La dichiarazione è sempre integrabile, anche a favore del contribuente

vediamo quali sono i tempi ed i termini in cui il contribuente può correggere a suo favore una dichiarazione già inviata

I giudici della Suprema Corte tornano sul tema dell’emendabilità della dichiarazione fiscale, chiarendo definitivamente la portata costituzionale del vincolo che collega il diritto del contribuente alla ritrattabilità della stessa nonchè al rispetto del limite della capacità contributiva, quale criterio di legittimità della partecipazione di ciascuno alla spesa pubblica. La sentenza n. 4776/2011, infatti, mette in relazione tra loro i principi costituzionali del dovere di solidarietà e di uguaglianza sostanziale (sottesi all’art. 53 della Cost. che implicitamente richiama il dettato degli artt. 2 e 3 della Cost. in cui essi sono rispettivamente contenuti) con il diritto alla rettificabilità della propria dichiarazione da parte del contribuente.

Innanzitutto, è bene chiarire che, attualmente(1), la procedura per l’integrazione della dichiarazione – per correggere omissioni o errori presenti nella dichiarazione originariamente presentata – è espressamente prevista dall’art. 2 del D.P.R. n. 322/1998(2). Tale norma consente la presentazione della dichiarazione integrativa – volta a correggere la dichiarazione originaria – sia in aumento che in diminuzione, ma con effetti e termini ben diversi. Nel primo caso (art. 2, c. 8), se la rettifica a debito interviene entro i limiti temporali previsti per il ravvedimento operoso (art. 13 del d.lgs. n. 472/1997), sono previste sanzioni ridotte variabili in funzione del tipo di errore; decorsi detti termini (ma, comunque, non oltre i termini di decadenza dall’accertamento), le sanzioni sono applicabili in misura intera. La rettifica della dichiarazione a favore del contribuente è, invece, ammissibile (art. 2, c. 8 bis) non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo, senza applicazione di sanzioni e con la possibilità di utilizzare l’eventuale credito in compensazione. L’amministrazione finanziaria ha sempre confermato un’interpretazione particolarmente rigorosa del dettato normativo(3), nonostante il (ormai consolidato) diverso contrario avviso della giurisprudenza di legittimità (4) che, invece, ritiene ammissibile la presentazione della dichiarazione integrativa anche oltre il predetto termine senza, tuttavia, poter compensare il credito risultante(5). La stessa giurisprudenza, nel caso di eccedenza d’imposta, ammette la proposizione dell’istanza di rimborso di cui all’art. 38 del DPR n. 602/1973, da presentare nei relativi termini di decadenza e con la quale chiedere la restituzione delle imposte versate in misura superiore a quella dovuta in base alla dichiarazione originaria.

Ciò premesso e tornando al pronunciamento in commento, osserviamo che i giudici della Corte, nel ribadire la vincolatività del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. (immanente nell’ordinamento e, quindi, vigente anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 322/1998), prendono spunto dalla considerazione dell’impossibilità di obbligare – a livello teorico – il contribuente (sia esso persona fisica o giuridica) al pagamento di un’imposta diversa e più gravosa di quella che – per legge – dovrebbe restare a suo carico.

Questa affermazione è direttamente collegata al primato del precetto che impone il concorso di ciascun contribuente alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva, sull’assunto della duplice funzione del dettato costituzionale che funge – al tempo stesso – da limite e criterio di determinazione dell’imponibile, risultando applicabile anche nella fase procedimentale ed attuativa del tributo.

Su queste premesse, il ragionamento seguito dalla Corte muove dalla considerazione degli effetti negativi che la violazione determinerebbe “cristallizzando” la partecipazione di ciascuno alle spese pubbliche, impedendo la rettifica di una dichiarazione erronea ovvero avviando la procedura esecutiva sulla base di quest’ultima, trascurando l’integrativa. Questa condotta chiaramente contravverrebbe all’obbligo di mantenere fede – attraverso le norme di dettaglio alle procedura amministrativa – ai principi costituzionali che, per loro natura, devono invece ritenersi inderogabili.

Tali conclusioni trovano espressa conferma anche nel principio di legalità di cui all’art. 23 della Costituzione, per effetto del quale la dichiarazione – certamente – deve essere conforme a quanto dovuto per legge. Motivo per cui essa deve ritenersi naturalmente modificabile ogni volta che contiene un errore di fatto o di diritto, dal quale può derivare al dichiarante un onere fiscale diverso e/o maggiore di quello legittimo. Regola questa che deve considerarsi valida per qualsiasi tipo di errore (sia esso testuale o extratestuale, di fatto o di diritto) che il contribuente commette in fase di redazione della dichiarazione, non potendosi – in nessun caso – impedire al contribuente di dimostrare l’inesistenza, anche parziale, dei presupposti di imposta erroneamente dichiarati.

