Il rinvio a giudizio dell'amministratore nega la possibilità del condono

la giurisprudenza sta verificando la validità dei condoni ex L. 289 del 2002: oggi vediamo cosa succede se la società avesse condonato, nonostante l’amministratore fosse sotto processo per fatti di evasione fiscale

Con sentenza n. 2714 del 4 febbraio 2011 (ud. dell’11 novembre 2010) la Corte di Cassazione ha sbarrato la strada al condono della società, se l’amministratore era stato rinviato a giudizio.

Il processo

Con ricorso alla C.T.P. di Milano la C. s.a.s. di A.P., già C. s.p.a. fino al 3.5.2000, impugnava il diniego di definizione agevolata adottato dall’Ufficio delle Entrate – L. n. 289 del 2002, ex art. 15 -, sulla richiesta formulata in data 22.5.2003 con riferimento alle risultanze di un processo verbale della G.d.F. del 10.6.2000, relativo agli anni 1997 e 1998, motivandolo con riferimento alla sentenza di condanna emessa in data 3.10.2002 dal G.I.P. presso il Tribunale di Crema a carico di P.P. nella sua qualità di Amministratore delegato della società, e alla inammissibilità del condono prevista dall’art. 15 cit. “per i soggetti nei cui confronti è stata esercitata l’azione penale per i reati previsti dal su citato D.Lgs. 10 marzo 2002, n. 74“.

La ricorrente chiedeva l’annullamento dell’atto impugnato, assumendo che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di un amministratore non sarebbe causa ostativa per l’ammissibilità del condono fiscale da parte della società.

Il giudice adito rigettava il ricorso con decisione che, appellata dalla contribuente, veniva successivamente confermata dalla C.T.R. della Lombardia con sentenza n. 55/1/2006, depositata il 12.4.2006, ritenendo sussistente entrambi i presupposti preclusivi – esercizio dell’azione penale e formale conoscenza – , in quanto era stato ritenuto esistente una immedesimazione organica tra l’amministratore e la società.

La sentenza

La Suprema Corte non accoglie la tesi difensiva del contribuente – volta a negare il rapporto di immedesimazione amministratore-società, in considerazione dell’avvenuta cessazione della carica: “ciò non fosse altro che per l’assenza di qualsiasi riferimento alla dedotta circostanza dell’avvenuta cessazione di qualsiasi carica sociale da parte di P.P., e soprattutto alla data in cui ciò si sarebbe verificato, circostanza quest’ultima di fondamentale importanza ai fini dell’eventuale accoglimento della tesi in diritto sostenuta dalla difesa della ricorrente, come qui di seguito ancor meglio risulterà”.

Proprio a questo proposito, peraltro, a ulteriore conforto di quanto in premessa già anticipato non può altresì non rilevarsi che, alle argomentazioni esposte dal giudice di merito per ritenere realizzati i due presupposti richiesti dall’art. 15 cit. ed escludere la condonabilità della lite fiscale da parte della soc. C. (esercizio dell’azione penale nei confronti della contribuente e formale conoscenza di tale circostanza da parte della stessa), così come fondate sul rapporto di immedesimazione organica esistente tra amministratore (P.P.) e società, la ricorrente ha inteso sostanzialmente replicare deducendo l’inapplicabilità del principio di immedesimazione al caso di specie, in conseguenza della cessazione di qualsiasi carica sociale da parte del citato P. dopo l’intervenuta trasformazione della originaria C. s.p.a. in C. s.a.s. (3.5.2000), e quindi molto tempo prima che lo stesso P. avesse conoscenza dell’avviso di fissazione di udienza preliminare nel processo a suo carico, primo atto di avviso della pendenza del processo medesimo.

Secondo la tesi difensiva della ricorrente, se P.P. al momento dell’esercizio dell’azione penale e della comunicazione della stessa all’interessato non era più amministratore, e quindi legale rappresentante della società, il rapporto di immedesimazione organica sul quale si fonda la sentenza di merito non avrebbe potuto giammai operare, restando con ciò esclusi entrambi i presupposti cumulativamente richiesti dalla legge per l’esclusione della condonabilità della lite fiscale da parte della società.

Ma se così è – afferma la Corte Suprema – “non può non replicarsi che la decisiva circostanza (quanto meno nella prospettazione della ricorrente) della cessazione di qualsiasi carica sociale da parte di P.P. a far data dal 3.5.2000, non risulta affatto accertata dal giudice di merito, nè sul punto, che pure dovrebbe essere determinante ai fini della decisione, vi è specifica censura in ricorso”.

Ed è invece su quell’aspetto della sentenza impugnata che la ricorrente avrebbe dovuto censurare la decisione, non già con riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, ma o sotto il profilo dell’omessa pronuncia (con conseguente onere di indicare come, dove e quando la relativa domanda sarebbe stata posta), o con riferimento alla previsione del successivo n. 5 c.p.c. , e la qual cosa non può dirsi avvenuta.

Brevi indicazioni

Causa ostativa, per tutte le tipologie di condono, era la formale conoscenza da parte del contribuente – alla data in cui la definizione si perfeziona – , dell’esercizio dell’azione penale per i reati previsti dal D.Lvo n.74/2000.

Sul punto si ricorda che la circolare n.12/E/2003 aveva precisato – al punto 10.1.1 – “che possono avvalersi della definizione anche coloro nei cui confronti, pure in un momento successivo alla richiesta di rinvio a giudizio, sia stata emessa sentenza di assoluzione ex art.530 del Codice di procedura penale o sentenza di non doversi procedere ex art.529, Codice di procedura penale…, o di non luogo a procedere ex art.425 del Codice di procedura penale“.

26 febbraio 2011

Francesco Buetto