Le verifiche fiscali, un approfondito esame curato dall'Avv. Maurizio Villani – seconda parte

proseguiamo l’analisi del tema delle verifiche fiscali: in questa parte approfondiamo i diritti del contribuente sottoposto a verifica alla luce dello Statuto del Contribuente

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4.4.ACCESSO in LOCALI di TERZI SENZA AUTORIZZAZIONE della PROCURA – DOCUMENTAZIONE ILLEGITTIMAMENTE ACQUISITA – NULLITA’ dell’AVVISO di ACCERTAMENTO

Secondo la Corte di Cassazione, Sez. trib., Sentenza 19.1-28.4.2010, n. 10137 costituisce una “violazione dell’art. 52, D.P.R. 26.10.1972, n. 633, in riferimento all’art. 360 c.p.c., l’arbitrario accesso da parte della Guardia di finanza in un locale estraneo all’impresa verificata, a seguito del quale sia stata effettivamente rinvenuta la documentazione extracontabile dell’impresa stessa, in base alla quale venga poi emesso un avviso di accertamento. In particolare, nel caso concreto, la G.d.f. aveva illegittimamente acquisito gli elementi probatori, ricondotti poi alla società verificata, poiché aveva effettuato un accesso in un locale assolutamente estraneo all’attività imprenditoriale e senza alcuna autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica.

A tale ultimo riguardo, la Cassazione sottolinea, infatti, che nella motivazione della sentenza di merito non risulta provato che il rinvenimento della documentazione in questione da parte della Guardia di finanza sia avvenuto in locali adibiti al commercio o connessi ad esso, o per i quali non fosse comunque necessaria la specifica autorizzazione della Procura della Repubblica.

Per tali motivi, essendosi appunto verificata una violazione dell’art. 52, D.P.R. 633/1972, l’avviso di accertamento emesso in base alla documentazione così acquisita deve ritenersi nullo.

5.GLI ACCESSI negli studi professionali: Segreto professionale

In base al comma 1 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 l’accesso è consentito non solo nei locali destinati all’esercizio di attività industriali, commerciali e agricole ma anche presso gli studi professionali. Tale accesso è consentito o semplicemente previa esibizione dell’autorizzazione che ne indica lo scopo rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono o, nel caso lo studio sia adibito anche ad abitazione privata, a tale autorizzazione deve essere affiancata quella rilasciata dal Procuratore della Repubblica. Infine la norma sempre al comma 1 sancisce che in ogni caso l’accesso nei locali adibiti all’esercizio di arti e professioni deve essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.

Al riguardo, la legge non dispone concrete modalità con cui i verificatori devono accertarsi della presenza del professionista al momento dell’accesso, per cui, qualora il professionista sia assente all’avvio delle operazioni ispettive, i verificatori non possono intervenire d’autorità, né richiedere l’assistenza di terzi.

La prassi adottata dagli organi di controllo prevede di contattare, subito dopo avere iniziato l’accesso presso lo studio, il professionista titolare dello stesso, al fine di concordare il suo rientro presso l’ufficio, ovvero il rilascio, anche via fax, di apposita delega al dipendente presente in quel momento o ad altra persona di fiducia immediatamente reperibile. Quanto detto va integrato con quanto disposto dal comma 3 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 che aggiunge che è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso all’esame dei documenti o alla richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’art. 103 del codice di procedura penale sulle garanzie di libertà del difensore.

In via generale, la tutela del segreto professionale si impernia sull’art. 622 del codice penale, ove è previsto il delitto di indebita rivelazione di notizie apprese in ragione del proprio stato, ufficio o professione.

Tale segreto è salvaguardato in ragione dell’esigenza di tutelare l’interesse privato alla riservatezza dei clienti che si rivolgono ad un professionista e dell’esigenza di tutelare l’interesse pubblico a non scoraggiare il ricorso a prestazioni professionali che richiedono la conoscenza di notizie riservate sul conto del cliente.

Sul piano penale-processuale, la tutela del segreto professionale è garantita sotto i profili:

della facoltà di astenersi dal testimoniare su quanto conosciuto per ragione della propria professione (art. 200 del codice di procedura penale);

della possibilità di opporsi all’esibizione di atti e documenti richiesti dall’Autorità giudiziaria, dichiarando per iscritto che si tratta di notizie coperte dal segreto professionale (art. 256 del codice di procedura penale).

