio del procedimento penale, nel cui ambito l’indagato ha il diritto di non rispondere, e dalla mancata partecipazione o dalla mancata risposta non possono derivare conseguenze negative per il medesimo indagato, e quello proprio della materia tributaria, in cui, a seguito della contestazione al contribuente delle risultanze bancarie e dell’invito a comparire per giustificarne la rispondenza alle scritture contabili, la mancata o insufficiente giustificazione comporta l’applicazione della ‘presunzione di ricavi’, e la inottemperanza all’invito a comparire e ad altre richieste degli uffici è punita con sanzione amministrativa».

Insomma, si lamentavano i danni derivanti dall’incompatibilità tra il diritto al silenzio dell’imputato nel procedimento penale e l’obbligo del contribuente di rispondere alle richieste dell’autorità fiscale, atteso che la riunione di ambedue le qualità in capo alla stessa persona avrebbe comportato comunque degli svantaggi.

L’accertamento tributario diviene poi rilevante anche in ambito processual-penalistico, come quando si debba applicare – per le sanzioni – il principio di specialità, oppure quando la legge dia rilevanza alla definizione del rapporto fiscale anche avanti il giudice penale, o quando quest’ultimo utilizzi le decisioni del giudice tributario o atti amministrativi extraprocessuali. Per simili motivi, il diritto di difesa era ritenuto compromesso in ambedue i processi, poiché la prova tributaria si identificherebbe – sostanzialmente – con l’esercizio del diritto di non rispondere dell’imputato-contribuente.

Ribadita la legittimità costituzionale delle presunzioni iuris tantum, la Consulta ha negato rilevanza, ai fini dell’ipotizzato contrasto con l’art. 24 della Costituzione, al possibile interesse del contribuente a non addurre giustificazioni eventualmente utili a contrastare le presunzioni medesime, a fronte del rischio di conseguenze negative in procedimenti penali a suo carico. In quest’ultima sede il contribuente ha certo diritto a tutte le garanzie che sono associate al processo penale; ma non può assolutamente ritenere (esautorando l’Amministrazione) di mutare il diverso regime probatorio che caratterizza il rapporto tributario.

 

La prova contraria fornita in sede di contraddittorio con l’ufficio

Come è stato rilevato in dottrina, lo strumento del contraddittorio rappresenta il punto nevralgico intorno al quale ruota anche l’attività di verifica, per effetto di quanto previsto dal settimo comma dell’art. 12, dello Statuto del contribuente, il quale “ha introdotto una nuova forma di contraddittorio, obbligatorio per l’Amministrazione Finanziaria e senza effetti preclusivi per il contribuente”3.

Rispetto al previgente contesto normativo, già caratterizzato, comunque, dalla presenza di disposizioni che legittimavano il contribuente a presentare osservazioni ed eccezioni, verbalizzate nei processi verbali giornalieri, attivando un dialogo preventivo con i verificatori, la L. n. 212/2000 ha compiuto un ulteriore passo in avanti, sancendo il divieto per l’Ufficio – entro i 60 giorni – di emettere l’avviso di accertamento, salvo che non si versi in casi di particolare e motivata urgenza.

Tale «sospensione» è finalizzata alla valutazione critica delle risultanze del controllo da parte dell’ufficio: da ciò risulta evidente che quello del contraddittorio si pone come il criterio-guida fondamentale, difficilmente derogabile nel complessivo contesto delle attività di controllo e accertamento.

Per quanto attiene al contraddittorio nell’ambito delle indagini finanziarie, può essere osservato che esso – concepito in chiave «preventiva», come interlocuzione tra contribuente e verificatori prima dell’emanazione del pvc – è stato ritenuto, sia dalla prassi dell’Amministrazione, sia dalle Corti, espressione di una «discrezionalità» del Fisco, più che di un diritto del soggetto sottoposto a controllo.

A tale proposito, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 19.10.2006, pur ribadendo il carattere solo «eventuale» del contraddittorio in sede di indagine bancaria/finanziaria, ha sottolineato che «tale istituto risulta … essenziale nella fase prodromica dell’accertamento in quanto l’indagine – prima solamente di natura bancaria e ora più in generale finanziaria -, pur realizzando un’importante attività istruttoria, non costituisce uno strumento di applicazione automatica, atteso che i relativi esiti devono essere successivamente elaborati e valutati per assumere, non solo in sede amministrativa ma anche in quella giudiziaria, la valenza di elementi precisi e fondanti ai medesimi fini impositivi».

Quindi, «il preventivo contraddittorio … si configura, in via di principio, come un passaggio opportuno per provocare la partecipazione del contribuente, finalizzata a consentire un esercizio anticipato del suo diritto di difesa, potendo lo stesso fornire già in sede precontenziosa la prova contraria, e rispondente a esigenze di economia processuale, al fine di evitare l’emissione di avvisi di accertamento che potrebbero risultare immediatamente infondati alla luce delle prove di cui il contribuente potesse disporre».

