Sospensione del processo tributario in attesa di definizione del procedimento penale

la Corte Costituzionale ha stabilito che è corretto portare a termine il processo tributario, anche in pendenza di un processo penale che verte sui medesimi fatti

Con ordinanza n. 335 del 24.11.2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 del DLgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui la norma non prevede la possibilità di sospensione del processo tributario in attesa della definizione del processo penale pendente.

L’intervento della Consulta incide sulla materia dei rapporti reciproci tra i procedimenti giurisdizionali penale e tributario, il cui «percorso» deve conformarsi al rispetto del principio del «doppio binario», ossia – salve limitate possibilità – della reciproca indifferenza.

È pur vero però che, scendendo dal piano normativo-processuale a quello sostanziale, le medesime vicende che sono oggetto del processo penale tributario (ad esempio, l’«infedele dichiarazione» al di sopra della soglia di sanzionabilità penale) possono essere al centro anche del contenzioso tributario, trovando fonte, in ambedue i casi, nell’attività investigativa svolta dagli uffici o dalla G.d.F., e riportata in un unico verbale. In tale prospettiva, se il «doppio binario» risponde alla divaricazione tra le due istruttorie (quella amministrativa-tributaria, che transita attraverso la formalizzazione ed emissione di un atto impositivo, e quella penale, innescata dalla notizia di reato), esso non risolve il problema della «quasi identità» tra le due vicende – penale e tributaria -, foriera di possibili interferenze (con aspetti problematici connessi, peraltro, alle rilevanti differenze tra i due processi in ordine al regime probatorio).

La decisione della Corte e le sue implicazioni

La questione sottoposta all’esame della Consulta aveva preso avvio dal procedimento penale cui era stato sottoposto il contribuente per reati fiscali, in conseguenza del quale l’A.G. aveva disposto il sequestro della contabilità. Tale circostanza aveva reso impossibile al medesimo contribuente di esercitare compiutamente il diritto di difesa avanti la CTP, nel contenzioso tributario azionato avverso l’avviso di accertamento (notificato successivamente all’inizio dell’azione penale).

In particolare, secondo l’ordinanza pubblicata, il giudice di primo grado dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 39 predetto, “nella parte in cui vieta in generale la sospensione del processo tributario in caso di contemporanea pendenza di un processo penale il cui esito potrebbe influire sulla decisione”, sulla base della considerazione “che la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l’articolo 3 Cost., per la irragionevole disparità di trattamento processuale che determinerebbe tra l’imputato ed il contribuente, per essere solo quest’ultimo sostanzialmente privato del diritto di poter disporre di accertamenti precisi ed univoci dei fatti portati a conoscenza del giudice tributario; nonché con l’articolo 24 Cost., per la compressione del diritto del contribuente a non essere condannato per un fatto non accertato, non essendo i documenti che potrebbero scagionarlo, o che comunque sarebbero necessari ai fini del giudizio, nella disponibilità del giudice tributario, ma agli atti del processo penale”.

La CTP aveva quindi rimesso la questione alla Consulta, rilevando che l’art. 39 del D.Lgs. n. 546/1992 avrebbe dovuto prevedere la possibilità, per il giudice fiscale, di sospendere il processo in attesa della conclusione di quello penale (conclusione evidentemente ritenuta condizione necessaria affinché la documentazione necessaria alla difesa del contribuente nel giudizio di merito si rendesse disponibile).

La Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione, affermando che, nel caso di specie, la norma di riferimento andava individuata nell’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000, e non già nell’art. 39 sopra richiamato, la cui eliminazione o modificazione lascerebbe indenne il «divieto di sospensione» contenuto nella disposizione del 2000.

Secondo quanto è stato affermato, inoltre, la questione dell’indisponibilità delle prove richieste ai fini della difesa del contribuente (ossia delle scritture contabili sequestrate) poteva risolversi senza alcun coinvolgimento della Consulta, ove la CTP avesse inteso esercitare i poteri di cui all’art. 7 del decreto sul contenzioso, richiedendo agli uffici giudiziari la trasmissione degli atti (nel caso di specie, delle scritture e fatture sottoposte a sequestro)(1).