Si sottolinea a tal proposito che il segreto professionale è una garanzia di ordine generale in favore del rapporto confidenziale tra cliente e professionista ed in virtù della quale quest’ultimo ha il diritto-dovere di garantire al proprio assistito il massimo riserbo su ciò che gli è stato confidato. È d’obbligo sottolineare però che il ricorso al segreto professionale è del tutto eventuale potendo opporsi solo dai professionisti per i quali è oggetto di apposita tutela come ad esempio per i professionisti iscritti negli ordini professionali, albi o appartenenti a categorie protette e solo per atti e documenti che riguardano terzi e che comunque rivestano un interesse diverso da quelli economici e fiscali degli stessi.

In ogni caso di verifica riguardante il professionista sembra lecito ritenere che il verificatore possa estendere le ricerche ai fascicoli dei clienti ma solo per acquisire dei documenti che costituiscono prova dei rapporti finanziari intercorsi tra professionisti e clienti.

Per contro, sarebbe irrituale l’eventuale acquisizione di documenti riguardanti soggetti diversi dal professionista e ad essa, perciò, il professionista potrebbe opporre non solo il segreto professionale ma anche il difetto di legittimazione dei verificatori ad incidere su sfere di persone estranee a quelle del professionista interessato alla verifica.

Per i professionisti si può riassumere dicendo che in caso di verifica nei loro confronti i verificatori possono consultare i fascicoli dei clienti soltanto per evidenziare i rapporti finanziari con il professionista; in caso di verifica al cliente dello studio i verificatori possono consultare solo i libri e i documenti del cliente che il professionista è tenuto ad esibire.

In entrambi i casi il professionista può opporre il segreto professionale ma i verificatori possono richiedere l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria per procedere ugualmente. Nel caso in cui l’autorizzazione venga concessa, il silenzio della norma porta ad escludere qualsiasi forma di appello da parte del professionista, anche se parte della dottrina ritiene percorribile il rimedio dell’art. 700 del codice di procedura civile.

La competenza a decidere sull’annullamento di tale autorizzazione è del giudice tributario (in esito all’impugnazione dell’accertamento) e non di quello amministrativo (in via immediata).Pertanto, lo schema delineato dal legislatore con l’art.52, comma 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 importa che la tutela giurisdizionale sia attivabile solo in futuro, se e quando l’Amministrazione finanziaria provvederà a notificare l’avviso di accertamento. In sostanza, l’autorizzazione del magistrato è considerata atto endoprocedimentale, non immediatamente impugnabile, sicchè eventuali vizi vanno fatti valere, in base al principio della nullità derivata, soltanto in sede di impugnazione dell’atto impositivo”.

È questo il punto chiave della sent. 7 maggio 2010, n. 11082 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pronunciata al termine di una complessa vicenda giudiziaria che appare opportuno ripercorrere.

Qualora l’Autorità giudiziaria non dovesse rilasciare l’autorizzazione, si deve ritenere che i verificatori potrebbero reiterarla offrendo nuove motivazioni.

L’importanza degli interessi coinvolti nel caso di opposizione del segreto professionale dovrebbe riflettersi sull’autorizzazione che ne dispone il superamento. Essa, infatti, dovrebbe soffermarsi sulla presenza dei presupposti per la concessione e sulla effettiva necessità di derogare al segreto professionale e non essere concessa – come quasi sempre accade – sulla base di “motivazioni stereotipe o al ciclostile”.

Tra i presupposti di concessione della deroga è da comprendere anche la verifica dell’esistenza di “gravi indizi di violazione delle norme”, come emerge da una lettura coordinata tra il terzo ed il secondo comma dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972. In particolare, il Procuratore della Repubblica è chiamato a verificare: l’esistenza di indizi di violazione di disposizioni tributarie; la gravità di tali indizi; la fondatezza o meno dell’eccezione relativa al segreto professionale.

Ma di tali valutazioni, almeno in genere, non vi è traccia. Ed accade che nessuna motivazione sia addotta né circa l’esistenza di gravi indizi di violazione, né circa la fondatezza dell’opposizione del segreto professionale.

