La deducibilità delle perdite su crediti (prima parte): orientamento dell’Amministrazione; l’esperibilità di tutte le procedure per il recupero del credito; orientamento della Dottina e Giurisprudenza; crediti commerciali di modesto importo e gli elementi di certezza e precisione…

è in arrivo la stagione dei bilanci e delle dichiarazioni dei redditi: pubblichiamo un interessantissimo approfondimento in tema di perdite su crediti, argomento scottante in questo periodo di crisi economica… (prima parte)

  1. Premessa.

In tempo di crisi, una delle poste del bilancio più critiche è quella dei crediti, a causa degli effetti del suo trattamento contabile sotto l’aspetto economico, patrimoniale, finanziario e fiscale. Difatti, la stima di perdite sui crediti:

– riduce il risultato economico dell’esercizio per pari importo, se quest’ultimo è negativo, incrementa la perdita relativa;

– ha effetto sul risultato d’esercizio, che incide sul valore del patrimonio netto e quindi sul capitale dell’impresa;

– incide sulla previsione dei flussi di cassa futuri e quindi anche sulla valutazione della capacità dell’impresa di far fronte ai propri impegni;

– richiede una attenzione particolare in riferimento a tutta la normativa fiscale.

Da un punto di vista civilistico, l’art. 2426, comma 1, punto 8) c.c. stabilisce che i redditi devono essere iscritti “in bilancio secondo il valore presumibile di realizzo”.

In altri termini, noto e certo il valore nominale di un credito, questo deve essere iscritto in bilancio tenuto conto di perdite per inesigibilità, resi e rettifiche di fatturazione, sconti e abbuoni, interessi non maturati, altre cause di minor realizzo conosciute.

Le perdite su crediti sono proprio la conseguenza di rettifiche di valore poste in essere dall’impresa qualora il valore nominale del credito sia inferiore a quello di realizzo. Esse costituiscono un evento suscettibile di generare componenti negativi deducibili dal reddito.

Difatti, l’art. 101, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, (di seguito T.U.I.R.) consente, a determinate condizioni, di dedurre predette perdite. La prima condizione di deducibilità è che le perdite su crediti derivino da “elementi certi e precisi”: se la perdita risulta da elementi di certezza e precisione, ne è ammessa la deduzione. La seconda ipotesi di deducibilità prevede che, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, vige una presunzione assoluta di certezza della perdita: dichiarato fallito il debitore, l’impresa può dedurre in automatico la perdita su crediti.

L’applicabilità di tale norma risulta molto complessa, soprattutto per la sua prima parte, laddove subordina la deducibilità alla sussistenza dei requisiti di certezza e precisione, la cui portata di significato, paradossalmente, non è affatto certa né precisa.

Non è nemmeno agevole rifarsi all’orientamento della giurisprudenza o della dottrina, perché spesso in contrasto con la prassi ministeriale: ci si espone al rischio di seguire le “direttive” espresse dalla giurisprudenza, per poi vedersi contestato come illegittimo il comportamento posto in essere.

  1. Gli elementi certi e precisi –

2.1. Orientamento dell’Amministrazione finanziaria.

Secondo la prassi ministeriale, costituiscono elementi certi e precisi ai fini della deduzione della perdita:

  • l’infruttuosità di procedure esecutive individuali intentate contro il debitore;

  • l’“abbandono” del credito a causa del suo modesto importo in rapporto alle spese legali che dovrebbero essere sostenute per il suo recupero (R.M. 6.8.76 n. 9/124);

  • la rinuncia al credito, nel rispetto del principio di inerenza (principio inteso non soltanto nell’obiettiva riferibilità dell’onere all’esercizio d’impresa, ma anche nella ricorrenza di quel concetto di “inevitabilità” dello stesso – L’inerenza, e quindi l’inevitabilità di un costo od onere va riconosciuta per il solo fatto che tale costo od onere si ponga in una scelta di convenienza per l’imprenditore, ovverossia quando il fine perseguito è pur sempre quello di pervenire al maggior risultato economico. – R.M. 9.4.80 n. 9/557).

