La sottoscrizione del Processo Verbale di Contestazione (PVC) in caso di fallimento

Qual’è il soggetto che deve firmare il P.V.C. in caso di ispezione ad un’impresa fallita: il fallito o il curatore? La risposta della Cassazione.

Intervento

Nell’ambito dello svolgimento dell’attività accertativa della Guardia di finanza e degli uffici finanziari, avente natura amministrativa e rilevanza limitata in quanto soltanto attraverso l’atto di accertamento l’Amministrazione finanziaria contesta al contribuente gli addebiti ascrittigli, anche discostandosi talvolta dall’avviso dei funzionari verbalizzanti, il fallito(1), malgrado la declaratoria di fallimento, non viene affatto privato della sua veste di soggetto passivo del rapporto tributario, sicché deve escludersi la ritenuta nullità del processo verbale sottoscritto dal fallito, invece che dal curatore fallimentare.

Tale assunto è stato statuito dalla Cassazione con ordinanza n. 25947 del 21 dicembre 2010.

L’iter logico giuridico evidenziata da tale pronuncia si è così sviluppato : La dichiarazione di fallimento(2) non comporta il venir meno di un’impresa, ma solo la perdita della legittimazione sostanziale e processuale da parte del suo titolare (cfr. Cass., n. 12893/2007).

Inoltre – ed il rilievo non è di poco conto – poiché la ratio della procedura concorsuale è quella di assicurare unitariamente l’esecuzione sul patrimonio del fallito e di assicurare la par condicio creditorum, la perdita della legittimazione sostanziale, che deve essere intesa solo sotto il profilo dell’esercizio della facoltà dispositiva, non significa affatto perdita della titolarità dei rapporti né dal lato attivo né dal lato passivo.

Del resto, la stessa incapacità processuale è soltanto relativa nel senso che il fallimento determina per il fallito la perdita della capacità di stare in giudizio limitatamente ai rapporti nei quali subentra il curatore, per cui egli, il fallito, può ancora agire, senza alcuna autorizzazione, sia sul punto sostanziale che processuale, per far valere i diritti strettamente personali, ovvero i diritti patrimoniali, dei quali si disinteressino gli organi del fallimento.

Ne deriva a fortiori che, nell’ambito dello svolgimento dell’attività accertativa della Guardia di finanza e degli uffici finanziari, avente natura amministrativa e rilevanza limitata in quanto soltanto attraverso l’atto di accertamento l’Amministrazione finanziaria contesta al contribuente gli addebiti ascrittigli, anche discostandosi talvolta dall’avviso dei funzionari verbalizzanti, il fallito, malgrado la declaratoria di fallimento, non viene affatto privato della sua veste di soggetto passivo del rapporto tributario, sicché deve escludersi la ritenuta nullità del processo verbale.

 

Fallito: legittimazione sostanziale e processuale

Nel caso di mancata impugnazione degli atti impositivi da parte degli organi fallimentari, il fallito è sempre legittimato a proporre ricorso, anche nelle ipotesi in cui il curatore non vi abbia provveduto perché non autorizzato dal giudice delegato.

La decisione del giudice delegato sulla opportunità di autorizzare l’azione nei confronti del Fisco, infatti, è basata su considerazioni che possono anche prescindere dai profili che riguardano personalmente il fallito e non rappresenta, quindi, un filtro idoneo a garantire i fondamentali principi, costituzionalmente garantiti, (art. 24, cc. 1 e 2, della Costituzione) del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa (Cassazione Sent. n. 2911 del 6 febbraio 2009).

Occorre fornire una interpretazione ampia del concetto di “inerzia” sino a farvi rientrare tutte le ipotesi di mancato esercizio, da parte del curatore fallimentare, del diritto di difesa contro gli atti tributari emanati nei confronti del fallito. In caso di omesso esercizio da parte del curatore della tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo, il fallito è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela; la ratio è quella di non vanificare il diritto alla difesa in giudizio, garantito dall’art. 24, c. 2, della Costituzione.

In particolare, nell’inerzia degli organi fallimentari, il fallito conserva la capacità processuale non solo relativamente ai beni e ai diritti non acquisibili alla massa fallimentare ma anche rispetto a quei rapporti di carattere patrimoniale che, pur essendo suscettibili di essere compresi nel fallimento, di fatto non vi rientrano a causa dell’inerzia mostrata dagli organi del fallimento, omettendo di agire o di resistere in giudizio per la tutela dei medesimi (Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 518 del 18 gennaio 2002; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 6937 del 14 maggio 2002; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 3418 del 8 marzo 2001; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 6085 del 26 aprile 2001).

Il riconoscimento in capo al fallito del diritto ad impugnare gli atti dell’Amministrazione finanziaria è l’unica soluzione conforme all’art. 24 della Costituzione che garantisce il diritto alla difesa.