Quasi mai, peraltro, è accaduto che le Commissioni tributarie abbiano annullato un avviso di accertamento per ragioni inerenti all’insufficienza del provvedimento autorizzatorio. La Corte di Cassazione, inoltre, intervenendo in controversie inerenti all’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972(1) ha più volte ritenuto sufficiente una motivazione sintetica ovvero costituita dal semplice richiamo alla nota dell’Amministrazione finanziaria contenente la richiesta della relativa adozione, facendo riferimento agli indizi di violazione della norma tributaria che giustificano la richiesta.

L’intento della normativa (richiesta dell’autorizzazione all’Autorità Giudiziaria per procedere ugualmente) è quello di evitare che il segreto professionale divenga facile occasione per occultare la documentazione. Sarebbe infatti sufficiente richiedere ad un professionista di detenere nell’interesse dei clienti ogni documentazione ad essi relativa per sottrarre tali documenti all’attività ispettiva.

Per quanto riguarda, invece, la rilevanza ai fini del controllo della posta elettronica, si ritiene che, come per la normale corrispondenza commerciale, siano direttamente acquisibili i messaggi già “aperti”, mentre quelli non ancora letti sarebbero da trattare secondo quanto previsto dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, con la conseguente necessità, in caso di rifiuto opposto dal contribuente, di munirsi dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria.

6.I diritti e le garanzie del contribuente

Il legislatore, con lo scopo di migliorare sempre più i rapporti fisco-contribuente, con la legge 27 luglio 2000, n. 212, ha introdotto nel nostro ordinamento lo «Statuto dei diritti del contribuente» il quale, con particolare riferimento alle modalità di svolgimento dei controlli fiscali, detta precise regole a garanzia del contribuente.

Nel suo complesso, lo Statuto si muove nella direzione di realizzare un giusto bilanciamento tra le opposte esigenze del Fisco e dei contribuenti, evitando arbitrarie ed eccessive compressioni delle posizioni giuridiche di questi ultimi, senza, nel contempo, ostacolare e compromettere l’attività degli Uffici.

Le disposizioni riguardano, nel particolare, i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali (art. 12), l’istituzione del Garante del contribuente (art. 13), l’emanazione del Codice di comportamento per il personale addetto alle verifiche tributarie (art. 15), il divieto di richiedere al contribuente documenti e informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche (art. 6, comma 4), l’inapplicabilità delle sanzioni relative a violazioni formali (art. 10, comma 3).

Nel dettaglio:

gli accessi presso locali destinati all’esercizio d’attività d’impresa o di lavoro autonomo devono essere motivati da “esigenze effettive d’indagine e controllo sul luogo”; salvo casi eccezionali e urgenti, devono essere adeguatamente documentati; si devono svolgere durante l’ordinario orario d’esercizio dell’attività e con modalità tali da comportare la minore turbativa possibile allo svolgimento dell’attività e alle relazioni commerciali o professionali (art. 12, comma 1);

il contribuente ha diritto di essere informato, pertanto, all’inizio della verifica, “delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria”; dei diritti che gli devono essere riconosciuti e degli obblighi cui è soggetto (comma 2);

l’esame dei documenti amministrativi e contabili, su richiesta del soggetto controllato, “può essere effettuato nell’ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta” (comma 3);

nel processo verbale delle operazioni di verifica si deve dare atto “Delle osservazioni e dei rilievi del contribuente e del professionista, che eventualmente lo assista” (comma 4);

la permanenza presso la sede del contribuente “non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio”; è, tuttavia, prevista la possibilità, decorso tale periodo, di un nuovo accesso “per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate … dopo la conclusione delle operazioni di verifica” e per specifiche ragioni, previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio (comma 5);

la facoltà, per il soggetto controllato, qualora lo stesso “ritenga che i verificatori procedano con modalità non conformi alla legge”, di rivolgersi al Garante del contribuente (comma 6);

la possibilità per il contribuente di comunicare, entro i 60 giorni successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, specifiche osservazioni e richieste agli uffici impositori (comma 7).

Accessi presso i locali destinati all’esercizio dell’attività

In particolare, tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo.

Sotto tale profilo, l’organo ispettivo dovrà evidenziare nel processo verbale di verifica quali sono le reali ed effettive esigenze di indagine e controllo presso la sede del contribuente.

L’art. 12, c. 2, della L. n. 212/2000 deve essere fondamentalmente interpretato e valutato come una norma rafforzativa della capacità del cittadino-contribuente di appurare, all’inizio della verifica, la sussistenza dell’interesse conoscitivo del Fisco ad esaminare la sua posizione tributaria, ricevendo un’informazione chiara e completa circa lo scopo del controllo.

