La deducibilità delle perdite su crediti (seconda parte)

proseguiamo l’analisi della discplina delle perdite su crediti: le procedure concorsuali, il momento di corretta rilevazione, la corretta contabilizzazione

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  1. L’ assoggettamento a procedure concorsuali.

Secondo l’art. 101, c. 5, T.U.I.R., le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, ossia:

  • dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento;

  • dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa;

  • dalla data del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo;

  • dalla data del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Nelle ipotesi suddette non vi è necessità di ulteriori prove. Lo stesso automatismo riguarda le procedure estere, se il debitore è assoggettato a procedura assimilabile a quelle sopra indicate.

Difatti, ad avviso della Suprema Corte (sentenza 30 marzo 2001 n. 14568, depositata il 20 novembre 2001), la lettera e la finalità della norma inducono a ritenere che, soltanto “nel caso di assoggettamento del debitore a procedure concorsuali, si verifica un automatismo nella deducibilità delle perdite su crediti, evidentemente per le garanzie che le procedure concorsuali riescono a dare sul piano della certezza della insolvibilità e sul piano della precisione della entità delle perdite”.

In sostanza, in presenza di una procedura concorsuale, “il creditore è liberato dall’onere di provare la certezza della perdita (ossia, l’an della perdita derivante dall’inesigibilità del credito) e la sua entità (ossia, il quantum)”.

Sostanzialmente nello stesso senso si è espresso il Secit nella relazione annuale al Ministro delle finanze nel 1992: nel dettaglio, secondo il Secit, trattasi di disposizione la cui portata si esaurisce nel dare per esistenti, con l’assoggettamento del debitore a procedura concorsuale, gli “elementi certi e precisi” richiesti in via generale.

Analogo orientamento è rinvenibile in dottrina, ove è stato rilevato che, in presenza di una procedura concorsuale, esiste una presunzione iuris et de iure per cui non è prevista alcuna valutazione in merito alla probabilità di recuperare totalmente ovvero parzialmente il credito. In pratica, a seguito dell’apertura della procedura, gli elementi certi e precisi si considerano realizzati ex lege.

Per il solo fatto di essere sottoposto ad una procedura concorsuale, dunque, il debitore viene considerato insolvibile, con il risultato che l’eventuale perdita relativa al credito verso di lui vantato è deducibile.

    1. Esercizio di deducibilità della perdita su crediti.

Assodata la deducibilità “in ogni caso” della perdita su crediti, nelle ipotesi di procedura concorsuale (sempreché questa sia compresa tra quelle contemplate dall’art. 101, c. 5, T.U.I.R., secondo quanto sopra riportato), è stata posta la questione se detta deduzione debba obbligatoriamente avvenire nell’esercizio in corso alla data di inizio della medesima ovvero possa avvenire anche negli esercizi successivi.

La dottrina maggioritaria propende per la deducibilità della perdita anche in esercizi successivi a quello di inizio della procedura.

In questo senso, deporrebbe innanzitutto il tenore letterale del richiamato art. 101, c. 5, ove si afferma che “il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data (…)” (e non già alla data) in cui viene emanato il provvedimento (o decreto) che dà il via alla procedura stessa.

A sostegno di tale tesi, è stato poi invocato il testo dell’art. 25 del D.P.R. n. 42/1988, recante una disposizione transitoria che definisce i criteri di deduzione delle perdite su crediti per le procedure concorsuali in corso alla data di inizio del primo periodo d’imposta successivo al 31 dicembre 1987. In pratica, viene previsto che:

– le perdite imputate al conto economico in precedenti esercizi sono deducibili in quote costanti nel predetto periodo d’imposta e nei quattro successivi;

– le perdite imputate successivamente sono deducibili in quote costanti in cinque periodi di imposta a partire da quello in cui ne è avvenuta l’imputazione.

Questa norma, “nella parte in cui rimette al creditore la scelta dell’esercizio ai fini dell’imputazione della perdita al conto economico”, costituirebbe ulteriore conferma del fatto che la perdita su crediti può essere dedotta anche in esercizi successivi a quello di apertura della procedura concorsuale.

Né sembra ostare a tale conclusione il contenuto dell’art. 109, c. 1, T.U.I.R., ai sensi del quale i proventi e gli oneri, “per i quali le precedenti norme della presente Sezione (relative alla determinazione della base imponibile IRES, ndA) non dispongono diversamente”, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza. Infatti, il disposto concernente la deducibilità delle perdite su crediti annoverati verso debitori sottoposti a procedure concorsuali “contiene una disciplina di carattere speciale e come tale derogatoria alla regola suindicata” (così Leo-Monacchi-Schiavo “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Milano 1999, pag. 986).