L’Amministrazione finanziaria si è sempre dimostrata molto rigorosa, richiedendo che tali perdite siano analiticamente comprovate sulla base di una effettiva documentazione del mancato realizzo e del carattere definitivo delle stesse, con esclusione di ogni elemento valutativo o presuntivo. In sostanza, il creditore deve provare di avere esperito negativamente tutte le azioni legali per il recupero del credito.

2.1.2. L’Agenzia delle Entrate e l’esperibilità di tutte le procedure per il recupero del credito.

Sovente l’A.f. contesta all’impresa l’omesso esperimento di tutte le procedure per poter riscuotere il credito vantato. Da qui deduce la carenza di elementi certi e precisi che legittimano la deduzione della perdita.

Da tale ragionamento ne deriverebbe che ai fini della deducibilità sia necessario esperire tutte le procedure per riscuotere il credito. Tuttavia, come rilevato dalla giurisprudenza (infra), i requisiti di certezza e precisione non si soddisfano unicamente quando il creditore dimostri di aver posto in essere tutte le procedure possibili per il recupero. Tra l’altro ciò è fortemente antieconomico: porre in essere tutti gli strumenti previsti dalla legge per recuperare un credito comporterebbe il sostenimento di oneri molto gravosi. Il che avrebbe come conseguenza un duplice effetto negativo: il costo di tutte le procedure possibili per il recupero e l’eventuale mancato incasso di alcuna somma. Non è affatto sostenibile una simile tesi: ammettere la deducibilità solo quando sono state esperite tutte le procedure esistenti per il recupero.

Peraltro, c’è da chiedersi quale sia il reale significato di “tutte le procedure”. A ben vedere, è un’accezione priva di significato. Non ha alcun senso sostenere che i requisiti di certezza e precisione della perdita siano integrati solo quando sono state esperite tutte le procedure esecutive.

Non è sostenibile un assunto simile in senso assoluto: occorre calarsi nel contesto specifico e valutare se, in relazione a quel dato credito nei confronti di quel dato debitore, possa o meno essere fruttuoso (rectius: economicamente vantaggioso) sostenere delle spese in ragione del recupero del credito (rectius: delle probabilità di recupero).

Del resto, la pretesa dell’A.f. di ammettere la deduzione della perdita solo quando siano state esercitate tutte le azioni esecutive perde qualunque consistenza, qualunque logicità, se si tiene conto della Risoluzione n. 16/E del 23/01/2009. Difatti, in quella occasione l’Agenzia ha negato che costituisse una prova sufficiente dell’esistenza della perdita il fatto che finanche le azioni esecutive intraprese si fossero concluse con esito negativo. In quel caso specifico il debitore era un soggetto pubblico quindi il credito vantato nei suoi confronti non si sarebbe potuto considerare mai “perso”. Quindi, in base allo stesso orientamento espresso dall’A.f., si deve sostenere che ciò che costituisce elemento certo e preciso rispetto ad una determinata categoria di debitore non lo è per le altre.

Quindi, è del tutto inaccettabile che l’A.f. richieda, per tutti i crediti a prescindere dalla situazione concreta (ad esempio: entità del credito, situazione economica del debitore…), che siano esperite tutte le azioni esecutive. È solo un modo ingannevole per disconoscere la deducibilità senza, in concreto, dare alcuna motivazione.

2.2.Orientamento della dottrina.

La dottrina interpreta i parametri della “certezza” e della “precisione” in chiave probabilistica, ossia in termini di probabilità sufficientemente elevata di non recuperabilità del credito vantato.

Innanzitutto, è stato osservato che, mentre il requisito della certezza concerne l’esistenza della perdita, quello della precisione attiene al suo ammontare, analogamente ai principi generali sanciti dall’art. 109 del T.U.I.R..

Con specifico riferimento alla condizione di certezza, poi, è stato rilevato che la stessa va intesa in senso relativo, ed interpretata come una probabilità sufficientemente elevata.