A titolo meramente esemplificativo, si ritiene che possano giustificare l’accesso presso la sede della società, le sotto indicate effettive esigenze di indagine:

– effettuazione dell’inventario «fisico» della merce presente presso i magazzini aziendali;

– identificazione del personale dipendente, che si trova al momento dell’accesso all’interno dei locali dell’impresa, al fine di individuare eventuali lavoratori in «nero»;

– rilevazione della consistenza di cassa;

– acquisizione di documentazione extra – contabile utile al controllo fiscale, reperita in esito alle ricerche effettuate presso i locali aziendali (uffici, magazzini, automezzi ecc.), avvalendosi delle facoltà previste dall’art. 52 del D.P.R. n.633/1972 e 33 del D.P.R. n.600/1973.

Essi si devono svolgere, salvo casi eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente.

-Diritto d’informazione

Quando poi viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato:

a) delle ragioni che l’abbiano giustificata;

b) dell’oggetto che la riguarda;

c) della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria;

d) dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche.

Su richiesta del contribuente, l’esame dei documenti amministrativi e contabili può essere effettuato nell’Ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta.

Tuttavia, può verificarsi che in occasione dell’accesso non venga evidenziato per quali ragioni il contribuente sia sottoposto a controllo, o ancora durante o dopo la verifica, i funzionari decidano di estendere il controllo ad altre annualità, rispetto a quelle per le quali è stata inizialmente eseguita l’attività ispettiva, ma dette ragioni non vengono esplicitate al contribuente in nessun atto.

Da qui si pone il problema delle possibili conseguenze della chiara violazione al disposto dell’art. 12 dello Statuto ed in particolare se si verifichi o meno la nullità del successivo accertamento.

Di norma, a questo proposito, l’Ufficio replica evidenziando che non esiste nell’ordinamento una sanzione espressa di nullità per queste violazioni, con la conseguenza che l’accertamento resta valido ed efficace.

Viene poi, in genere, fatto notare che le eventuali nullità, previste in tema di accertamento, dall’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non contemplano tale casistica.

Particolarmente interessanti sul tema alcune recenti pronunce assunte dalle Commissioni tributarie provinciali di Milano e di Reggio Emilia (C.T.P. di Milano, 10 maggio 2010, n. 126; C.T.P. di Reggio Emilia, 25 ottobre 2010, nn. 199 e 200).

Nel caso della Commissione tributaria provinciale di Milano, l’Ufficio aveva effettuato una verifica attraverso l’acquisizione di informazioni tramite invio di questionari e successivi inviti al contraddittorio. Il contribuente lamentava la violazione dell’art. 12, comma 2, non essendo stati indicati, né nel questionario, né nell’invito a comparire presso l’Agenzia, le ragioni e l’oggetto della verifica e non essendo stato riportato l’avvertimento sulla facoltà di farsi assistere da un professionista.

Nel caso invece delle pronunce della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, la violazione della norma in questione veniva invocata perché l’Ufficio, dopo aver proceduto a eseguire una verifica per un periodo di imposta, successivamente, attraverso l’acquisizione di dati, relativi ad altri anni, tramite questionari, emanava accertamenti anche per questi ultimi periodi. Il contribuente lamentava dunque che era stato eseguito un controllo senza spiegare le ragioni e l’oggetto del medesimo.

In tutti questi procedimenti i giudici di merito hanno concluso per la nullità dell’accertamento che non necessita di una previsione espressa, essendo la naturale conseguenza della violazione di diritti del contribuente previsti per legge.

– Permanenza presso la sede del contribuente

La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche fiscali effettuate presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio.

La particolare attenzione dimostrata dalla norma è giustificata, infatti, dallo scopo di evitare che un’eccessiva permanenza si traduca, di fatto, in un eccessivo “disagio” per il contribuente ed in una distrazione dell’attività di questi a seguito della smisurata presenza in “casa propria” di soggetti estranei al ciclo economico; la realtà economica potrebbe, in questo modo, subire dei fisiologici rallentamenti.

La considerazione, tuttavia, perde parte del suo significato se si pensi che ad un ambito precettivo della norma, preciso e puntuale, non ha fatto seguito alcun chiara disciplina delle conseguenza derivanti dal mancato rispetto della disposizione: al riguardo il Legislatore tace. Sta di fatto, tuttavia, che lo Statuto stabilisce dei termini molto rigidi di permanenza.

