Carattere sanzionatorio del versamento I.V.A. e applicazione del principio del favor rei

una recente sentenza della Corte di Cassazione che chiarisce la natura sanzionatoria o non sanzionatoria dell’obbligo di pagare l’IVA in caso di omessa regolarizzazione

PREMESSA

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha dovuto dirimere una controversia inerente il regime sanzionatorio applicabile per il mancato rispetto della disciplina Iva, la quale prevede a carico del cessionario che non riceva la fattura da parte del cedente l’obbligo di autofatturazione e contestuale versamento della relativa imposta.

Nel caso specifico l’atto impugnato consisteva in un Avviso di rettifica relativo all’anno 1996, scaturito da un Processo Verbale della Guardia di Finanza, emesso nel 2000 a carico di una società operante nel settore dell’oreficeria, con il quale, a seguito del rinvenimento di una contabilità parallela contenente movimentazioni del metallo prezioso diverse da quelle ufficiali, si procedeva a contestare, oltre ad altre violazioni, l’omessa autofatturazione di operazioni imponibili, obbligatoria nel caso di acquisto di beni e servizi senza ricevimento di fattura o con fattura irregolare, irrogando la sanzione da due a quattro volte l’imposta relativa all’operazione, oltre al pagamento dell’imposta stessa, come previsto dall’art.41, c. 6, del D.P.R. n.633 del 26 ottobre 1972, in vigore all’epoca dei fatti (1996).

La società accertata, in sede di giudizio di Cassazione, non procedeva a contestare i fatti ad essa addebitati, ed in particolare l’omessa regolarizzazione tramite emissione dell’autofattura, ma la disciplina sanzionatoria applicata per tale violazione ritenendo che, in seguito all’abrogazione dell’art.41 del D.P.R. n.633/72 avvenuta per mezzo l’art.16, c. 6, del D.lgs n.471 del 18 dicembre 1997 con effetto dal 01 aprile 1998, l’Ufficio avrebbe dovuto procedere ad applicare quella più vantaggiosa, prevista dall’art.6, c. 8, del D.lgs n.471/97, consistente in una sanzione pari al 100% del tributo, in applicazione del cosiddetto principio del “favor rei” (art. 3, c. 3, del D.lgs n.472 del 18 dicembre 1997). La ricorrente, infatti, riteneva erronea l’applicazione dell’art.41 del D.P.R. n.633/72 in quanto, rientrando la previsione di tale articolo, ed in particolare l’obbligo di versamento dell’imposta a carico del cessionario, nell’ambito di una disciplina di tipo sanzionatorio, si sarebbe dovuto applicare, anche d’ufficio, il suddetto principio, con la conseguente irrogazione della sanzione inferiore sopra indicata.

La questione sulla quale la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione era chiamata decidere era dunque la natura sanzionatoria o non sanzionatoria dell’obbligo di pagare l’Iva in caso di omessa regolarizzazione, in quanto determinante ai fini dell’applicazione o meno del principio di legalità previsto dall’art.3 del D.lgs n.472/97.

Per questi motivi la Sezione Tributaria, originariamente investita della controversia, rimetteva la questione al Primo Presidente sostenendo, nell’ordinananza di rimessione, la tesi che il citato obbligo di pagamento dell’Iva costituisse un debito d’imposta, e non una sanzione, non ritenendo conseguentemente applicabile il principio del “favor rei” sulla base delle seguenti argomentazioni:

a) la collocazione sistematica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 nel titolo terzo è di per sé poco significativa, in quanto la norma contiene anche la previsione di sanzioni pecuniarie, al di là del pagamento dell’imposta;

b) la detraibilità dell’imposta pagata dopo l’avvenuta regolarizzazione (desunta dall’art. 41, comma penultimo, secondo cui un esemplare del documento attestante il pagamento o la regolarizzazione è restituito dall’ufficio all’interessato, il quale deve annotarlo nel registro degli acquisti) non è compatibile con il carattere sanzionatorio attribuito allo stesso pagamento;

c) la Sesta direttiva I.v.a. n. 77/388/ CEE, par. 1, lett. a), ultima parte, art. 21, riconosce agli Stati membri la facoltà di estendere la categoria dei debitori d’imposta, prevedendo che una persona diversa dal soggetto passivo d’imposta sia tenuta in solido al pagamento dell’I.v.a..”

Il Primo Presidente disponeva poi l’assegnazione alle Sezioni Unite che si sono conseguentemente trovate a dover deliberare sull’applicazione del principio del “favor rei” alla fattispecie in esame, dovendo dirimere definitivamente la questione circa il collocamento o meno dell’obbligo di versamento dell’Iva nell’ambito delle misure sanzionatorie alla luce degli orientamenti giurisprudenziali espressi in passato dalla Corte stessa e delle considerazione fatte dai giudici della Sezione Tributaria nell’ordinanza di rimessione.