Va a tale riguardo rammentato che il transito delle informazioni acquisite (generalmente dalla P.G.) dall’ambito penale a quello del procedimento tributario di accertamento può avvenire, previa autorizzazione dell’A.G. inquirente (anche in deroga all’art. 329, c.p.p.) in relazione alle norme poste a tutela del segreto istruttorio (articoli 33, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973, e 63, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972). Giacché l’art. 7 sopra richiamato «parifica» nella sostanza i poteri istruttorii delle Commissioni tributarie a quelli degli uffici, non vi sarebbero state dunque preclusioni relativamente alla possibilità di chiedere e acquisire – nel caso di specie – la documentazione «di provenienza penale».

Il principio del doppio binario

Il D.Lgs. 10.3.2000, n. 74, ha confermato il principio della piena e reciproca autonomia (cd principio del «doppio binario») tra il procedimento penale, da un lato, e il processo tributario e il procedimento amministrativo di accertamento, dall’altro, escludendo qualsiasi rapporto di pregiudizialità.

Ciò vale ad affermare, secondo la circolare ministeriale 4.8.2000, n. 154/E/2000/144444, che l’attività di accertamento degli uffici e i processi in seno alle commissioni tributarie proseguono il loro cammino anche nelle ipotesi in cui sia in corso un procedimento penale avente a oggetto i medesimi fatti.

Il regime del «doppio binario» presenta il duplice vantaggio di evitare un’eccessiva dilatazione dei tempi delle decisioni e di rispettare le differenze, sul piano probatorio, tra l’ambito penale e quello amministrativo.

Per quanto attiene ai possibili riflessi «esterni» delle decisioni del giudice penale, risultano applicabili le disposizioni ordinarie relative all’efficacia del giudicato penale e, in particolare, l’art. 654 c.p.p..

In base a tale norma, se i fatti materiali posti alla base della pretesa tributaria sono stati ritenuti rilevanti ai fini della sua decisione dal giudice penale e sempre che l’accertamento dei fatti operato dallo stesso giudice penale non si ponga in contrasto con le norme sulla prova tributaria(2), la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione ha efficacia di giudicato nei confronti dell’imputato e della parte civile.

Secondo le precisazioni fornite dalla prassi interpretativa ufficiale, in presenza delle condizioni richieste dalla norma (mancanza di vincoli probatori) il giudicato penale nei confronti del contribuente-imputato farebbe sempre stato, anche quando l’amministrazione non avesse partecipato al processo penale.

Nei confronti dell’Erario, però, il giudicato penale fa stato solamente se questo si è costituito parte civile.

Se il contribuente con il quale si è instaurata la lite fiscale è un soggetto diverso da quello imputato nel processo penale (ciò che potrebbe accadere, ad esempio, in presenza di una società e della persona fisica amministratrice di questa), il giudicato penale non fa stato nei confronti del contribuente.

La norma non dice nulla riguardo alla possibilità per il giudice del processo tributario di qualificare autonomamente i fatti materiali accertati nel processo penale(3); tuttavia, sulla base delle conclusioni raggiunte in sede giurisprudenziale e della lettura contestuale delle norme, sembra possibile affermare che tali fatti possano transitare nel processo tributario solamente a seguito di un’autonoma valutazione, salvo che le limitazioni probatorie non incidano proprio sulla conoscenza dei fatti esaminati.

Il confronto tra l’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000 e l’art. 39 del D.Lgs. n. 546/1992

Il processo è sospeso quando è presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio.

Secondo quanto è stato puntualizzato nella circolare ministeriale 23.4.1996, n. 98/E/II-3-1011, la sospensione del processo è possibile solo in presenza delle ipotesi tassative previste dalla norma (querela di falso e questioni di stato e capacità della persona), che rientrano nella competenza esclusiva del giudice ordinario.

È a tale riguardo rammentato che la querela di falso è una domanda giudiziale che viene rivolta, ai sensi dell’art. 221 del c.p.c., al Tribunale, per accertare la falsità di un documento che la controparte intende utilizzare in un determinato processo. Non costituisce invece causa di sospensione del processo tributario una questione pregiudiziale sulla capacità di stare in giudizio delle persone, autonomamente decisa dalla Commissione tributaria e il cui accertamento negativo provoca l’interruzione del processo.