Il rischio è che l’eccessivo zelo dimostrato in sede normativa possa precludere all’Amministrazione finanziaria l’adozione di scelte alternative, maggiormente elastiche ed incentrate su un agire di più ampio respiro, allo scopo dell’adozione della scelta più opportuna.

Quanto alla proroga di ulteriori trenta giorni ai trenta inizialmente previsti, l’art. 12, comma 5 è chiaro a prevederne la legittimazione, a condizione che detta proroga avvenga “nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio”.

I documenti di prassi della Guardia di finanza fanno notare che rientrano in tali contesti tutte le ispezioni fiscali condotte nei riguardi di soggetti di considerevoli dimensioni e che la proroga, motivata, deve essere portata a conoscenza del contribuente.

Nell’arco della verifica è necessario effettuare un punto della situazione finalizzato a verificare la sussistenza dei requisiti di particolare complessità delle indagini indispensabili per giustificare l’eventuale proroga o per proseguire e terminare l’attività presso gli uffici.

La proroga deve essere disposta con giusta comunicazione motivata rivolta al contribuente e allegata al foglio di servizio redatto per il 31° giorno e, inoltre, copia di tale comunicazione deve essere consegnata, per notifica, al contribuente e, dell’avvenuta notifica, deve essere dato atto nel verbale di verifica.

Nel calcolo dei giorni di permanenza presso la sede del contribuente, rientrano solo le giornate lavorative effettivamente trascorse dai verificatori presso la sede del contribuente, con esclusione quindi dei giorni effettivi desumibili dal «calendario».

La scelta delle strategie ispettive deve essere eseguita tenendo conto che è consentita la possibilità di ritornare nella sede del contribuente, decorso il termine massimo di permanenza, per esaminare le osservazioni e le richieste, eventualmente presentate, dopo la conclusione delle operazioni di verifica e per “specifiche ragioni”.

L’orientamento delle Commissioni tributarie è stato, in questi anni, abbastanza alterno: a fronte di decisioni che hanno avallato l’interpretazione dell’Amministrazione, ritenendo quindi irrilevante, ai fini della legittimità dell’avviso di accertamento, la durata delle operazioni ispettive, non sono mancate decisioni di tutt’altro tenore che, invece, hanno ritenuto il mancato rispetto di questo termine una violazione ad una prescrizione normativa e ad un diritto del contribuente, cui deve conseguire la nullità dell’avviso di accertamento successivamente emanato.

In tale filone giurisprudenziale si inserisce la recente pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Terni (sent. 16 dicembre 2009, n. 141), ma occorre segnalare che, ad analoghe conclusioni, sono pervenute, sempre recentemente, le Commissioni tributarie regionali del Piemonte e della Lombardia (C.T.R. Piemonte, 7 maggio 2009, n. 26; C.T.R. Lombardia, 19 marzo 2008, n. 12).

Anche la Cassazione è stata investita della questione che con sentenza del, 18 dicembre 2009, n. 26689 ha accolto il ricorso del contribuente che lamentava, tra l’altro, l’eccessiva durata del controllo fiscale.

Il Garante del contribuente

L’art. 13 dello Statuto dei diritti del contribuente ha istituito, presso ogni Direzione Regionale delle Entrate e Direzione delle Entrate delle province autonome, il Garante del contribuente, un organo collegiale formato da tre componenti scelti dalla Commissione tributaria regionale.

Esso ha il compito di verificare, attraverso accessi agli uffici e esame della documentazione, le eventuali irregolarità, le scorrettezze e le disfunzioni dell’attività fiscale segnalate dai contribuenti.

I poteri di questo organo consistono in richieste di informazioni, nell’attivazione delle procedure di autotutela (annullamento di atti illegittimi da parte dell’Amministrazione finanziaria), nel richiamo degli Uffici al rispetto delle norme a garanzia dei diritti del contribuente.

