Interposizione soggettiva ed elusione: similitudini, differenze e sovrapposizione nel corso dell’accertamento (parte prima)

il concetto di “elusione fiscale” sta diventando sempre più centrale in sede accertamento, iniziamo ad analizzare le problematiche relative a tale concetto applicato nel nostro sistema legislativo

Aspetti generali

L’elusione fiscale appare sempre più, nello scenario delle attività di accertamento, come uno schema plurimo, indeterminato, a configurazione variabile.

Inoltre, essa deve coordinarsi con le riflessioni della giurisprudenza di legittimità in materia di abuso del diritto: a tale riguardo, occorrerebbe rammentare che comunque – essendo l’Italia un Paese di civil law – è la norma (e non la sentenza) a segnare la via corretta; comunque, secondo gli indirizzi più recenti, il potere di rettifica incontra un limite stringente nella necessità di dimostrare che l’operazione è finalizzata (preordinata) all’abuso.

In assenza di un preciso criterio «mediano», il contrasto all’elusione oscilla tra due estremi: da un lato, qualsiasi operazione singola o coordinata potrebbe essere contestata dal Fisco perché concretamente o potenzialmente (prospetticamente) elusiva; dall’altro, ogni comportamento potrebbe essere ritenuto giustificato da una pur modesta ragione economica (di fatto depotenziando, se non rendendo inapplicabile, la norma antielusiva).

La possibilità, da parte degli uffici, di contestare l’interposizione soggettiva nel possesso di redditi, è cosa diversa rispetto all’accertamento antielusivo, dato che prevede la semplice simulazione del reale titolare del reddito (mentre l’elusione rappresenta nella sostanza lo «sviamento» dell’operazione «tipica» a favore di quella «atipica» e fiscalmente meno cara); si tratta comunque sempre di un contesto nel quale la coppia legislatore-Fisco «non si fida» dell’apparenza, che viene superata, prevalentemente, attraverso presunzioni.

Nell’uno come nell’altro caso, l’interpello speciale può prevenire la vertenza con l’amministrazione (naturalmente, se il contribuente è in buona fede e intende dimostrare la non elusività/fittizietà, nel caso di specie).

L’elusione in generale

Nel contesto dei comportamenti che sono soggetti alle attività di controllo dell’Amministrazione, l’elusione fiscale rappresenta un fenomeno da considerare con particolare attenzione, perché, manifestandosi attraverso azioni in tutto e per tutto lecite per il diritto positivo, essa comporta notevoli ambiguità e difficoltà interpretative.

Per poter rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 – norma antielusiva generale – l’operazione posta in essere deve essere elusiva nel suo complesso, mentre non sembra richiesto che, in presenza di un «procedimento elusivo» costituito da una molteplicità di atti, siano proprio quelli elencati nel terzo comma a produrre il risultato elusivo o a essere privi di valide ragioni economiche.

In linea generale, l’intento elusivo perseguito dal contribuente può essere individuato:

  • in una serie di atti la cui sequenza appaia anomala in relazione al risultato economico cui essi sono stati preordinati, o caratterizzata dall’assenza di una qualsiasi plausibile ragione “non fiscale” della loro concatenazione ;

  • nella sussistenza di un’interdipendenza funzionale tra le singole operazioni che, apparentemente autonome e casuali nella loro successione, perseguono nella sostanza uno scopo unitario.

  • Il richiamato art. 37-bis non opera come una norma antielusiva a tutto campo, ponendosi piuttosto a «presidio» di una serie di operazioni e comportamenti potenzialmente sospetti, non in sé e per sé, ma in quanto «combinabili» con altri, per ottenerne l’utilizzo indebito delle possibilità (o, meglio, delle lacune) del sistema tributario e, quindi, il risparmio d’imposta non previsto.

In particolare, il primo comma dell’articolo afferma che «sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti».

Entrano dunque in gioco determinati comportamenti (atti, fatti, negozi), anche collegati tra loro (ossia considerati non singolarmente, bensì nella loro coordinazione/combinazione), il cui fine è di «aggirare» degli «obblighi o divieti» previsti dall’«ordinamento tributario» (e non, quindi, dalle sole norme positive), ottenendo un vantaggio dal punto di vista fiscale che altrimenti non sarebbe dovuto.

Già a questo primo livello di analisi potrebbe porsi una serie di questioni relativamente alle nozioni evocate dall’art. 37-bis: occorrerebbe infatti stabilire con certezza quali siano gli atti, fatti e negozi «sospetti», quale il criterio del loro «collegamento» che assume rilevanza ai fini antielusivi perseguiti dal legislatore (e quale l’estensione e l’intensità di tale collegamento), cosa significhi «aggiramento», se vi siano nell’«ordinamento tributario» dei veri e propri «obblighi» e «divieti», etc. etc.

Comunque, soprassedendo su tali questioni, in presenza di vantaggi tributari ottenuti attraverso i comportamenti menzionati, è attribuito all’Agenzia delle Entrate il potere/dovere di disconoscere i vantaggi fiscali conseguiti, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione.

