Studi di Settore e l'avverbio "fondatamente"

un’interpretazione giurisprudenziale di come il Fisco deve correttamente motivare un accertamento basato sugli studi di settore

Con sentenza n. 217 del 22 novembre 2010 (ud. del 9 novembre 2010) della CTP di Reggio Emilia, Sez. I – i giudici emiliani hanno focalizzato la loro attenzione sugli studi di settore, ed in particolare sul significato dell’avverbio “fondatamente”, per cui le gravi incongruenze devono sussistere non già tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore ma tra i ricavi dichiarati e quelli “fondatamente” desumibili dagli studi di settore.

Resta fermo che resta a carico dell’Agenzia delle Entrate, prima di procedere al raffronto con i ricavi dichiarati, verificare che i risultati degli studi di settore siano “fondati” nei confronti del contribuente.

 

Il cuore delle sentenza emiliana

Si legge nella sentenza dei giudici emiliani che “questo Giudice è ben a conoscenza dell’importante arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – Sent. 26635 del 18/12/2009 la cui massima così recita”:

“la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravita, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.

In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impostore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte.

In tal caso, però, egli assume le conseguenze di quel suo comportamento, in guanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”.

Alla luce del suddetto principio di diritto, oggettivamente, la sequenza procedimentale, così come descritta anche nella sentenza sopra citata, determina che “se è vero che l’Ufficio formalmente all’inizio riveste il ruolo d’attore sul quale grava l’onere della prova, il contraddittorio con il contribuente finisce poi con il far assumere a quest’ultimo il ruolo di attore in senso sostanziale perché proprio il contribuente viene gravato dalla necessità di provare e giustificare il perché degli scostamenti rilevati dall’Ufficio attraverso l’applicazione degli studi di settore”.

 

L’avverbio fondatamente

La norma, per legittimare l’accertamento mediante studi di settore, richiede che i ricavi dichiarati risultino genericamente incongrui rispetto a quelli “fondatamente desumibili da tali studi”.

L’avverbio “fondatamente” rispetto all’iter procedimentale come delineato dalla Suprema Corte “sembra non stia ad indicare la necessità di supportare l’atto di accertamento con altri riscontri oggettivi o elementi di prova per giustificare l’applicazione dello studio, ma costituisce un invito agli Uffici ad accertare ed escludere, prima di ricorrere all’applicazione degli studi di settore, che non vi siano altri fatti, circostanze, quali ad esempio malattie, infezioni, infortuni, provvedimenti di sospensione dell’attività che automaticamente ne escludono la valenza e/o il fondamento nella fattispecie presa da loro in esame.”

In altre parole, osservano i giudici emiliani,

“l’applicazione pratica del principio di diritto affermato dalla sentenza n. 26635/2008 porta, di fatto, ad invertire l’onere della prova addebitandolo al Ricorrente, senza che di questa inversione se ne trovi traccia nella norma: ma, se questa conclusione è la conseguenza logica e, dunque, necessitata, del suddetto principio, ne consegue che lo stesso non appare compiutamente conforme alla legge e allora, non può essere applicato”.

Invero il “vizio” del suddetto principio consiste nel non avere correttamente, valorizzato la portata ermeneutica dell’avverbio “fondatamente”.

A tutto ciò consegue che va pertanto riaffermata, in questa sede l’interpretazione che dell’art. 62 sexies D.L. 331/1993.

Detta norma recita, per la parte che qui interessa, che: “Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 29-9-1973, n.600 possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto”.

Il Legislatore ha disposto, dunque, che la tipologia degli accertamenti prima richiamati possa basarsi anche, sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli “studi di settore”.

La lettura che ne discende, secondo i giudici emiliani, è la seguente: “il Legislatore non si è accontentato che le gravi incongruenze siano, tout-court, semplicemente, desumibili dagli stessi ma richiede, specificatamente, che lo siano fondatamente: vale a dire il Legislatore vuole che le gravi incongruenze, che legittimano gli accertamenti basati sugli studi di settore, conseguano alla comparazione non tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, ma tra i primi e quelli fondatamente desumibili dagli studi stessi; in altri termini il legislatore condiziona la legittimità degli accertamenti basati sugli studi di settore al fatto che i ricavi, i compensi, i corrispettivi desumibili dagli stessi lo siano fondatamente”:

  • con scarsa probabilità di errore, in modo cioè, praticamente, certo;

