Autorità garante della concorrenza e del mercato: la indeducibilità delle sanzioni

si appalesa in tutta la sua evidenza la difficoltà di riconoscere alle sanzioni amministrative una “strumentalità” all’attività d’impresa esercitata…

Con sentenza n. 78 del 2 marzo 2011 (ud. del 7 febbraio 2011) la C.T.P. di Milano, Sez. III – ha ritenuto che il comportamento anticoncorrenziale determina comunque un incremento dei ricavi, creando un rapporto di inerenza con le sanzioni che scaturiscono dal comportamento errato del contribuente.

Il fatto

Con ricorso la società ricorrente si opponeva all’avviso di accertamento notificato che derivava dai rilievi contenuti nel P.V.C., redatto dai militari del Nucleo di Polizia Tributaria.

In sede di accesso i verificatori intervenuti avevano infatti constatato costi per oneri straordinari indebitamente dedotti per complessi € 1.567.000,00; tali oneri, scaturenti da sanzioni irrogate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, erano stati assunti dalla ricorrente a componenti deducibili dal reddito d’impresa, malgrado l’insussistenza di un plausibile nesso di causalità e necessarietà.

I militari intervenuti eccepivano, in merito al rilevo riscontrato, l’insussistenza dei principi generali di inerenza dei costi, di cui all’art. 109, D.P.R. n. 917/1986.

La sentenza

Preliminarmente, il Collegio rileva che “il comportamento anticoncorrenziale, sanzionato in via amministrativa, ha contribuito a produrre maggiori ricavi imponibili e, quindi, il suo collegamento con l’attività dell’impresa e, dunque, l’inerenza, risulta in re ipsa, tanto che da sola basterebbe a giustificare la deducibilità fiscale delle sanzioni antitrust, in forza di un nesso diretto ed immediato con l’attività d’impresa. Esiste dunque un rapporto funzionale o, meglio, di causa – effetto tra l’attività posta in essere dalla ricorrente e il conseguimento dei maggiori ricavi imponibili”.

I maggiori ricavi determinati producono più reddito e soprattutto gettito a beneficio dell’A.F.. “Se questo è l’assunto, le sanzioni de quibus sono dunque sussumibili alle fattispecie di cui all’art. 109, comma 5 TUR e, pertanto, confacenti al principio dell’inerenza, ivi ascritto. A guisa di un costo sostenuto, direttamente correlabile ad un ricavo conseguito, le sanzioni comminate dall’Autorità Garante sono da qualificarsi, a tutti gli effetti, costi deducibili ai fini della determinazione del reddito imponibile”.

Per i giudici milanesi addurre che l’entità della sanzione costituisca un “costo deducibile” dal reddito imprenditoriale, “non significa neutralizzare, interamente, la ‘ratio’ punitiva della penalità, trasformandola in un risparmio di imposta, cioè quasi in un premio per le imprese che abbiano agito in violazione della norma antitrust. Come, da un lato, l’ufficio ha incassato maggiori imposte su un monte ricavi più elevato del normale (per maggiorazione dei prezzi), di conseguenza, bisogna anche considerare il relativo costo, rendendolo deducibile (sanzione antitrust), in quanto punizione che l’azienda ha pagato per aver venduto beni (e quindi ottenuto ricavi) in modo illecito, condizionando artificiosamente il mercato. Ci deve essere correlazione fra ricavi e costi“.

Tali sanzioni hanno carattere “ripristinatorio” o “risarcitorio“, perché con la loro comminazione l’Autorità Garante anela a riequilibrare il mercato, compromesso dal comportamento anticoncorrenziale, (che deve avvenire commisurando la sanzione irrogata ai ricavi lordi dell’impresa).

Data la peculiarità pubblicistica della medesima, questa va a colpire un comportamento che ha leso una serie di norme giuridiche, dirette alla tutela del mercato, ossia un interesse pubblico, e non collettivo, che ha comunque un diverso spessore rispetto al primo nell’ambito della gerarchia delle figure sostanziali di tutela del nostro ordinamento. E’ evidente il collegamento tra il presupposto di sanzione antitrust, il conseguimento di indebiti ricavi imponibili e l’intento del legislatore di captare, attraverso la sanzione, proprio quei ricavi indebitamente ottenuti con comportamenti atti a falsare la concorrenza”.

Prosegue la sentenza: “questo Giudice riprende anche l’orientamento della Cassazione, pressoché costante (Cass. Sez. Trib. 30/7/2007 n. 16826; Cass. Sez. Trib. 21/1/2009 n. 1465), giudica essenziale, ai fini della funzionale correlatività tra costi e ricavi, o meglio sull’incidenza che i costi hanno sulla determinazione dell’imponibile, non tanto la loro esplicita e diretta connessione ad una determinata componente del reddito, bensì la loro correlazione ad una attività potenzialmente idonea a produrre reddito, laddove l’avverbio ‘potenzialmente’ rende ben chiaro il concetto di quelli che sono gli atti illeciti, o illegittimi, di cui si tratta, ossia quelli che attengono all’abuso di posizione dominante o intese tra le varie società, che eludono le norme poste a tutela della libera concorrenza”.