QUADRO NORMATIVO

La violazione in materia di Iva

La disciplina Iva, come originariamente delineata dall’art.41, c. 4, del D.P.R. n.633/72, prevedeva che il cessionario o committente che nell’esercizio di imprese, arti o professioni avesse acquistato beni o servizi da un soggetto obbligato ad emettere fattura, fosse punito con una pena pecuniaria da due a quattro volte l’imposta relativa all’operazione, oltre al pagamento dell’imposta stessa, qualora, non avendo ricevuto fattura entro quattro mesi dall’operazione, non avesse regolarizzato la posizione presso l’Agenzia delle Entrate emettendo e presentando opportuna autofattura, previo pagamento della relativa Iva, entro ulteriori trenta giorni, ovvero, avendo ricevuto una fattura irregolare, non abbia presentato all’Agenzia delle Entrate un documento integrativo e versato la maggior imposta dovuta entro quindici giorni dalla registrazione del documento contabile.

Tale normativa, come precisato dalla stessa Suprema Corte nella sentenza in commento, è rimasta invariata fino al 31 marzo 1998 – subendo solo una progressiva modifica di collocazione passando dal comma 4 al comma 6 – data in cui è stata abrogata dall’art.16 del D.lgs n.471/1997 e sostituita dalla disposizione dettata dall’art.6, c. 8, dello stesso Decreto la quale, rielaborando parzialmente la norma, prevede una sanzione inferiore stabilendo che “Il cessionario o il committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni o servizi senza che sia stata emessa fattura nei termini di legge o con l’emissione di fattura irregolare da parte dell’altro contraente, è punito, salva la responsabilità del cedente e del commissionario, con sanzione amministrativa pari al cento per cento dell’imposta, con un minimo di Lire cinquecentomila”, sempreché non provveda alla regolarizzazione da effettuarsi nelle stesse modalità previste dalla normativa precedente, con l’unica variazione consistente nell’incremento del termine da quindici a trenta giorni nel caso di ricevimento di fattura irregolare.

Entrambe le normative, inoltre, prevedono che, a seguito dell’avvenuta regolarizzazione, il contribuente riceva dall’Agenzia delle Entrate una copia del documento consegnato, il quale deve essere registrato a norma dell’art.25 del D.P.R. n.633/72.

Esaminando brevemente la fattispecie dal punto di vista strettamente pratico un soggetto che non riceve fattura, decorsi quattro mesi dall’operazione, deve, entro trenta giorni, versare la relativa imposta e procedere all’emissione di autofattura da consegnare all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente entro il medesimo termine; analogamente, chi riceve una fattura irregolare dovrà provvedere entro trenta giorni – quindici secondo la normativa abrogata -, al versamento della maggiore imposta e alla consegna all’Agenzia delle Entrate di un’autofattura integrativa. Infine, dopo la regolarizzazione il contribuente dovrà provvedere a registrare l’autofattura nel registro acquisti – ex Art. 25 del D.P.R. n.633/72 -, potendo conseguente beneficiare della detrazione della relativa imposta.

In entrambi i casi – mancato ricevimento della fattura o fattura irregolare – il mancato rispetto di questa semplice procedura comporta l’irrogazione della sanzione di cui alle norme sopra citate.

Il principio del favor rei

L’art.3 del D.lgs n.472/97, intitolato Principio di legalità, stabilisce al comma 3 che “Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo” (c.d. Principio del favor rei).

Tale principio, che dal disposto normativo si evince essere applicabile ad ogni fattispecie di tipo sanzionatorio, comporta l’irrogazione della sanzione più vantaggiosa per il contribuente, e l’eventuale applicazione retroattiva della stessa, con l’unico limite consistente nell’esclusione dei provvedimenti sanzionatori divenuti definitivi, al fine di assicurare una sorta di parità di trattamento di contribuenti che abbiano commesso la medesima violazione, ma in tempi diversi. Ovviamente se da un lato ciò comporta la possibile applicazione retroattiva della norma più favorevole, dall’altro implica l’irretroattività di un’eventuale norma successiva maggiormente penalizzante.

Al riguardo occorre anche aggiungere che la norma in questione va applicata, anche d’ufficio (Cass. 12 marzo 2007 n.5713), in ogni stato e grado di giudizio, all’unica condizione che il provvedimento impugnato non debba qualificarsi come definitivo (Cass. 27 marzo 2001 n.4408 e Cass. 12 febbraio 2001 n.1945).