Infatti, una cosa è verificare quando un credito (ed il corrispondente ricavo) possa considerarsi sorto, un’altra è valutare l’esigibilità del medesimo negli esercizi successivi. Sotto quest’ultimo profilo, la variazione di valore del credito non può che dipendere dalla valutazione soggettiva (e prospettica) del creditore, ossia dalla stima della recuperabilità del credito iscritto in bilancio.

Ne consegue che, fino a quando permane il diritto di credito, qualsiasi valutazione sulla perdita economica del credito appare, già in linea di principio, ispirata a criteri di più o meno intensa probabilità.

Inoltre, devono essere “certi” e “precisi” non tanto la perdita, quanto piuttosto gli elementi sui quali si basa la rilevazione della medesima: in altre parole, la perdita – per poter essere effettiva – deve risultare da elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, in sintonia con i principi generali in tema di presunzioni semplici ex art. 2729 c. c..

Quali elementi di prova dell’esistenza e dell’oggettiva determinabilità della perdita si elencano, a titolo esemplificativo, i seguenti fatti presuntivi:

– l’infruttuoso invio di diffide ed intimazioni ad adempiere, direttamente o da parte di un legale;

– il protesto dei titoli;

– l’infruttuosa notifica di atti di precetto;

– la documentata mancanza di beni mobili ed immobili in proprietà del debitore;

– la dichiarazione di non poter adempiere (contenuta, ad esempio, in un invito a definire un concordato stragiudiziale);

– incarico ad una società di factoring, e conseguente dichiarazione di questa di impossibilità di escutere favorevolmente il patrimonio del debitore;

– la fuga o la latitanza del debitore, la chiusura dei locali dell’impresa.

Tali eventi, calati nel contesto specifico, possono risultare significativi, in termini di presunzioni semplici, della verosimile, ossia molto probabile, irrecuperabilità del credito e, quindi, dell’esistenza dei requisiti per la deducibilità della perdita.

2.3 Orientamento della Giurisprudenza.

La giurisprudenza, così come la dottrina, adotta un’impostazione molto meno rigorosa di quella ministeriale. Sostiene, infatti, che, ai fini della deducibilità delle perdite, sia sufficiente la sussistenza di elementi che denotino in modo chiaro una scarsa solvibilità del debitore. Sarebbero tali, ad esempio:

  • le lettere di legali per l’intimazione ad adempiere all’obbligazione di pagamento;

  • lo stato di irreperibilità accertata del debitore;

  • la documentazione idonea a dimostrare che il debitore si trova nell’impossibilità di adempiere, e che sconsiglia l’instaurazione di procedure esecutive,

  • ogni altra documentazione che possa dimostrare lo stato di scarsa solvibilità del debitore.

Difatti, la giurisprudenza di legittimità sostiene che “in tema di imposte sui redditi, non è necessario, al fine di ritenere deducibili le perdite sui crediti quali componenti negative del reddito d’impresa, che il creditore fornisca la prova di essersi positivamente attivato per conseguire una dichiarazione giudiziale dell’insolvenza del debitore e, quindi, l’assoggettamento di costui ad una procedura concorsuale, essendo sufficiente che tali perdite risultino documentate in modo certo e preciso, atteso che secondo il disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 66, comma 3, le perdite sono deducibili, oltre che se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, quando, comunque, risultino da elementi certi e precisi” (in tal senso Sentenze Cassazione civile, sez. Tributaria, 22-07-2009, nn. 17085 e 17087; Sentenza Cassazione civile, sez. Tributaria, 19-11-2007, n. 23863).

Peraltro, recentemente, è stato ritenuto che “dagli atti prodotti emerge come la società ricorrente abbia correttamente operato, risultando la inesigibilità del credito dalla evoluzione dei fatti sopra esposta, dai pareri conseguentemente e correttamente formulati dai legali della società che sconsigliavano l’adozione di azioni legali che avrebbero soltanto determinato costi per la ricorrente senza nessuna speranza di soddisfacimento del credito, nonché dalla evidenziata insolvibilità della ditta debitrice, priva di un patrimonio minimamente idoneo a fronteggiare l’obbligazione” (Sentenza Commissione tributaria provinciale Parma, sez. I, 09-04-2010, n. 91).