Se il fallito conserva la capacità processuale in ordine alle situazioni giuridiche non comprese di fatto nel fallimento, egli, conseguentemente, non può subire, senza potersi difendere, la definitività del provvedimento del Fisco, ove l’atto impugnabile fosse notificato solo al curatore rimasto inerte e non anche al contribuente fallito: congegno, questo, che sarebbe inaccettabile perché contrario ai principi di cui all’art. 24 della Costituzione sul diritto di difesa.

Poiché, quindi, il fallito deve rispondere delle obbligazioni tributarie e delle sanzioni è evidente che lo stesso sia titolare di un interesse diretto e distinto a contrastare le violazioni contestate e le sanzioni irrogate.

È, dunque, priva di pregio l’interpretazione che costringe il fallito a subire, senza facoltà di difesa, la definitività dell’obbligazione tributaria (e delle sanzioni).

Sussiste l’assoggettamento dello stesso fallito ai termini di decadenza previsti dalla legge per l’esercizio di una tale attività processuale, con riguardo alla correlativa azione giudiziaria; il che comporta che l’atto impositivo in questione sia portato a conoscenza del fallito mediante notifica.

Gli accertamenti tributari, ove inerenti ad obbligazioni i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente – oppure nel periodo d’imposta durante il quale tale dichiarazione è stata resa – devono essere notificati non solo al curatore ma anche al contribuente,il quale, restando esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, conseguenti alla definitività dell’atto impositivo (soprattutto quando torna in bonis), è eccezionalmente abilitato ad impugnarli, nell’inerzia degli organi fallimentari, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita della capacità processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento (Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 1634 del 25 gennaio 2008; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 8778 del 4 aprile 2008; Corte di Cassazione, Sez. trib., ordinanza n. 21385 dell’11 ottobre 2007; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 9951 del 23 giugno 2003; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 3427 dell’8 marzo 2002; Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 14987 del 20 novembre 2000).

Nei casi di fallimento, ai fini della conoscenza da parte del fallito della pretesa impositiva a suo carico non è sufficiente la notifica degli atti al solo curatore(3).

Occorre riconosce efficacia agli atti impositivi dell’Amministrazione finanziaria solo dal momento in cui il contribuente ne abbia la legale conoscenza, che si realizza esclusivamente attraverso la notificazione degli stessi. La notifica al curatore fallimentare dell’avviso di accertamento, relativo a redditi anteriori al fallimento, non determina la decorrenza del termine per impugnare per il fallito.

Va precisato che la legittimazione ad impugnare l’avviso di accertamento dell’imposta è riconosciuta al contribuente fallito solo in caso di “inerzia” degli organi fallimentari, sicché, qualora il curatore abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto in lite, promuovendo il giudizio o intervenendovi, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto, ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio ( Cassazione sent. n. 8257 del 6 aprile 2009;Cassazione civile, Sez. trib., 16 aprile 2007, n. 8990).

 

NOTE

1)In tema di accertamento, l’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui prevede l’invito al contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari, non impone all’ufficio l’obbligo di uno specifico e previo invito, ma gli attribuisce una mera facoltà, della quale può avvalersi in piena discrezionalità; il mancato esercizio di tale facoltà non può quindi determinare l’illegittimità della verifica operata sulla base dei medesimi accertamenti. Ne consegue che, se dal mancato esercizio della facoltà di invitare il contribuente a fornire chiarimenti, dati e notizie non deriva alcuna illegittimità della rettifica operata sulla base degli accertamenti stessi, tale conseguenza non può certamente scaturire – e nulla né sul piano letterale né su quello logico autorizza a ritenere il contrario – dal fatto che la richiesta di chiarimenti e di dati sia stata rivolta direttamente al contribuente fallito piuttosto che al curatore fallimentare.( cassazione Sent. n. 14967 del 13 maggio 2009 (dep. il 25 giugno 2009).

2) In tema di Iva, la sentenza dichiarativa di fallimento esplica i suoi effetti nei confronti del fallito indipendentemente dalla sua notificazione. Deve quindi considerarsi che, ai sensi dell’art. 74-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nel testo pro tempore vigente, il curatore deve presentare due dichiarazioni: quella per il periodo prefallimentare, equiparabile alla dichiarazione di cessazione dell’attività, da cui sorge il diritto della curatela al rimborso dei versamenti che risultino effettuati in eccedenza, e – se i termini non sono ancora scaduti – quella relativa all’imposta dovuta per l’anno solare precedente (Cassazione Ord. n. 13552 del 30 aprile 2010, dep. il 4 giugno 2010).

3) L’accertamento tributario, che inerisca ad obbligazioni i cui presupposti si siano verificati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente deve essere notificato non solo al curatore, in ragione della partecipazione al concorso fallimentare, ma anche al contribuente, che, tornato in bonis, resta direttamente tenuto al soddisfacimento del debito tributario non soddisfatto dal fallimento, sicché è nullo l’atto esattivo emesso nei confronti del fallito tornato in bonis, cui, tuttavia, non sia stato notificato l’avviso di accertamento.