QUADRO GIURISPRUDENZIALE

La Corte di Cassazione si era già espressa più volte sulla fattispecie in oggetto, pertanto prima di procedere all’esame della sentenza delle Sezioni Unite appare opportuno un breve excursus delle precedenti pronunce.

Con la sentenza n.5868 del 20/04/2001 la Corte di Cassazione si è espressa, in un caso esattamente speculare a quello in commento, in senso favorevole al carattere sanzionatorio dell’omesso versamento d’imposta in questione affermando che il cessionario che “non abbia regolarizzato l’operazione imponibile, posta in essere dal cedente senza emettere fattura o emettendola in modo irregolare, e non abbia, quindi, pagato l’imposta evasa, non diviene, per ciò solo, soggetto passivo del tributo, ma è e resta soltanto autore responsabile dell’illecito di cui all’Art.41” e sanzionato con la conseguente pena pecuniaria. Infatti, precisano i giudici, “la condotta del cessionario o del committente consiste nell’omessa regolarizzazione dell’operazione imponibile nel termine e con le modalità stabilite dalla norma precettiva, fra cui è compreso anche il pagamento dell’imposta evasa, non già quale doveroso adempimento dell’obbligo tributario, ma quale uno degli atti della condotta richiesta dalla norma medesima”.

Con la sentenza n.8656 del 25/06/2001, inoltre, la Corte è intervenuta sostenendo il carattere sanzionatorio della previsione in questione motivandolo con l’inserimento dell’art.41 all’interno del Titolo III “Sanzioni” del D.P.R. 633/72.

Anche le sentenze n.12678 del 13/06/2005 e n.10809 del 24/07/2002 sono intervenute in tal senso. La prima ha affermato che la disciplina prevista dall’art.41 del D.P.R. n.633/72 “mirava alla regolarizzazione dell’operazione, imponendo l’obbligo a carico del cessionario di supplire all’omissione del cedente in ordine alla notizia di fatti fiscalmente rilevanti – cessione di beni o prestazione di servizi – tipizzando in tal modo una figura di illecito a carico del cessionario, senza però attribuirgli anche la veste di soggetto passivo d’imposta, che restava assegnata al cedente, ovvero al prestatore”. La pronuncia del 2002 ha sottolineato, invece, che il pagamento dell’imposta previsto dall’art.41 “non poteva intendersi quale eccezione alla regola generale, secondo cui soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto, salve le eccezioni previste dall’art.17 del D.P.R. N.633/72, era (ed è) il solo cedente dei beni o prestatore dei servizi, bensì come uno degli oneri, ai quali la legge vincolava il cessionario o committente onde evitare una corresponsabilità a diverso titolo per illecito altrui senza alcun costo aggiuntivo, giacché, essendo obbligato ad annotare il pagamento nel registro degli acquisti, poteva esercitare il diritto alla detrazione della somma corrisposta per regolarizzare la cessione”, precisando ulteriormente che “il cessionario o committente, che non era soggetto passivo d’imposta, non poteva certo diventarlo per il solo fatto di essere autore dell’illecito prefigurato dall’art.41”.

Per concludere la rassegna delle pronunce orientate nei termini fin qui esposti, la sentenza n.15538 del 2 luglio 2009 – conformandosi alla n.5268 del 10 marzo 2005 – ribadiva che “il pagamento dell’imposta – così denominato dall’articolo 41, 6° co., ult. Frase (par.6.1) – devesi considerare inflitto a titolo di sanzione, non d’imposizione fiscale ordinaria” sia in quanto tale norma “è inserita nel Titolo Terzo del D.P.R. n.633/1972, intitolato sanzioni,” sia poiché “il cessionario di beni ed il committente di servizi non sono soggetti passivi dell’IVA, essendo tali, ai sensi dell’articolo 17 D.P.R. n.633/1972, il cedente del bene ed il prestatore del servizio”.

Di orientamento contrario è stata, invece, la Suprema Corte con la sentenza n. 11313 del 29/08/2000 in cui il cessionario è ritenuto soggetto all’obbligo di pagare l’imposta non versata o versata in misura insufficiente dal cedente, e implicitamente considerato debitore d’imposta.

Dal quadro giurisprudenziale sopra descritto emerge quindi un orientamento quasi unanime della Suprema Corte volto a ritenere la disciplina dell’art.41 del D.P.R. n.633/72 rientrante pienamente in ambito sanzionatorio con conseguente necessità di applicazione del principio del “favor rei”. Malgrado ciò, la sezione tributaria, nel caso in questione, ha ritenuto non condivisibile tale orientamento e ha reso quindi necessario l’intervento delle Sezione Unite al fine di risolvere definitivamente tale contrasto giurisprudenziale.