Le funzioni e i poteri del Garante possono essere così sintetizzati:

richiama gli uffici al rispetto dei termini per l’erogazione dei rimborsi (art. 13, c. 10);

attiva le procedure di autotutela per atti di accertamento e di riscossione ( art. 13, c. 6);

ha il potere di accedere presso gli uffici finanziari per controllare la piena funzionalità dei servizi di assistenza, per verificare l’agibilità degli spazi aperti al pubblico;

ha il potere di verificare se l’Amministrazione finanziaria mette effettivamente a disposizione del contribuente presso ogni singolo ufficio testi legislativi coordinati ed aggiornati, al fine di consentire una corretta e facile informazione; e se vengono portate a conoscenza dei contribuenti, mediante un idoneo servizio informatico e telematico, circolari, risoluzioni, note di interesse generale, etc. sulla organizzazione e sui procedimenti, in relazione alle disposizioni di cui all’art. 5 dello Statuto (art. 13, c. 9);

verifica inoltre se vengono rispettati i diritti e le garanzie dei contribuenti sottoposti ad accessi, controlli, ispezioni documentali e verifiche fiscali (art. 13, c. 9). Nel caso in cui le operazioni di verifica si dovessero svolgere in modo irrituale – sia da parte dei militari della Guardia di finanza che dai funzionari civili dell’Amministrazione finanziaria – il contribuente può rivolgersi al Garante per la tutela dei propri diritti ed interessi (art. 12, c. 6).

In merito, qualora il contribuente voglia formulare osservazioni e richieste, in relazione a presunte irregolarità commesse nei suoi confronti, dovrà inoltrare apposita istanza al Garante del contribuente.

-Diritto di comunicare considerazioni ed eccezioni agli uffici impositori

L’ultimo comma dell’art. 12 dello Statuto del contribuente prevede il diritto di comunicare entro 60 gg. osservazioni e richieste di cui è obbligatoria la valutazione da parte dell’Ufficio accertatore.

L’atto impositivo non può essere emanato entro tale termine, salvo particolare e motivata urgenza. L’urgenza potrebbe ravvisarsi nelle ipotesi in cui, ad esempio, a seguito dell’attività di verifica sia riscontrato un comportamento fraudolento del contribuente, oppure in tutti i casi in cui potrebbe essere imminente il rischio dell’insolvenza del debitore, o, ancora, in presenza di eventi naturali imprevedibili che potrebbero compromettere gli esiti dell’attività di verifica.

Quest’ultima prerogativa viene ad inserirsi in un progressivo recupero, da parte del Legislatore, del dialogo tra amministrazione finanziaria e contribuente e si pone l’evidente scopo di contenere il livello del contenzioso.

Due aspetti vengono qui in rilievo:

  • il primo attiene all’obbligo di valutazione dell’Ufficio accertatore delle osservazioni e richieste avanzate dal contribuente. Nell’avviso di accertamento, quindi, si dovrà adeguatamente illustrare l’iter logico a seguito del quale non si sono ritenuti pregnanti gli elementi addotti dalla controparte (che possono sfociare anche nell’annullamento dell’atto propulsivo), ovvero che di essi si è tenuto conto soltanto in modo parziale

  • il secondo attiene alla valenza preclusiva dell‘accertamento, il quale, in condizioni ordinarie, è inibito fino allo spirare del termine di 60 gg. dalla notifica del verbale di constatazione.

Negli anni vi sono state pronunce di merito, sia a favore, sia contrarie alla tesi della nullità dell’atto impositivo emesso in violazione a tali prescrizioni. La Corte di Cassazione con Ordinanza 18 luglio 2008 n. 19875 stabilisce che la notifica del provvedimento anteriormente allo scadere del termine di 60 giorni “non ne determina ipso iure la nullità stante la natura vincolata dell’atto rispetto al Pvc sul quale si fonda, in mancanza di una specifica previsione normativa in tal senso, perché resta comunque garantito al contribuente il diritto di difesa in via amministrativa (autotutela) e giudiziaria (ricorso alla Commissione tributaria)”.

A dirimere definitivamente ogni eventuale contrasto anche giurisprudenziale è intervenuta la Corte costituzionale con la ordinanza 24 luglio 2009, n. 244, nella quale, tra l’altro, viene affermato che l’immotivata notifica, nei sessanta giorni dal PVC, determina una ipotesi di nullità dell’atto impositivo.

La soluzione favorevole al contribuente (nullità dell’atto impositivo emesso prima dello scadere dei sessanta giorni) è stata indicata anche dall’Agenzia delle entrate, Direzione centrale accertamento, con la nota datata 14 ottobre 2009.

Con la sentenza 3 novembre 2010, n. 22320, la V sezione civile della Corte di cassazione, recependo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 244 del 2009, fa espresso riferimento alla nullità dell’atto impositivo emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni.