Comunque, anche se il contraddittorio si inquadra come mera facoltà – e non come obbligo – degli uffici, sicché «il mancato invito dell’ufficio … non inficia la legittimità della rettifica», si osserva che l’attivazione di una fase «dialettica», su impulso dell’ufficio oppure del contribuente, rimane sempre possibile e, anzi, pressoché «necessitata», in tutti i successivi passaggi nei quali si articola il procedimento amministrativo tributario, fino a giungere (nel caso in cui permangano le ragioni di contrasto tra contribuente e Fisco) alla fase contenziosa (nella quale pure, non volendo percorrere i vari gradi di giudizio, sarà eventualmente esperibile la procedura della conciliazione giudiziale ai fini della cessazione della materia del contendere).

Una certa linea critica nella pubblicistica ha evidenziato che, in assenza di contraddittorio, non potendo il contribuente fornire spiegazione sulle movimentazioni riscontrate, le presunzioni legali relative dovrebbero ritenersi «degradate» a presunzioni semplici (perciò necessitanti dei caratteri civilistici di gravità, precisione e concordanza)4: si ribadisce però che il controllo finanziario non è fine a sé stesso, ma costituisce solamente il primo input di un’attività istruttoria che conduce all’accertamento; per tale motivo, la dimostrazione richiesta al contribuente dalla norma potrà essere fornita in seguito, appunto in fase di adesione. Infatti, le modalità operative dell’accertamento con adesione costituiscono, allo stato, in qualche modo la «regola», e anche se formalmente non è attivata l’adesione, comunque l’ufficio tenderà a favorire un’audizione delle parti private.

L’estensione del contraddittorio come principio cui generalmente devono attenersi le attività istruttorie fondate su norme «presuntive» risulta peraltro confermata dalle modificazioni che hanno interessato nel 2010 l’ambito dell’accertamento sintetico (D.L. 31.5.2010, n. 78, convertito con modificazioni della L. 30.7.2010, n. 122).

 

Presunzioni tributarie e perizie disposte in sede penale

Con l’ordinanza n. 22636 dell’8.11.2010 (udienza del 6.7.2010), che ha cassato con rinvio la controversia, la sezione Tributaria della Cassazione ha fornito ulteriori elementi utili a comprendere la rilevanza (o irrilevanza) delle vicende processuali che interessano l’ambito penale, rispetto alla dimostrazione che, nel procedimento amministrativo di accertamento e nel processo tributario, vale a escludere l’applicazione delle presunzioni in materia di controlli finanziari.

In linea generale, ha affermato la corte che compete al contribuente la dimostrazione dell’estraneità alla materia imponibile delle operazioni effettuate sui conti correnti (dopo le modificazioni normative sopra cennate, anche – evidentemente – delle operazioni extraconto), al fine di superare la presunzione disposta dall’ordinamento tributario in favore dell’Amministrazione.

Alla luce dell’estraneità e della differente finalità del giudizio penale, e dell’eterogeneità dei regimi probatori, in particolare, non giova a tal fine la produzione di una perizia disposta in sede penale.

La presunzione, secondo la Corte, può essere vinta dal contribuente che offra «la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili», in maniera specifica e analiticamente riguardante i singoli movimenti bancari.

Dalla perizia penale, secondo il contribuente, risultava (con soddisfazione dell’onere probatorio richiesto dalla norma) che non c’era prova che gli importi rilevati dal controllo delle movimentazioni bancarie in entrata costituivano maggiori corrispettivi aziendali rispetto a quelli registrati nel conto cassa, né che le movimentazioni in uscita si riferissero a spese personali «tali da costituire utilizzo delle somme presuntivamente incassate».

Per quanto può brevemente affermarsi a titolo di «commento» alla decisione della Corte, più che la difformità/estraneità tra l’ambito processualpenalistico e quello tributario, sembra a chi scrive che – in generale – si riaffermi l’inidoneità a superare la presunzione «finanziaria» (ex artt. 32, D.P.R. n. 600/1973, e 51, D.P.R. n. 633/1972) mediante affermazioni generiche. Inoltre, sotto un profilo strettamente logico, se opera una presunzione legale relativa non può affermarsi che l’onere della prova contraria è soddisfatto semplicemente affermando che «non vi è prova» che i movimenti in entrata e in uscita si riferiscono, rispettivamente, a ricavi e a costi: diversamente argomentando, verrebbe del tutto ignorata l’inversione dell’onere probatorio, in dispregio alla norma di riferimento (né può ritenersi sufficiente, a tal fine, una perizia dal contenuto non puntuale e specifico).

 

6 febbraio 2012

Fabio Carrirolo

 

NOTE

1 Si vedano sul punto le precisazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 32/E del 19.10.2006 (par. 5.4).

2 Cfr. sul punto Cass., sez. Trib., 26.4.2002, n. 6051, secondo la quale, come da precedente giurisprudenza (Cass., sez. Trib., 13.6.2001, n. 7973), in caso di rettifica induttiva, alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un’incidenza percentualizzata dei costi. Tale concessione è stata però esclusa ai fini IVA poiché la base imponibile di tale ultima imposta è costituita dall’insieme dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore.

3 Cfr. S. Capolupo, «Manuale dell’accertamento delle imposte», seconda edizione, pag. 1989.

4 Cfr. D. Deotto, «Piccole aperture, ma alla fine vince la “linea dura”», Il Sole 24 ore, 23.10.2006, p. 39.