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Sulla base del quadro normativo e con riferimento alla giurisprudenza enunciati la Corte di Cassazione si è quindi espressa con la sentenza n.26126 del 27 dicembre 2000, in senso favorevole al carattere meramente sanzionatorio del versamento dell’imposta di cui all’art.41 del D.P.R. 633/72.

I Giudici, dopo aver preliminarmente affermato la compatibilità con il quadro normativo Iva della collocazione dell’obbligo di versamento dell’imposta nelle misure sanzionatorie del Titolo Terzo del D.P.R. N.633/1972, si soffermano sulla normativa comunitaria a sostegno del carattere sanzionatorio del versamento dell’imposta.

In particolare la Corte sottolinea che la normativa comunitaria non contiene alcuna indicazione in materia di sanzioni, la cui istituzione e disciplina è quindi rimessa integralmente agli Stati membri – sulla base del principio generale stabilito art.10 del Trattato CE “Esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato” -, a cui è consentito quindi servirsi delle sanzioni per rendere più efficace la riscossione dell’Iva. In quest’ottica i Giudici ritengono che il pagamento dell’imposta non costituisca indice di sicuro esercizio, della scelta da parte degli Stati Membri di istituire nuove categorie di debitori concessa dall’art.21 della Sesta Direttiva CE, che attribuisce loro la facoltà di “stabilire che una persona diversa dal debitore dell’imposta sia responsabile in solido per il versamento dell’imposta”. In effetti la normativa comunitaria, all’art.21 par.1 lett. A della VI Direttiva, identifica semplicemente come soggetti passivi d’imposta coloro che effettuano “una cessione di bene o una prestazione di servizi”, ossia i soggetti che compiono le operazioni indicate agli artt. 5, 6 e 7 della Diretttiva (Cessione di beni, prestazioni di servizi e importazioni). Da tale sistema e in applicazione dei principi generali dell’ordinamento comunitario, non emerge dunque alcun particolare obbligo a carico degli Stati membri di estendere lo status di debitore d’imposta nella fattispecie in oggetto, non esistendovi assolutamente alcuna imposizione di rango comunitario a riguardo.

A sostegno di quanto affermato le Sezioni Unite citano la sentenza n.35/05 del 15 marzo 2007 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Oggetto di tale pronuncia era il caso di una società con sede in Germania che, a seguito dell’erroneo addebito dell’Iva in fattura da parte di una società italiana che aveva fornito servizi pubblicitari, si era vista negare l’istanza di rimborso dell’imposta, erroneamente pagata, da parte delle autorità fiscali italiane. La Corte, ritenendo preliminarmente corretta la normativa italiana che prevede la concessione del diritto di rimborso solo a favore del debitore d’imposta, ha chiarito che ad eccezione dei casi tassativamente previsti dalle disposizioni di cui all’art.21, p. 1, della VI direttiva, solo il prestatore dev’essere considerato debitore dell’imposta sul valore aggiunto nei confronti delle autorità tributaria. Tralasciando la statuizione definitiva della Corte, che attribuisce al destinatario dei servizi il diritto ad esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore, ciò che interessa ai fini dell’argomento in discussione è la chiara e inequivocabile limitazione della qualifica di debitore d’imposta solo al prestatore di servizi ovvero al cedente.

Ad ulteriore supporto di questa affermazione, la Suprema Corte sostiene che la qualità di debitore, ipoteticamente attribuibile al cessionario, non deriva neanche dalla possibilità di detrarre l’Iva indicata sull’autofattura, in quanto tale beneficio è una mera conseguenza dell’avvenuta regolarizzazione e appare indispensabile, in quanto se ciò non fosse consentito si andrebbe a minare il rodato meccanismo della rivalsa finalizzato ad assicurare la riscossione dell’Iva stessa.

Riassumendo, con diretto riferimento all’Ordinanza di rimessione della Sezione Tributaria, la Corte di Cassazione ha ritenuto rientrante in una fattispecie di tipo sanzionatorio il versamento dell’Iva di cui all’art.41 del D.P.R. 633/72 per i seguenti motivi:

  • la collocazione dell’art.41 nel titolo terzo, intitolato Sanzioni, non solo è significativa, ma è anche pienamente conforme sia al quadro normativo nazionale sia a quello comunitario;

  • il diritto alla detraibilità dell’imposta in seguito all’avvenuta autofatturazione è assolutamente compatibile con il carattere sanzionatorio attribuito al versamento in questione, in quanto mera conseguenza della regolarizzazione, mentre non potrebbe avvenire nel caso si configurasse un’obbligazione di pagare una somma pari all’imposta dovuta;

  • è vero che la normativa comunitaria prevede che gli stati membri possano estendere la categoria dei debitori d’imposta, ma tale estensione è effettuata nei casi tassativamente indicati dalla norma e, ad ogni modo, non è stata espressamente prevista per la fattispecie in oggetto, in riferimento alla quale non si può quindi qualificare il cessionario come debitore d’imposta.