Tale atto diventa nullo se non c’è una motivazione adeguata sulla particolare urgenza.

7.Inutilizzabilità di elementi probatori irritualmente acquisiti

Occorre ora affrontare quali sono le conseguenze che eventuali irregolarità possono comportare sull’ammissibilità delle relative prove.

Bisogna sin da ora sottolineare che il problema dell’utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite è stato basato, sia da gran parte della dottrina sia dalla giurisprudenza, sul presupposto che le informazioni acquisite nella fase istruttoria siano o meno utilizzabili come elementi probatori del successivo atto di accertamento, dando per assodato che la fase di controllo e quella di accertamento siano necessariamente collegate.

La tutela dei contribuenti avverso le illegalità istruttorie è un tema sicuramente tra i più dibattuti ed incerti del diritto tributario giacchè “non è facile trovare un equilibrio concettuale soddisfacente” per la soluzione delle numerose questioni che ruotano attorno al rapporto fra tutela erariale e rispetto dei diritti e delle garanzie del contribuente.

Un possibile discrimine potrebbe essere rappresentato dal coinvolgimento o meno di diritti costituzionalmente garantiti, quale – ad esempio – quello dell’inviolabilità del domicilio – consentendo di arrivare a stabilire la regola che solo in presenza di violazioni che aggrediscano “interessi di dignità costituzionale” si può determinare l’inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti.

Proseguendo in tale ragionamento si potrebbe pure affermare che si ottengono le medesime conseguenze di invalidità allorquando si violino le norme dello Statuto del contribuente.

La posizione che si è progressivamente affermata all’interno della Corte di Cassazione è quella dell’annullabilità degli atti viziati nonostante non siano mancate pronunce che, seppure incidentalmente, hanno sostenuto l’ammissibilità delle prove irritualmente acquisite

Gli indirizzi interpretativi tradizionali:

Gli Autori che si sono cimentati nell’analisi di tale delicata tematica hanno parlato essenzialmente di “vizi rilevanti per l’accertamento” e “vizi non rilevanti per l’accertamento”.

Prendendo ora in esame le situazioni connotate dalla sussistenza di vizi rilevanti per l’accertamento, occorre evidenziare che in questo campo la dottrina ha sostanzialmente elaborato tre indirizzi interpretativi principali:

– il primo è quello della “invalidità derivata” dell’avviso di accertamento a causa della illegittimità degli atti istruttori;

– il secondo, invece, sostiene “l‘inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite” e la conseguente annullabilità dell’avviso di accertamento, ove non giustificato da altre informazioni legittimamente ottenute;

– il terzo, per converso, afferma che l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti per l’accertamento non comporti la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso; essa comporterebbe, però, possibili responsabilità dei verificatori sul piano disciplinare e, se del caso, civile e penale.

Riguardo alla prima teoria, è il caso di evidenziare che questa costruzione si fonda sulla natura procedimentale dell’accertamento tributario, che viene visto come una sequenza di atti coordinati strutturalmente e collegati funzionalmente alla realizzazione delle finalità di assicurare l’applicazione delle imposte dovute.

Alla nozione di procedimento si collega poi l’altra regola generale del diritto amministrativo, secondo cui l’illegittimità degli atti presupposto della fattispecie procedimentale si riverbera sugli atti successivi della sequenza e sul provvedimento finale, determinandone l’illegittimità in via derivata.

In giurisprudenza, si rintracciano chiare conferme di questa linea interpretativa ancora attuale in due sentenze della Corte di Cassazione:

la prima, la n. 15230 del 3dicembre 2001, riguarda il caso di un’autorizzazione del Procuratore della Repubblica illegittimamente rilasciata per un accesso nelle abitazioni dei soci di una società a responsabilità limitata, senza che sussistesse congrua motivazione dei gravi indizi di violazioni fiscali richiesti ai sensi dell’art. 52, c. 2, del D.P.R. n. 633/1972; nella specie, l’atto del Procuratore richiamava il contenuto di una richiesta avanzata dalla Guardia di finanza sulla base di una o più fonti confidenziali anonime denuncianti l’esistenza di presunti illeciti tributari. Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito che “l’assenza, l’abnormità, l’insufficienza e l’incongruenza della motivazione addotta consequenzialmente si riflettono, escludendola, sulla legittimità dell’atto in argomento e comportano, perciò, il potere-dovere del giudice tributario che le rilevi di dichiarare l’invalidità, dedotta … dell’atto medesimo e, derivatamente … dell’intero procedimento di accertamento basato su prove acquisite a seguito della relativa esecuzione”;