Anche ad avviso del Secit il creditore potrebbe dedurre la perdita in ognuno degli esercizi per i quali si protrae la procedura concorsuale. Infatti, dal momento che, in base al tenore letterale del dato normativo, la sussistenza degli elementi certi e precisi è presunta per tutta la durata della procedura, “la competenza per l’imputazione a reddito (…) dovrebbe ritenersi estesa allo stesso periodo”. In pratica, come evidenziato in dottrina, “la deducibilità delle perdite è consentita, senza necessità di alcuna dimostrazione, per tutta la durata delle procedure stesse”.

Per quanto concerne l’orientamento giurisprudenziale, la sentenza del 29 ottobre 2010, n. 22135 della Corte di Cassazione afferma che il periodo d’imposta di competenza per la deducibilità deve coincidere con quello in cui si acquista la certezza che il credito non può essere più soddisfatto. Se ciò non fosse, si derogherebbe al principio di competenza che, secondo i Giudici di legittimità, rappresenta un aspetto inderogabile nella determinazione del reddito d’impresa. Pertanto, secondo i Giudici di Piazza Cavour la presunzione di sussistenza di elementi certi sull’irrecuperabilità del credito non si può ritenere esistente in maniera arbitraria e per tutta la durata della procedura concorsuale. In caso contrario, ci si rimetterebbe all’arbitrio del contribuente la scelta del periodo d’imposta in cui gli sarebbe più vantaggioso operare la deduzione, snaturando la regola del principio di competenza.

La prova di irrecuperabilità non impone di dimostrare che il creditore si sia attivato per esigere il suo credito, né che si sia intervenuta sentenza di fallimento del debitore.

Pertanto, il periodo di competenza è quello in cui c’è la certezza che il credito non potrà più essere soddisfatto, o nel caso della declaratoria di fallimento o della chiusura delle ditte debitrici.

Il citato art. 101 rinvia l’effettiva determinazione quantitativa e temporale della perdita ad un’analisi da effettuare nei singoli casi, sulla base degli elementi a disposizione degli amministratori.

La deducibilità della perdita dovrebbe ritenersi quindi ammissibile sia nell’esercizio di apertura della procedura che per tutta la durata della stessa, tenendo conto degli sviluppi della procedura stessa.

5. Perdite o svalutazioni?

Spesso si assiste a contestazioni mosse dall’A.f., tali da far destare seri dubbi sulla identificazione stessa delle perdite. In numerose occasioni, difatti, le svalutazioni sono state considerate dall’A.f. alla stregua di perdite su crediti. Per essere più chiari: l’A.f. ha preteso che la deduzione delle svalutazioni, specie quando esse comportano un azzeramento del valore del credito, sia legittima solo se corroborata da elementi certi e precisi.

Una simile contestazione è determinata da una distorta interpretazione delle svalutazioni e delle perdite, che non tiene conto di un aspetto fondamentale: i due concetti sono ben distinti e autonomamente disciplinati dal legislatore fiscale rispettivamente nell’art. 106 e nell’art. 101 del TUIR.

Si riporta, a tal proposito, un parere dell’ABI:“non si ritiene condivisibile l’assunto in base al quale non si può essere in presenza di una svalutazione in caso di valore pari a zero in quanto l’azzeramento del valore del credito rappresenta, di per sé, una perdita e non una svalutazione. Ciò potrà verificarsi solo se il componente negativo in questione è stato classificato contabilmente come perdita su crediti”. Si precisa, inoltre, che “se la riduzione di valore del credito è contabilizzata come svalutazione – ancorché totale – rileverà il disposto di cui all’art. 106, comma 3, del TUIR”.

Invero, l’art. 106, c. 3, del TUIR è una norma che lavora per masse di crediti, tanto che, oltre a consentire svalutazioni analitiche, ammette anche quelle forfettarie o c.d. collettive (cfr. RM 15 marzo 1999, n. 40/E) ed ha già insito un doppio controllo rappresentato dal limite dello 0,4% di deducibilità complessiva, e non per singolo credito, e dal riporto dell’eccedenza per ben nove anni successivi. Se il contribuente eccede nelle proprie svalutazioni, in caso di incasso nei successivi nove anni, ha la penalizzazione di dover subito pagare le imposte sulle riprese di valore da incasso e attendere per i residui anni il recupero delle quote (noni) di svalutazione non ancora dedotte.

La norma, in buona sostanza, funziona al pari di quella relativa agli ammortamenti dei beni strumentali ove il legislatore, ben consapevole della impossibilità di misurazione oggettiva della diminuzione di valore del credito nonché della capacità di utilizzo del cespite, fissa dei limiti assoluti quantitativi e temporali attraverso delle aliquote massime di svalutazione per i crediti e di ammortamento per le varie categorie di cespiti.