In conclusione, sulla base di tutte le considerazione fin qui esposte, le Sezioni Unite hanno quindi statuito che nel caso di omessa regolarizzazione da parte del cessionario che non ha ricevuto la fattura o ha ricevuto fattura irregolare, non potendosi considerare il cessionario stesso come soggetto passivo e debitore dell’imposta sul valore aggiunto e dovendosi ritenere l’obbligo di pagamento qualificabile come sanzione, è applicabile il principio di legalità di cui al D.Lgs n. 472 del 1997 art.3, con conseguente applicazione del regime più favorevole, ossia quello previsto dall’art.6, c. 8, del D.lgs n.471/97.

12 aprile 2011

Vito Vittorione

Si riporta qui di seguito il testo integrale della Sentenza commentata

Sent. n. 26126 del 27 dicembre 2010 (ud. del 12 ottobre 2010) della Corte Cass., SS.UU. – Pres. Vittoria, Rel. Altieri Iva – Omessa Fatturazione – Obbligo cessionario al pagamento dell’imposta –

Natura di sanzione – Art. 41, D.P.R. n. 633/1972

Svolgimento del processo – 1.1. La Guardia di Finanza di Arezzo effettuava nei confronti della società ricorrente, operante nel settore dell’oreficeria, una verifica fiscale conclusasi con elevazione di processo verbale di constatazione del 29 giugno 2000. Nel corso della verifica venivano acquisiti appunti che apparivano riferibili ad operazioni extra – contabili. Iniziatasi anche indagine penale per i reati di cui agli artt. 490, 351 e 334 cod. pen., in relazione ad affermate manomissioni e falsificazioni della documentazione extra – contabile, il pubblico ministero disponeva perquisizioni, a seguito delle quali venivano rinvenuti quattro supporti magnetici che, secondo i militari operanti, contenevano tutte le movimentazioni del metallo indicate nella contabilità ufficiale e, separatamente, le movimentazioni reali.

Sulla scorta del processo verbale di constatazione l’ufficio i.v.a. di Arezzo contestava alla società, con avviso di rettifica relativo al 1996, l’omessa autofatturazione di operazioni imponibili, l’omessa fatturazione di operazioni imponibili e la presentazione della dichiarazione annuale con dati non conformi al reale volume di affari.

1.2. Con sentenza del 4 marzo 2003 la commissione tributaria provinciale di Arezzo respingeva il ricorso della Quadrifoglio e tale decisione veniva confermata dalla commissione tributaria regionale della Toscana, la quale rigettava l’appello della società. Quest’ultima proponeva, quindi, ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, i primi cinque dei quali contenevano censure in tema di regolarità dell’acquisizione delle prove, di corrispondenza tra domanda e pronuncia, di applicazione dei principi in tema di onere della prova.

Col sesto motivo, inoltre, veniva dedotta violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8; D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 6, (nel testo all’epoca vigente, prima dell’abrogazione da parte del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 16, comma 6), e del principio del favor rei; in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La ricorrente, ribadendo la tesi già esposta nei giudizi di merito, sostiene che erroneamente è stata applicata la disposizione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 6, in quanto, trattandosi di sanzione, avrebbe dovuto applicarsi, anche d’ufficio, il principio del favor rei (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3), a seguito dell’abrogazione dell’art. 41 da parte dell’art. 16, comma 8, dello stesso D.Lgs., che per il cessionario il quale abbia acquistato beni o servizi senza fattura prevede solo una sanzione pari al 100% del tributo, senza che sia possibile (come previsto nell’art. 41) irrogare anche il versamento dell’imposta, dovuto soltanto dal cedente, e cioè dal soggetto passivo i.v.a. Formula, quindi, il seguente quesito di diritto:

“si chiede alla Suprema Corte di statuire che l’osservanza del principio del favor rei comporta l’applicazione del trattamento sanzionatorio più favorevole al contribuente, salvo il limite della definitività dei provvedimenti di irrogazione delle sanzioni. Ne consegue che, laddove il cessionario o committente non provveda alla regolarizzazione (emissione di autofattura) di acquisti di beni o servizi senza fattura o con fattura irregolare, è applicabile il disposto del D.Lgs. n. 411 del 1997, art. 6, comma 8, con esclusione dell’imposta dovuta in quanto nel D.P.R. n. 633 del 1972, abrogato art. 41 tale versamento rivestiva carattere di prestazione pecuniaria a titolo di sanzione impropria”.