– la seconda, molto importante, è la sentenza a Sezioni Unite n. 16424 del 21 novembre 2002, che riguarda un caso analogo di autorizzazione del Procuratore della Repubblica illegittimamente rilasciata per un accesso domiciliare richiesto dalla polizia tributaria in base a notizie apprese da una fonte confidenziale mantenuta anonima. Nello stesso senso Cass. del 19 ottobre 2005 n.20253.

La teoria della invalidità derivata è stata, però, successivamente affinata e meglio ponderata dagli Autori della seconda tesi interpretativa, basata sul concetto di inutilizzabilità dei dati irritualmente acquisiti.

È stato, infatti, giustamente osservato che l’Amministrazione finanziaria può scegliere di utilizzare ai fini della verifica della posizione del contribuente l’attivazione di uno o più mezzi istruttori tra quelli normativamente previsti. Pertanto, può accadere che la prova dell’esistenza del fatto di evasione possa essere acquisita sia sulla base di un solo atto istruttorio, sia anche mediante più atti indipendenti l’uno dall’altro. In questa seconda evenienza, l’estensione all’atto “finale” della causa di invalidità che inficia uno degli atti “preparatori” è parso un eccesso non giustificabile.

Pertanto, è stato precisato che gli accertamenti fondati su prove acquisite illecitamente non sono viziati in quanto su di essi si ripercuota il vizio di un atto precedente della sequela, ma in quanto “infondati”: privi, cioè, di fondamento di fatto (essendo non rilevanti i fatti emergenti da prove acquisite in modo irrituale).

La inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite è un principio generale dell’ordinamento, in quanto si tratta di una sanzione processuale inerente e coerente con il principio di legalità: le prove ottenute con mezzi istruttori viziati o carenti sono inutilizzabili, perché così è implicitamente, ma inequivocabilmente, stabilito dalla stessa legge che disciplina i presupposti, le modalità ed i limiti dei poteri autoritativi degli organi amministrativi.

Questa è la normale regola in vigore in ogni procedimento, e particolarmente nei processi penali, laddove il concetto (già noto anche prima) è stato formalmente cristallizzato nell’art. 191 del codice varato nel 1988, secondo cui: “Le prove acquisite in violazione di divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” (comma 1).

Ed infatti, se i vizi dell’attività istruttoria non avessero alcuna rilevanza sulla legittimità dell’atto di accertamento, allora tutta la disciplina predisposta dal legislatore per l’esercizio dei poteri di controllo sarebbe inutile e priva di senso, dal momento che la sua inosservanza da parte dell’ufficio rimarrebbe immune da qualsivoglia tipo di sanzione.

Pertanto, deve escludersi l’eventualità che l’atto di accertamento possa fondarsi su prove assunte in violazione delle norme di “azione”, anche se l’ordinamento non sancisce l’obbligo dell’ufficio di rispettare tali norme a pena di nullità.

Quest’ultimo principio è stato ripreso dalla Cassazione nella citata sentenza n.15230/2001, soggiungendo un’ulteriore postilla: il Ministero delle finanze aveva obiettato che l’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, che regola gli accessi domiciliari diretti a ricercare le prove dell’evasione fiscale, non prevede nessuna sanzione di inutilizzabilità delle prove acquisite nel corso dell’ispezione, ancorché illegittimamente autorizzata. In proposito, la Suprema Corte ha ribattuto che: “costituisce principio generale immanente al vigente sistema giusprocessualistico quello per il quale il giudice, prima di utilizzare ai fini della decisione una qualsiasi emergenza probatoria, deve verificare la regolarità della relativa acquisizione, restando tenuto a non porre a base della sua pronuncia prove che riscontri indebitamente raccolte”.

Ancora più chiaramente, le Sezioni Unite della Suprema Corte nel 2002 con la più volte citata sentenza n.16424 ha statuito che “il giudice deputato a svolgere il sindacato della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva avanzata dall’Amministrazione finanziaria deve verificare la regolarità del procedimento accertativo su cui si fonda tale pretesa, così da controllarne la rispondenza al paradigma legale. Infatti, “il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente risc