Gli stessi giudici riconoscono però che “è certo che, bisogna compiere un leggero sforzo interpretativo, tenuto conto della necessità di considerare un aspetto commerciale più ampio, e non limitato alla sola interpretazione del concetto di sanzione vera e propria. Se l’orizzonte interpretativo si amplia, e si incunea in una visione quasi a 360 gradi del contesto economico, non è difficile definire tale sanzione come costo deducibile”.

Nota

Diciamo, innanzitutto, che non sempre un esborso di somme effettuato, pur nell’ambito di un’attività d’impresa, risulta essere deducibile dal reddito prodotto. In proposito, si pensi ad es. all’impossibilità di dedurre il costo sostenuto per l’acquisto di merci di illecita provenienza(1).

In particolare, a nostro avviso, alle somme pagate a titolo di sanzione non può essere riconosciuto un carattere strumentale all’attività svolta e, di conseguenza, non si configura nella fattispecie il “requisito dell’inerenza” che rappresenta uno dei presupposti necessari per poter dedurre le somme in parola.

Le sanzioni amministrative, infatti, sono sempre “estranee” alla formazione del reddito per il fatto stesso di derivare da un “comportamento antigiuridico” tenuto dal contribuente e tale circostanza fa sempre venire meno la ricorrenza del requisito dell’inerenza all’attività d’impresa(2).

Di conseguenza, se fosse concessa la possibilità di dedurre dal reddito d’impresa anche le sanzioni amministrative, ciò comporterebbe un’attenuazione della funzione punitiva-afflittiva assegnata alle stesse dall’ordinamento giuridico.

Come è noto le sanzioni antitrust sono quelle irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato – introdotta con l’art. 10, della L. 10 ottobre 1990, n. 287 -, a seguito della sua attività di vigilanza avente ad oggetto le intese restrittive della libertà di concorrenza, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione di imprese con determinate caratteristiche.

Trattasi, in particolare, di comportamenti di imprese ed enti che compromettono o limitano l’altrui diritto di iniziativa economica tutelato dall’art. 41 della costituzione e che, a seguito di istruttoria, possono comportare appunto l’applicazione di sanzioni pecuniarie amministrative(3).

Tale sanzione è commisurata al fatturato dell’impresa, e consegue alla persistenza ovvero alla particolare gravità della stessa.

Sul punto, l’Amministrazione finanziaria – C.M. n. 98/2000 e R.M. n. 89/2001 – si è pronunciata per la sua indeducibilità, facendo leva principalmente su una pronuncia del Consiglio di Stato – Sezione VI, sentenza 20 marzo 2001, n. 1671-, dove si afferma che la sanzione per l’illecito anticoncorrenziale non ha natura risarcitoria, bensì di sanzione amministrativa con connotati punitivi. Conseguentemente, avendo tale sanzione natura afflittiva, la stessa sarebbe indeducibile.

Il riconoscere natura risarcitoria alle sanzioni in argomento, si porrebbe in contrasto con la già evidenziata evoluzione in senso penalistico delle sanzioni amministrative, posto che rimane tutta da dimostrare la natura “risarcitoria” di una qualche sanzione amministrativa, pur dotata di indubbie specificità come quella antitrust.

Si appalesa, quindi, in tutta la sua evidenza la difficoltà di riconoscere alle sanzioni amministrative una “strumentalità” all’attività d’impresa esercitata.

Ed invero, il costo sostenuto quale sanzione per la commissione di un qualsiasi illecito è cosa ben diversa dal costo sostenuto per generare dei proventi, avendo infatti solo quest’ultimo un carattere di strumentalità all’attività d’impresa in quanto dipendente da una libera scelta effettuata dall’imprenditore, mentre le sanzioni sono soltanto una conseguenza del comportamento illecito tenuto dallo stesso.

In altre parole, ad es. può configurarsi come strumentale all’attività il costo per l’acquisto di merce, ma non il costo della sanzione comminata per l’eventuale violazione di norme sanitarie.

E’ evidente poi, che la mancanza di strumentalità della sanzione amministrativa all’attività d’impresa fa venir meno anche la sussistenza del requisito “dell’inerenza”.

Sul punto, pur rilevando che il concetto di inerenza si è nel tempo allargato, ci pare un po’ forzato ricomprendere le sanzioni nell’alveo dei costi inerenti all’attività d’impresa, posto che non ci sembra corretta la qualificazione della sanzione alla stregua di un qualsiasi “costo”.

Gli stessi giudici milanesi richiedono un “ leggero sforzo interpretativo”, che a noi sembra abnorme.

L’applicazione del principio in parola, così come quello della neutralità dell’imposizione tributaria, infatti, non può essere “estremizzato” fino a ricomprendere comportamenti antigiuridici.

Note

1) Cfr. il comma 4 bis dell’art. 14 L. 537/1993, introdotto dalla L. 289/2002 il quale testualmente prevede che “non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato…”.

2) Cfr. Circolare 26/09/2005 n. 42/E, secondo la quale “Con specifico riferimento alle sanzioni derivanti dal compimento di attività illecite, essendo le stesse la conseguenza del comportamento illecito dell’imprenditore, non è possibile considerarle quali costi inerenti ai ricavi conseguiti. Non è configurabile, infatti, neppure in via indiretta alcun rapporto funzionale tra il costo stesso e i ricavi realizzati”.

3) Cfr. G. VASAPOLLI, Dal bilancio d’esercizio al reddito d’impresa, Milano 2003, pag. 1235 e ss..

4 aprile 2011

Gianfranco Antico