Con ordinanza pronunciata all’udienza dell’11 dicembre 2009, la Sezione tributaria della Corte, ritenuto che potesse non condividersi l’orientamento dominante della propria giurisprudenza circa la natura sanzionatoria o non sanzionatoria dell’obbligo di pagamento dell’i.v.a. previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 6, e quindi sull’applicabilità del principio del favor rei, rimetteva la causa al Primo Presidente, che ne disponeva l’assegnazione alle Sezioni Unite.

p. 2. Il contesto normativo e la giurisprudenza della Sezione tributaria.

Con il D.L. 2 marzo 1989, n. 69, art. 22, art. 22, commi 2 e 3, all’art. 41 – che in tale versione resta in vigore fino al 29 settembre 1989 – viene aggiunto un nuovo comma. Le responsabilità del cessionario transitano, quindi, dal quarto al comma 5. Ulteriore modifica veniva disposta con il D.L. n. 332 del 1989, art. 8, comma 1, e, successivamente, con il D.L. n. 357 del 1994, art. 7 – bis, spostandosi la disciplina degli obblighi del cessionario dal comma 5 al comma 6. La disposizione, che anche a seguito delle diverse collocazioni rimaneva immutata, prevedeva che se il cessionario o committente, in caso di mancato ricevimento della fattura, non avesse presentato all’ufficio competente un documento contenente le indicazioni di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 e non avesse versato la relativa imposta, ovvero avesse ricevuto una fattura irregolare senza presentare un documento integrativo e versare la maggiore imposta eventualmente dovuta, fosse punito con la sanzione pecuniaria da due a quattro volte l’imposta evasa. Il nuovo regime introdotto dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 6, comma 8, prevede, invece, a carico del cessionario o committente la sanzione pari “al cento per cento dell’imposta”. La norma prevede espressamente che resta salva la responsabilità del cedente, e che la detta sanzione non si applica se il cessionario provvede alla regolarizzazione dell’operazione attraverso la presentazione di un documento recante le indicazioni di cui al D.P.R. 633 del 1972, art. 21 e il pagamento dell’imposta.

Si pone, pertanto, il problema della qualificazione dell’i.v.a. dovuta, ai sensi dell’art. 41, dal soggetto che non procede all’autofatturazione come vera e propria imposta (con conseguente inapplicabilità del regime sanzionatorio, come sostenuto dall’amministrazione), ovvero come sanzione. Il secondo indirizzo era stato implicitamente affermato nelle sentenze n. 5868 e 8656 del 2001 e n. 10809/2002. Con successive pronunce veniva affrontato ex professo il tema in discussione, dandosi una soluzione contraria alla tesi dell’amministrazione. Secondo la sentenza n. 5268 del 2005 “In tema di IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 6, (nel testo in vigore ratione temporis, anteriore all’intervento abrogativo e sostitutivo operato dal D.Lgs. n. 471 del 1997), nel disporre che al cessionario di beni o committente di servizi si applichino, in caso di omessa o irregolare fatturazione e mancata regolarizzazione, le pene pecuniarie previste dai primi tre commi, oltre al pagamento dell’imposta, considera tale prelievo, compreso quello dell’importo pari all’imposta, quale sanzione, ferme restando le obbligazioni verso l’erario del cedente di beni o prestatore di servizi per l’imposta, le sanzioni a suo carico e le dichiarazioni annuali. Pertanto, in virtù del principio di legalità stabilito dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3, anche riguardo a detto prelievo, qualificato pagamento dell’imposta dall’art. 41 cit., si applica la norma posteriore, più favorevole al contribuente”.

Tale interpretazione è stata condivisa dalla successiva giurisprudenza della Sezione (sentenze n. 12678 del 2005; n. 15538 del 2009).

Un opposto orientamento è seguito, anche senza analitica motivazione, dalla sentenza 20 aprile 2001, n. 5686, la quale riprende precedenti indirizzi della Sezione (sentenze n. 11313/2000).

Motivi della decisione – 3.1. Le Sezioni Unite devono pronunciarsi soltanto sul contrasto (effettivo o potenziale) di giurisprudenza sulla questione svolta nel sesto motivo di ricorso. Deve, innanzitutto, esaminarsi la questione d’inammissibilità, proposta dal Procuratore Generale, per inidoneità dei quesiti di diritto, formulati ai sensi dell’art. 366 – bis cod. proc. civ., questione da esaminarsi limitatamente al motivo oggetto del giudizio delle Sezioni Unite.