  • l’ammontare dei ricavi, compensi corrispettivi desumibili dallo studio di settore non è, cioè ritenuto dal legislatore, legittimamente comparabile con quello dichiarato dal contribuente onde originare le gravi incongruenze di cui parla la norma: la legittimità esiste solo nel caso in cui gli stessi siano desumibili fondatamente;

  • il legislatore non si fida del semplice risultato matematico-statistico, ma vuole qualcosa di più: richiede che i risultati dello stesso siano supportati, avvalorati “aliunde”: richiede, in buona sostanza, che gli stessi non vengano “passivamente accettati ma criticamente valutati calandoli nella realtà d’impresa specifica in esame”;

  • i risultati desumibili dallo studio di settore sono cioè, un semplice elemento indiziario la cui fondatezza deve rimanere verificata indagando la realtà della fattispecie in esame; in pratica dovrà essere verificato se in questa siano identificabili elementi, sia di natura contabile (i.e.: resa produttiva), che di natura extracontabile (i.e. appunti, documenti, risultanze bancarie, risultanze di controlli incrociati) che consentano una ricostruzione, induttiva, del volume d’affari che concordi, sostanzialmente, con quello desumibile dallo studio di settore rendendolo, cosi, fondatamente desumibile dallo stesso, per poi procedere alla comparazione con quello dichiarato dall’imprenditore onde verificare se tra i due sussistano quelle gravi incongruenze, che sono l’ulteriore condizione necessaria per legittimare questo tipo di accertamento; senza questa attività diciamo di verifica, che lo confermi che fondi il risultato dello studio di settore, per tramutarlo, in buona sostanza, in quel tipo di presunzione grave precisa e concordante, richiesta dal cit. art. 39, il semplice risultato, “matematico-statistico”, dello “studio di settore” non rende legittimo questo tipo di accertamento.

 

La sentenza, peraltro, evidenzia “come questo tipo di verifica sia totalmente a carico dell’Agenzia a cui incombe, compiutamente, l’onus probandi”.

 

La controprova

La controprova della fondatezza di queste conclusioni, i giudici emiliani la rinvengono proprio nella lettura della norma “ex adverso”, ipotizzando che la norma fosse stata scritta senza l’inserimento dell’avverbio “fondatamente”.

La stessa, quindi, reciterebbe così: “Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 29-9-1973, n. 600 possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli … desumibili … dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto”.

Osservano i giudici emiliani che “giocoforza l’interprete sarebbe dovuto pervenire a valutare il risultato degli studi come avente in sé, se non una compiuta quanto meno una “forte” valenza probatoria; da evidenziare a comprova di quanto scritto prima in ordine al principio di diritto affermato dalla sentenza Cass. 26635/2009,che lo stesso manterrebbe intatta la sua portata anche in presenza del testo dell’art. 62-sexies come sopra ipoteticamente emendato; in conclusione solo la corretta valorizzazione dell’avverbio “fondatamente”, nel senso visto prima porta ad una corretta interpretazione della norma”.

 

Gli altri elementi a supporto

Gli “altri elementi”, indicati dall’Agenzia in sede di motivazione dell’atto impugnato, con cui “fondatamente” supportare la valenza statistica dello studio di settore, non hanno – per i giudici emiliani – certo quella forza probatoria che la Stessa loro attribuisce; “invero la considerazione che – per tutti gli anni d’imposta dal 2001 al 2006 il Ricorrente non risulti mai “congruo” non ha alcuna valenza logica poiché da per provato ciò che invece è da provare (perché non è congruo? c’è stato del “nero”? cosa lo comprova?); – abbia a suo “carico” il 50% di due figli è un dato “muto”, non quantificato, che, dunque, non significa niente che non ha inoltre alcuna attinenza logica con la materia del contendere non vertendosi in una tipologia di accertamento sintetico; – di avere “in carico” un dipendente per cui sostenga una spesa per lavoro dipendente pari quasi al triplo del reddito dichiarato di per sé non significa niente trovandosi l’impresa ad operare in una nota e conclamata crisi del settore che ne ha radicalmente ridotto la marginalità”.

 

Le conclusioni

Da tutto ciò ne consegue, per i giudici di prime cure, che basandosi l’accertamento impugnato sulla semplice, “nuda” risultanza dello studio di settore, senza, cioè, l’apporto di altri elementi che lo rendano “fondatato”, l’avviso è stato dichiarato illegittimo e,dunque, annullato.

 

24 dicembre 2010

Roberta De Marchi