La conclusione a favore dell’emendabilità della dichiarazione si giustifica principalmente sulla base del dettato costituzionale, in considerazione principalmente della funzione dell’atto, ma anche della sua natura.

Trattandosi di una mera esternazione di scienza e di giudizio, la dichiarazione deve necessariamente ritenersi sempre modificabile per l’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti e/o valutati. Essa ha natura volontaria, ma non negoziale, per cui non costituisce titolo dell’obbligazione tributaria che rimane indisponibile, perché collegata ex lege all’effettività del presupposto.

Attraverso la dichiarazione, piuttosto, il contribuente “partecipa” al Fisco il verificarsi e l’entità del presupposto di fatto del tributo al fine di un’eventuale controllo da parte dell’amministrazione stessa.

In questo senso, la dichiarazione rappresenta un atto integrativo di un momento dell’iter procedimentale finalizzato all’accertamento dell’obbligazione e al corrispettivo soddisfacimento delle ragioni erariali che ne costituiscono l’oggetto principale con la conclusione che, mentre l’attività dell’amministrazione finanziaria è accertativa e qualificatoria del fatto imponibile perché attiene all’esercizio del diritto di credito già sorto(6), gli effetti della dichiarazione (sia sul piano dell’accertamento, sia su quello della riscossione) derivano esclusivamente dalla sua conformità o meno al modello legale, vista la sua funzione di strumento atto a far valere il debito dovuto ex lege.

Logico corollario di questi presupposti è l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione che neghi il diritto del contribuente alla rettifica della dichiarazione, ovvero proceda alla liquidazione della maggiore imposta dovuta sulla base della dichiarazione erronea, poi modificata. Perché, se la dichiarazione rappresenta un momento dello svolgimento del procedimento amministrativo di liquidazione dell’imposta dovuta (manifestando in questo contesto la concreta partecipazione del contribuente), è chiaro come l’eventuale prosecuzione dell’azione amministrativa sulla base soltanto del primo atto sia da considerarsi contraria ai principi di correttezza (oggettiva) e buona fede che determinano il legittimo affidamento del contribuente ed informano il comportamento dei pubblici uffici, così palesemente violando l’art. 10 della L. n. 212/2000 e l’art. 97, comma 1, della Costituzione.

Questo aspetto connota in modo del tutto peculiare la vicenda della ritrattabilità della dichiarazione, confermando la natura costituzionale del corrispondente diritto del contribuente.

D’altro canto, il principio secondo il quale i rapporti tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria sono regolati secondo correttezza e buona fede deve ritenersi immanente nel diritto e nell’ordinamento tributario già prima dell’introduzione della sopra citata L. n. 212/2000. Essa, semplicemente, è intervenuta a tipizzare una regola di rilevanza generale – riconosciuta a livello costituzionale quale principio informatore dell’ordinamento – che vincola l’amministrazione in forza del canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione, rendendosi applicabile a tutti i rapporti tributari (Corte di Cassazione, sentt. n. 10982/2009; 21513/2006; n. 7080/2004; n. 17576/2002). Chiarendo definitivamente che l’affidamento si sostanzia nella situazione soggettiva di fiducia del contribuente verso il comportamento della Pubblica Amministrazione, ispirato, a sua volta, alla correttezza, intesa quale efficacia dell’azione amministrativa ed al dovere di non contraddizione.

Situazione giuridica questa che trova corrispondente rilevanza anche nell’ordinamento comunitario, all’interno del quale il legittimo affidamento assume rilievo di principio generale, attraverso la vincolatività della regola della certezza del diritto che impone allo Stato membro di garantire la posizione giuridica soggettiva del cittadino-contribuente nazionale, chiarendo la portata applicativa delle norme e gli effetti che esse producono in capo ai destinatari, allo scopo di preservare l’equilibrio i rapporti tra gli ordinamenti comunitario e nazionale e mantenendo sempre ferma la tutela dei diritti soggettivi acquisiti.

Le argomentazioni sulla legittimità costituzionale del diritto all’emendabilità della dichiarazione inevitabilmente si intersecano, dunque, con quelle della correttezza, buon andamento della Pubblica Amministrazione (ex art. 97 Cost.) e con la tutela del legittimo affidamento (art. 10 della L. n. 212/2000). Perché, se l’amministrazione è sempre tenuta – nei confronti del contribuente – ad una condotta collaborativa, tale dovere deve ritenersi violato nel caso in cui l’ufficio non tenga conto della dichiarazione, come integrata dal contribuente. Proprio per il fatto che la dichiarazione costituisce – da sola – manifestazione della reale capacità contributiva.

La condotta dell’amministrazione finanziaria assume rilievo peculiare nel procedimento di rideterminazione dell’imposta, a fronte – in primo luogo – dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria. Teoria questa che, da sola, priva di legittimazione la pretesa impositiva scollegata dalla dichiarazione del contribuente, non potendosi richiedere al soggetto passivo il pagamento di un imposta diversa di quella effettivamente dovuta in base alla propria capacità contributiva.