Il Collegio ritiene che il quesito sia stato correttamente formulato, non presentando il caso in contestazione aspetti particolari che imponessero ulteriori specificazioni, al di là dell’enunciazione della regula juris, al fine di sollecitare una esatta interpretazione e un’ adeguata applicazione al caso concreto della disciplina vigente.

3.2. Le Sezioni Unite ritengono che debba essere condiviso l’indirizzo della pressochè consolidata giurisprudenza della Sezione tributaria, e cioè che l’obbligo del cessionario o committente di pagare l’imposta sul valore aggiunto in caso di mancata trasmissione della fattura e omesso pagamento da parte del cedente o fornitore del servizio abbia natura di sanzione e sia, quindi, applicabile una nuova disciplina sanzionatoria più favorevole, secondo il principio di legalità espresso dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3.

3.3. Le ragioni sui cui si fonda la tesi che si tratterebbe di un vero e proprio debito d’imposta, indicate nell’ordinanza di rimessione della Sezione tributaria, sono le seguenti:

a) la collocazione sistematica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 nel titolo terzo è di per sè poco significativa, in quanto la norma contiene anche la previsione di sanzioni pecuniarie, al di là del pagamento dell’imposta;

b) la detraibilità dell’imposta pagata dopo l’avvenuta regolarizzazione

(desunta dall’art. 41, comma penultimo, secondo cui un esemplare del documento attestante il pagamento o la regolarizzazione è restituito dall’ufficio all’interessato, il quale deve annotarlo nel registro degli acquisti) non è compatibile con il carattere sanzionatorio attribuito allo stesso pagamento;

c) la Sesta direttiva i.v.a. n. 77/388/ CEE, par. 1, lett. a), ultima parte, art. 21, riconosce agli Stati membri la facoltà di estendere la categoria dei debitori d’imposta, prevedendo che una persona diversa dal soggetto passivo d’imposta sia tenuta in solido al pagamento dell’i.v.a..

3.4. Le Sezioni Unite ritengono che la collocazione dell’obbligo del pagamento dell’imposta nell’area delle misure sanzionatorie (Titolo Terzo del D.P.R. n. 633 del 1972) sia compatibile col quadro normativo sul sistema dell’i.v.a. e, soprattutto, con la disciplina comunitaria in materia.

Si deve, innanzitutto, premettere che tale disciplina non contiene

alcuna indicazione in materia di sanzioni, la cui istituzione e

regolamentazione è, quindi, rimessa agli Stati membri. Un interesse

comunitario in materia sussiste soltanto in relazione all’osservanza di principi generali dell’ordinamento comunitario, quale quello di effettività contenuto nell’art. 10 del Trattato CE, all’epoca vigente (in quanto le sanzioni rendono più rigorosa l’osservanza dell’applicazione dell’i.v.a.); o quello di proporzionalità (per cui è, ad esempio, interdetto un trattamento sanzionatorio in tema di i.v.a. all’importazione sproporzionato rispetto all’i.v.a. interna sugli scambi: sentenza della Corte di Giustizia in causa C – 299/86, punti 22 e 23). Nel quadro dei principi generali e delle libertà fondamentali dell’ordinamento comunitario, pertanto, agli Stati membri è consentito servirsi delle sanzioni allo scopo di rendere più efficace la riscossione dell’i.v.a.. A ciò si aggiunga che le risorse “provenienti dall’imposta sul valore aggiunto e ottenute mediante applicazione di un’aliquota comune ad una base imponibile determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie” vanno annoverate tra le principali risorse proprie delle Comunità (v. 2 considerando della Sesta direttiva; 8 considerando della direttiva 2006/112).

Pertanto, la previsione dell’obbligo del pagamento dell’imposta come sanzione non costituisce, in assenza di decisivi argomenti testuali e sistematici, un indice sicuro di esercizio della scelta, consentita agli Stati membri dall’art. 21, par. 1, lett. a), della Sesta direttiva, di istituire altre categorie di debitori d’imposta, oltre a quelli indicati dall’art. 21, il quale definisce come debitori dell’imposta verso l’Erario, in regime interno, i “soggetti passivi che eseguono un’operazione imponibile”, e cioè una di quelle indicate negli artt. 5, 6 e 7 della Sesta direttiva. Tale facoltà è stata riprodotta dall’art. 205 della direttiva n. 2006/112, costituente un testo unico in materia di imposta sul volume d’affari, le cui disposizioni, salvo che non emerga chiaramente dal testo, costituiscono soltanto una rifusione del contenuto delle norme previgenti (punti da 1 a 3 dei considerando).