Così facendo lascia al contribuente la libertà (ma sempre limitata come sopra precisato) di quantificare la più corretta diminuzione di valore del credito nonché del cespite ammortizzabile nell’ambito della propria realtà economica aziendale.

L’art. 106 citato fissa esclusivamente limiti complessivi di natura quantitativa (0,4% e 5%) e limiti temporali (nove anni).

In conclusione, le due norme (art. 101 e art. 106 del TUIR) non sono affatto sovrapponibili e regolamentano fattispecie differenti e distinte.

Quindi, non è accettabile asserire che le svalutazioni integrali del credito sono né più né meno che perdite su crediti, richiedendo per le prime i presupposti di certezza e precisione necessarie solo per le seconde. Tale conclusione è errata e non supportata da norme tributarie.

A tal proposito si è espressa la sentenza della CTP di Cuneo (n. 130/09, pronunciata il 24/11/2009 e depositata il 15/12/2009), che accoglie il ricorso del contribuente, dichiarando legittima la svalutazione di crediti ritenuti “in toto od in parte non recuperabili, ancorché non definitivamente ed irreversibilmente”. Si specifica che “alla base del ridetto trattamento fiscale (n.d.A. art. 106, comma 3, del Tuir 917/86), sta manifestamente una valutazione risolta in termini di probabilità, anche intensa (segnatamente quanto ai crediti svalutati a zero), e non invece di certezza: né tale valutazione è contestabile o da ritenersi meramente pretestuosa, massime in relazione al fatto che ex probatis risultano tentativi di recupero in atto. Non essendovi dunque stata una valutazione risoltasi in termini di certezza, quanto alla irrecuperabilità dei crediti – ciò che avrebbe comportato una situazione di perdite su crediti (alla quale si riferisce l’art. 101 T.U.I.R.) – l’operato dell’attuale ricorrente, conforme alla disciplina di cui al richiamato disposto di cui al III co. dell’art. 106 T.U.I.R., risulta legittimo: ne consegue la fondatezza del gravame”.

A tutto ciò occorre aggiungere che storicamente l’Amministrazione finanziaria ha sempre assunto un’interpretazione particolarmente restrittiva che vede il pieno riconoscimento della deducibilità fiscale delle perdite solo dopo l’esperimento delle procedure esecutive individuali. Quindi, sarebbe del tutto prematuro ed in piena contraddizione considerare perdite le rettifiche di valore anche prima dell’avvio o della conclusione di tali procedure esecutive.

6. Perdite o sopravvenienze passive?

I due concetti sono ben distinti.

Le sopravvenienze passive sono disciplinate dall’art. 101, co. 4, del TUIR, il quale indica cosa debba intendersi per sopravvenienza passiva:

  • il mancato conseguimento di ricavi o proventi assoggettati a tassazione in precedenti esercizi;

  • il sostenimento di spese o oneri a fronte di ricavi o proventi assoggettati a tassazione in precedenti esercizi;

  • la sopravvenuta insussistenza di attività iscritte in bilancio negli esercizi precedenti (ad eccezione delle partecipazioni esenti).

In quanto la disposizione ha una struttura speculare rispetto a quella dell’art. 88, c. 1, del TUIR (sopravvenienze attive), costituiscono esempi di sopravvenienze passive:

  • i minori ricavi che emergono nell’esercizio successivo per effetto di revisioni di prezzo o contrattuali;

  • i minori valori di proventi iscritti per un importo eccessivo nell’esercizio precedente a causa di errori;

  • le attività inesistenti erroneamente iscritte in bilancio;

  • le attività non più esigibili per intervenuta prescrizione.

Quindi, le sopravvenienze dipendono da eventi speciali, nel senso di occasionali ed imprevedibili e non sono collegate ad una componente positiva di reddito.

A differenza delle sopravvenienze passive, le perdite di cui al 101 del TUIR sono relative a beni relativi all’impresa (comma 1) o a crediti (comma 5). È, dunque, necessaria la riferibilità ad un bene o un credito perché sia abbia una perdita ai sensi dell’art. 101 del TUIR. Di conseguenza, qualora tale riferibilità non sussista, si tratterà di sopravvenienze passive, la cui deducibilità (regolata dall’art. 101, c. 4, del TUIR) non è affatto subordinata al ricorrere dei requisiti di certezza e precisione, previsti dal comma 5 dell’articolo 101 per le sole perdite.

15 marzo 2011

Leonardo Leo