Si ha invece la sospensione necessaria del processo nel caso della rimessione alla Corte Costituzionale di una questione di legittimità costituzionale di una norma che assuma rilevanza nel giudizio tributario, e nei casi di regolamento preventivo di giurisdizione o di proposizione di ricorso per ricusazione del giudice ai sensi dell’art. 52 del c.p.c..

La causa di sospensione viene meno quando sia passata in giudicato la sentenza del giudice civile che decide sulla querela di falso, o quella che definisce la controversia sullo stato o sulla capacità delle persone.

Per quanto è invece affermato dall’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000, “il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”.

Tale disposizione normativa chiude, inequivocabilmente, la questione relativa alla possibilità di sospendere il processo tributario in pendenza di quello penale, garantendo il corretto funzionamento dei principi in base ai quali uno dei due processi/giudizi non può condizionare l’altro, ma deve «generare» al proprio interno la soluzione.

Si pongono peraltro, a tale riguardo, dei problemi di reciproca interferenza tra «giudicati», atteso che:

  • a determinate condizioni, riguardanti il regime delle prove, il giudicato penale fa stato nei processi non penali, ai sensi dell’art. 654 c.p.p. In particolare, per quanto attiene al processo tributario, occorre tuttavia guardare all’esclusione del giuramento e della prova testimoniale (art. 7, quarto comma, D.Lgs. n. 546/1992), ossia a un diverso regime probatorio a causa del quale il giudicato penale diviene un semplice elemento liberamente valutabile dal giudice tributario;

  • il giudicato tributario non fa stato nel processo civile e penale, in considerazione – per l’appunto – del più ampio regime probatorio che caratterizza tali giudizi(4).

Considerazioni di sintesi

Come sopra accennato, la vicenda penale e quella tributaria sorgono, tipicamente, da un’unica «fonte», che può essere quella penale (indagine di P.G. e successiva trasmissione/acquisizione degli atti per il loro utilizzo nell’accertamento tributario), ovvero quella tributaria (attività di polizia tributaria e contestuale notizia di reato all’A.G.(5).

Ancorché la diversità intrinseca tra i due processi raccomandi la loro separazione, è evidente che una medesima vicenda sostanziale (ad esempio, l’evasione di imposte) non dovrebbe condurre a due pronunce divergenti: è vero però che la «verità processuale» (la cui formazione avviene mediante il confronto tra le parti) può non coincidere con quella sostanziale, e per tale ragione il giudice ha un’ampia e autonoma facoltà di acquisizione e valutazione di prove, ed esiste inoltre la possibilità di appellare le sentenze.

La reciproca e «programmatica» non interferenza tra i processi è presidiata dall’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000, e raccomanda implicitamente la soluzione sopra adombrata, ossia, nell’alveo giurisdizionale tributario, la «semplice» acquisizione dei documenti necessarii da parte del giudice di merito.

Note

1) Cfr. A. Cissello, «La Consulta ribadisce l’autonomia tra processo penale e tributario», Il quotidiano del commercialista – 25.11.2010.

2) Si rammenta che, ai sensi dell’art. 7, c. 4, del D.Lgs. 31.12.1992, 546, il processo tributario non ammette il giuramento e la prova testimoniale.

3) Cfr. sul punto la circolare ministeriale n. 154/E del 4.8.2000 (par. 5.2).

4) Cfr. G. Ingrao, «La rilevanza del giudicato nel processo tributario», Rassegna Tributaria n. 6, novembre-dicembre 2006, p. 1954.

5) a notizia di reato è la modalità mediante la quale la polizia tributaria (G.d.F. o ufficio tributario) – ove rilevi nell’esercizio delle proprie funzioni amministrative la presenza di violazioni costituenti reato – comunica tale circostanza «senza ritardo» all’A.G. (in attuazione di uno specifico obbligo sancito dall’art. 347 del c.p.p.).

21 dicembre 2010

Fabio Carrirolo