Dal sistema comunitario dell’i.v.a. non emerge, pertanto, alcun obbligo degli Stati membri di estendere lo status di debitore d’imposta ad ipotesi come quella in contestazione.

3.5. Un decisivo sostegno alla tesi che qui si condivide si ricava dalla sentenza della Corte di Giustizia del 15 marzo 2007 in causa C – 35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH c. Ministero delle Finanze, pronunciata a seguito di rinvio pregiudiziale della Sezione tributaria.

Nella causa si discuteva dell’esistenza di un diritto del cessionario, nei confronti dell’Erario, al rimborso dell’i.v.a. erroneamente addebitata e versata. Nell’ordinanza di rinvio (n. 1015/2005) si chiedeva ai Giudici comunitari se la previsione, da parte del legislatore italiano, dell’obbligo di pagamento dell’imposta in caso di mancato ricevimento della fattura costituisse istituzione di una nuova categoria di debitore, nell’ambito della facoltà concessa dall’art. 21 della Sesta direttiva. Pur senza prendere espressamente in considerazione tale particolarità del sistema normativo nazionale, la Corte di giustizia, fra l’altro, statuiva:

“2) Ad eccezione dei casi espressamente previsti … solo il prestatore deve essere considerato debitore dell’imposta sul valore aggiunto nei confronti delle autorità tributarie”.

“3) I principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano ad una legislazione nazionale … secondo cui solo il prestatore di servizi è legittimato a chiedere il rimborso delle somme indebitamente versate alle autorità tributarie a titolo di imposta sul valore aggiunto, mentre il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore. Tuttavia, nel caso in cui il rimborso divenga impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere, in ossequio al principio di effettività, gli strumenti necessari per consentire a tale destinatario di recuperare l’imposta indebitamente fatturata”.

In sintesi, come già rilevato, nell’ipotesi di mancata emissione di fattura da parte del soggetto che ha compiuto l’operazione imponibile, non esiste alcun obbligo di rango comunitario a considerare la persona beneficiarla dell’operazione come ulteriore debitore d’imposta.

3.6. Da quanto sopra discende, altresì, che la qualità di debitore d’imposta non deriva neppure dal fatto che l’autofattura emessa dal cessionario/committente possa giustificare una detrazione dell’importo pari all’i.v.a. dovuta e versata all’Erario. Il sistema della detrazione, che deve assicurare la neutralità dell’imposta, presuppone che l’importo dovuto costituisca oggetto di un debito d’imposta, mentre non può essere, in alcun modo, riconosciuta una detrazione di oneri di natura diversa, quali le sanzioni. L’estensione all’autofattura, e all’imposta ivi indicata e pagata all’erario, del regime della detrazione è una mera conseguenza dell’avvenuta regolarizzazione, mentre non può avvenire nella fase in cui esiste soltanto l’obbligazione di pagare una somma pari all’imposta dovuta.

Si richiamano, in proposito, l’art. 18, par. 1, della Sesta direttiva e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19. Deve, altresì, ritenersi che l’obbligo di pagamento di una sanzione pecuniaria dello stesso importo dell’imposta dovuta non costituisca un mezzo sproporzionato, apparendo manifestamente finalizzato ad assicurare, da parte dello Stato membro, l’esatta riscossione dell’i.v.a., tanto più che il soggetto obbligato può conseguire la detrazione dell’importo attraverso le modalità di regolarizzazione previste dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 e del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, le quali comportano, come previsto dagli stessi artt., l’obbligo della registrazione del documento sostitutivo della fattura non trasmessa e, quindi, l’applicazione dell’intero regime previsto per la fattura, ivi compreso quello della detrazione.

3.7. In definitiva, dovendosi ritenere l’obbligo di pagamento come sanzione, allo stesso è applicabile il principio di legalità di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, non essendo definitivo il provvedimento d’irrogazione. Nel caso di specie, quindi, deve essere applicato il regime più favorevole di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8.

L’accoglimento della censura comporta la cassazione, sul punto, della sentenza impugnata.

La causa deve essere, quindi, rimessa alla Sezione tributaria per le statuizioni conseguenti alla pronuncia sul sesto motivo (decisione nel merito o rinvio) e per la decisione sugli altri motivi di ricorso.

P.Q.M. – la Corte di Cassazione a Sezioni Unite

accoglie il sesto motivo di ricorso; cassa in relazione al motivo

accolto e rimette il ricorso alla Sezione tributaria della Corte per le statuizioni conseguenti alla pronuncia emessa sul predetto motivo e la decisione sugli altri motivi.