Sono proprio le ragioni dell’effettività della contribuzione ad orientare i giudici della Corte di Cassazione a favore del riconoscimento sistematico della rilevanza della previsione costituzionale, attribuendo – di fatto – efficacia retroattiva alla norma sull’emendabilità, alla luce della necessità di garantire un modello di riferimento conforme, orientato alla tutela effettiva del contribuente sulla base dei principi di equità e giustizia sociale posti alla base del nostro ordinamento.

Note

1) La controversia soggetta alla cognizione del giudici della Suprema Corte nel caso di specie, era relativa all’anno di imposta 1998. Proprio per giustificare la rettificabilità della dichiarazione anche in questo caso, la Corte richiama il principio affermato secondo il quale la dichiarazione affetta da errore, alla luce dell’art. 9, cc. 7 e 8, D.P.R. n.600 del 1973, nel testo applicabile ratione temporis, “deve considerarsi emendabile e ritrattabile, quando dalla medesima possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi” sul presupposto che “la dichiarazione … può, comunque, essere integrata, salvo il disposto del quinto comma dell’art.. 54, per correggere errori ed omissioni mediante successiva dichiarazione, da presentarsi entro il termine per la presentazione della dichiarazione per il secondo periodo di imposta successivo, sempre che non siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche, o la violazione non sia stata comunque contestata, ovvero non siano stati notificati gli inviti e le richieste di cui all’art.32, di fatti, per come reso manifesto dal loro tenore letterale, hanno riguardo alla rimozione di omissioni ed all’eliminazione di errori suscettibili di importare pregiudizio per le ragioni di credito dell’erario, e non attengono all’emendabilità ed alla ritrattabilità di dichiarazioni che, viceversa, contengano errori ed inesattezze che comportino esposizione del contribuente dichiarante ad oneri fiscali eccedenti il legalmente da lui dovuto” (Corte di Cassazione, SS. UU., sent. n.15063/2002; nello stesso senso, v. anche Corte di Cassazione, SS. UU., sent. n. 10055/2002). Considerazione questa, in base alla quale deve riconoscersi il diritto del contribuente, sotto la vigenza dell’art.9, del D.P.R. n.600 del 1973, di emendare la dichiarazione per errori ed omissioni incidenti sulla propria obbligazione tributaria, non solo nei limiti in cui la legge prevede il diritto al rimborso ex art. 38 del D.P.R. n. 602/1973, ma anche nella fase difensiva per opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’Amministrazione (v. Corte di Cassazione, sent. n. 22021/2006).

2) Sul punto, v. in particolare, Corte di Cassazione, sent. n. 8972/2002, nella quale i giudici chiaramente affermano che: “il contribuente può procedere alla rettifica di errori di qualsiasi genere, anche dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione e tale rettifica, se formulata, deve essere presa in considerazione dall’ufficio ai fini della liquidazione dell’imposta dovuta”. Sempre sul riconoscimento del diritto del contribuente all’emendabilità della dichiarazione, anche Assonime, Circolare n. 56 del 24 settembre 2007.

3) Cfr. circ. n. 50/E del 12 giugno 2002, ris. n. 24/E del 14 febbraio 2007, ribadita nella ris. n. 71/E del 29 febbraio 2008, secondo cui la dichiarazione può essere emendata a favore del contribuente solo con le modalità e nei termini di cui al citato comma 8 bis.

4) L’orientamento interpretativo favorevole al riconoscimento della rilevanza costituzionale della regola dell’emendabilità della dichiarazione pare essersi ormai definitivamente consolidato in questo senso (v. Corte di Cassazione, SS. UU., sent. n. 15063 del 25 ottobre 2002; n. 4779 del 28 maggio 1987).

5) Su questo presupposto normativo, il prevalente orientamento interpretativo (ex multis, Corte di Cassazione, sentt. n. 208/2010; n. 219448/2007; n. 4236/2004; n. 22564/2004), ha anche riconosciuto il diritto del contribuente ad emendare – a proprio favore – la dichiarazione dei redditi presentando apposita dichiarazione integrativa nei termini di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, stante il principio della parità ed uguaglianza delle posizioni che impone di riconoscere al contribuente la facoltà di emendare la propria dichiarazione entro il termine concesso all’Amministrazione per accertare il singolo anno di imposta.

6) Considerazione questa che attribuisce all’accertamento la medesima funzione sia nel caso in cui la dichiarazione sia stata regolarmente presentata, sia nel caso in cui manchi, non incidendo l’omissione sull’esistenza dell’obbligazione.

7 aprile 2011

Valeria Fusconi ed Eleonora Bartolotta