Ciò comporta, con riferimento al caso di specie, che, in mancanza di notifica dell’avvio di accertamento alla società e/o ai suoi soci illimitatamente responsabili, l’atto esattivo emesso nei confronti di questi ultimi deve ritenersi nullo per mancata previa notifica dell’atto presupposto. Sent. n. 29642 del 19 novembre 2008 (dep. il 18 dicembre 2008).

Con il fallimento la società non viene meno, ma i suoi organi perdono la legittimazione sostanziale e processuale (artt. 44 e 43 della legge fallimentare), che viene assunta dalla curatela fallimentare, la quale, per tale ragione, subentra nella posizione della fallita. Ciò comporta che sono opponibili alla curatela gli atti formati nei confronti della fallita, mentre, dopo la dichiarazione di fallimento, gli ulteriori atti del procedimento tributario debbono indicare quale destinataria l’impresa in procedura e quale legale rappresentante della stessa il curatore: tanto è avvenuto nella fattispecie, in cui la cartella di pagamento, emessa dopo la sentenza di fallimento, è stata notificata al curatore che per l’appunto l’ha impugnata (cassazione Sent. n. 11784 del 14 maggio 2010; Cass. nn. 14894 del 2008 e 2803 del 2010).

 

3 febbraio 2010

Antonio Terlizzi

 

ALLEGATO

Cassazione Ord. n. 25947 del 17 novembre 2010 (dep. il 21 dicembre 2010)

Fattoe diritto – Premesso che la Commissione tributaria provinciale di Napoli respingeva il ricorso introduttivo della lite, proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento con cui era stato rettificato il reddito d’impresa relativamente all’anno di imposta 1998; premesso che la Commissione tributaria regionale della Campania con sentenza n. 78/39/06, depositata in data 21 giugno 2006, accoglieva l’appello del contribuente avverso la sentenza di primo grado; premesso che l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, lamentando con la prima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione artt. 33 del D.P.R. n. 600/1973 e 52, comma 6, del D.P.R. n. 633/1972, che la Commissione tributaria regionale avrebbe sbagliato nel ritenere la nullità del processo verbale sottoscritto dal fallito, invece che dal curatore fallimentare, essendo quest’ultimo divenuto, secondo i giudici di seconde cure, l’unico soggetto abilitato a rappresentare la ditta, dichiarata fallita circa dodici giorni prima;

tutto ciò premesso, il Collegio ritiene di condividere le considerazioni contenute nella relazione, di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata al Procuratore generale e notificata ai difensori dell’Agenzia, osservando quanto segue.

A parte la considerazione che, per come sottolineato dalla Commissione di primo grado, il processo verbale di constatazione fu notificato al curatore fallimentare per cui la curatela, già prima di ricevere la notifica dell’avviso, era a conoscenza delle risultanze della verifica fiscale (cfr. pagina 1 della sentenza impugnata), mette conto di sottolineare che la dichiarazione di fallimento non comporta il venir meno di un’impresa, ma solo la perdita della legittimazione sostanziale e processuale da parte del suo titolare (cfr. Cass., n. 12893/2007). Inoltre – ed il rilievo non è di poco conto – poiché la ratio della procedura concorsuale è quella di assicurare unitariamente l’esecuzione sul patrimonio del fallito e di assicurare la par condicio creditorum, la perdita della legittimazione sostanziale, che deve essere intesa solo sotto il profilo dell’esercizio della facoltà dispositiva, non significa affatto perdita della titolarità dei rapporti né dal lato attivo né dal lato passivo. Del resto, la stessa incapacità processuale è soltanto relativa nel senso che il fallimento determina per il fallito la perdita della capacità di stare in giudizio limitatamente ai rapporti nei quali subentra il curatore, per cui egli, il fallito, può ancora agire, senza alcuna autorizzazione, sia sul punto sostanziale che processuale, per far valere i diritti strettamente personali, ovvero i diritti patrimoniali, dei quali si disinteressino gli organi del fallimento.

Ne deriva a fortiori che, nell’ambito dello svolgimento dell’attività accertativa della Guardia di finanza e degli uffici finanziari, avente natura amministrativa e rilevanza limitata in quanto soltanto attraverso l’atto di accertamento l’Amministrazione finanziaria contesta al contribuente gli addebiti ascrittigli, anche discostandosi talvolta dall’avviso dei funzionari verbalizzanti, il fallito, malgrado la declaratoria di fallimento, non viene affatto privato della sua veste di soggetto passivo del rapporto tributario, sicché deve escludersi la ritenuta nullità del processo verbale. In conclusione, si ritiene che la censura in esame meriti di essere condivisa, assorbite le altre, e che pertanto il ricorso debba essere accolto in quanto manifestamente fondato, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata. Ritenuto infine che occorre un rinnovato esame della controversia, la causa deve essere rinviata ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale Campania che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M. – la Corte accoglie la prima censura, assorbite le altre, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto, con rinvio anche per le spese ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale Campania.