Quindi, la giurisprudenza si discosta dalla prassi ministeriale ed ammette la deduzione delle perdite in presenza di elementi molto meno pregnanti e più pertinenti alla fattispecie in concreto verificatasi.

3 I crediti commerciali di modesto importo e gli elementi di certezza e precisione

La regola sopra esposta trova un’eccezione per crediti commerciali di modesto importo (R.M. 6 agosto 1976, n. 9/124).

In riferimento ai crediti di modesto importo la citata risoluzione (n. 9/124 del 1976) prevede che per detti crediti (“che siano tali anche in relazione all’entità del portafoglio”) si prescinda dalla ricerca di rigorose prove formali, “nella considerazione che la lieve entità dei crediti può consigliare le aziende a non intraprendere azioni di recupero che comporterebbero il sostenimento di ulteriori oneri”. Il problema riguarda però l’identificazione dei c.d. “crediti di modesto importo”. La risoluzione offre una chiave di lettura in base alla quale sono da considerarsi crediti di modesto importo:

– i crediti che siano “modesti” anche in relazione all’entità del portafoglio;

– i crediti per i quali un’azione di recupero comporterebbe un sostenimento di oneri superiori, pari o di poco inferiori rispetto all’entità del credito stesso, tanto da far ritenere antieconomico il loro recupero.

Dunque, vi sono due parametri sulla base dei quali commisurare la “modestia” del credito. In relazione al primo, si deve tener conto dell’ammontare dei crediti risultanti da bilancio. In relazione al secondo, si deve aver riguardo del costo di una pratica di recupero crediti, che ovviamente incide in percentuale maggiore su crediti di modesto importo.

Difatti, occorre considerare l’attività che comporta un recupero di credito presso un debitore che si rifiuta di pagare. Si deve anche tenere conto delle lungaggini della procedura (con continui rinvii delle udienze), nonché della situazione economica in cui versa il debitore, che potrebbe, dopo tutta la procedura di recupero attivata, non possedere alcuna garanzia per adempiere.

Non si dimentichi che l’impresa svolge un’attività economica da cui intende trarre profitto. Sarebbe fortemente antieconomico che l’impresa pagasse le costose procedure di recupero su crediti di importi irrisori rispetto al suo portafoglio clienti per poi magari non recuperare alcunché.

Non solo, nel caso in cui non riesca a recuperare nulla, nonostante le procedure avviate per il recupero, si verificherebbe un maggiore danno per l’erario. Difatti, da un punto di vista fiscale dovrebbero essere riconosciuti come elementi negativi di reddito sia l’ammontare di credito non recuperato, sia la spesa sostenuta per il tentato recupero.

3.1. L’Agenzia, “sul campo”, in riferimento ai crediti di modesto importo.

Nel corso delle varie verifiche poste in essere dall’A.f. si è assistiti ad una concretizzazione del concetto di “crediti di modesto importo” assai criticabile. Difatti, non di rado l’A.f. fissa in maniera del tutto arbitraria la soglia di deducibilità dei crediti di modesto importo, senza, di fatto, tenere conto dei criteri da essa stessa predisposti. Quindi, a prescindere dall’entità dei crediti e dai costi delle pratiche di recupero, l’A.f. ha considerato una soglia di deducibilità dei crediti “modesti” di appena € 1.000,00, anche a fronte di un portafoglio clienti di quasi un milione di euro. In altri casi, tuttavia, l’A.f. ha preso in considerazione, quali importi modesti, crediti superiori a € 20.000,00.

È sicuramente aleatoria, per non dire lasciata all’arbitrio dei verificatori, l’attuale applicazione pratica del concetto di crediti modesti. A nostro avviso occorrerebbe calcolare una media ponderata dei crediti e tener conto, tra quelli più bassi, di quelli più numerosi.

10 marzo 2011

Leonardo Leo