L’interposizione soggettiva 

Con quello dell’elusione si intreccia il problema dell’interposizione soggettiva, ossia – in generale – della fittizia riconduzione a terzi di redditi in realtà facenti capo ad altri contribuenti, a norma dell’art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973.

In tale ipotesi, l’Amministrazione ha la facoltà di contestare a qualsiasi contribuente i redditi dei quali altri appaiono come i formali titolari.

Secondo la giurisprudenza civilistica, l’interposizione personale va ricondotta alle ipotesi di cui agli artt. 1414 e ss., c.c., ovvero alla simulazione del contratto.

I fenomeni di interposizione vengono solitamente distinti nelle seguenti due tipologie:

  • interposizione reale di persona, nella quale sussiste un particolare rapporto tra interponente e interposto, che riveste il carattere del mandato senza rappresentanza. In tale fattispecie, il soggetto interposto, d’intesa con l’interponente, contratta in nome proprio con un terzo e diviene titolare dei diritti e degli obblighi assunti contrattualmente, con l’obbligo di ritrasferirli all’interponente;

  • interposizione fittizia, caratterizzata invece dall’accordo simulatorio tra tre soggetti:

  1. il contraente effettivo, o interponente;

  2. il contraente fittizio, o interposto;

  3. la controparte contrattuale.

In tale ultima ipotesi, l’interposto stipula solo apparentemente il negozio, il cui effettivo contraente (ovvero l’interponente) non appare.

A tale riguardo può essere rammentato che, sul piano dei rapporti negoziali tra privati, il principio dell’apparenza del diritto, posto a tutela della buona fede del terzo, postula la contestuale presenza di:

  • uno stato di fatto non corrispondente a uno stato di diritto;

  • il ragionevole convincimento del terzo, derivante da un errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchi la realtà giuridica.

Come conseguenza di tale situazione, il terzo, facendo affidamento su una situazione giuridica solo apparente, ha il diritto di contare su tale situazione.

Ne deriva, indipendentemente dall’esistenza di una procura o di un rapporto contrattuale, un’obbligazione a carico di colui che, con il suo comportamento commissivo od omissivo, ha ingenerato nei terzi di buona fede il giustificato affidamento di essere l’effettivo titolare del rapporto giuridico.

La norma appare particolarmente idonea a colpire il contribuente che si avvalga di «prestanome», dotati della mera titolarità fittizia di rapporti produttivi di redditi.

Il quarto comma dell’articolo aggiunge che le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati a un altro contribuente, possono chiederne il rimborso.

L’Amministrazione ha la facoltà di effettuare il rimborso dopo che l’accertamento, nei confronti del soggetto interponente, è divenuto definitivo, e in misura non superiore all’imposta effettivamente percepita a seguito dell’accertamento stesso.

Va evidenziato a tale proposito che la «definitività» dell’accertamento, nel caso in cui sia instaurato un contenzioso, può anche intervenire a distanza di anni; di conseguenza, i tempi del rimborso non differiscono rispetto a quelli ordinariamente applicabili in caso di vittoria parziale o totale nel processo tributario.

Dall’esame della norma, risulta che:

  • se l’accertamento diviene definitivo senza impugnazione, ovvero dopo 60 giorni della sua notificazione, i termini per proporre istanza di rimborso iniziano a decorrere dalla data in cui l’atto si “consolida”;

  • se invece è intervenuto un contenzioso tributario, occorre far riferimento al passaggio in giudicato della sentenza; in tale ipotesi, la prova contraria richiesta dall’art. 37, c. 4, D.P.R. 600/1973, dovrebbe però essere stata già prodotta in sede giurisdizionale.

È generalmente esclusa dalla dottrina la riducibilità dell’interposizione ex art. 37, terzo comma, agli schemi civilistici fondati sulla distinzione tra realtà e apparenza.

In ambito fiscale prevale infatti non la tutela del terzo di buona fede, ma – nel contesto procedimentale e accertativo in cui la norma funziona – la preoccupazione di rinvenire in capo al soggetto il presupposto oggettivo del possesso del reddito.

Il reddito, insomma, dichiarato o non dichiarato, deve essere rinvenuto in capo al soggetto che ne ha l’effettivo possesso, e non la semplice titolarità privatistica.

Come pure la norma antielusiva «a vocazione generale» di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, anche l’art. 37, terzo comma, ha natura procedimentale, nel senso che essa opera solo in sede di controllo, salva però la possibilità di conoscere preventivamente l’orientamento dell’Amministrazione (Agenzia delle Entrate, ovvero Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive) attraverso una speciale procedura di interpello.

Si tratta del diritto di interpello «speciale» previsto dall’art. 21 della L. n. 413/1991, finalizzato a chiarire la corretta “qualificazione fiscale” delle situazioni di fatto prospettate, per raggiungere una soluzione consensuale tra contribuente e Fisco.

15 febbraio 2011

Fabio Carrirolo