La legittimità dell'attività di accertamento

partendo da un caso di giurisprudenza, un’analisi delle potestà accertative del Fisco nei confronti del contribuente

Con sentenza n. 24333 dell’1 dicembre 2010 (ud. del 10 novembre 2010) la Corte di Cassazione ha toccato tutta una serie di problematiche relative all’attività di accertamento:

  • motivazione per relationem e vaglio critico;

  • legittimità dell’accertamento induttivo;

  • il valore indiziario delle dichiarazioni;

  • le valutazioni di merito.

Dopo aver ripercorso l’iter processuale, esaminiamo punto per punto, le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione.

Il processo

In data 28 agosto 2000 l’Ufficio delle Entrate di Forlì notificava alla N. s.r.l. in liquidazione un avviso di accertamento rettificando il reddito di impresa dichiarato per il 1994.

L’avviso in questione si fondava sulle risultanze di due processi verbali della Guardia di Finanza, in esito ad una verifica generale cui era stata sottoposta la società.

Nell’ambito di indagini penali era emerso che la N. era fra le imprese che avevano partecipato a frodi fiscali nell’acquisto di materiali telefonici di provenienza estera attraverso transazioni commerciali con l’interposizione di imprese di comodo. Infatti, le merci venivano acquistate da fornitori della Repubblica di San Marino o da paesi dell’U.E. e fatturate a società di comodo, le quali emettevano fatture nei confronti degli acquirenti nazionali senza alcun ricarico, anzi indicando un imponibile inferiore rispetto al prezzo di acquisto con l’aggiunta dell’IVA che non versavano all’Erario. Inoltre, a carico della contribuente, oltre alla contabilizzazione di fatture soggettivamente false provenienti da società di comodo, era stata accertata una sovrafatturazione di somme versate a titolo di sponsorizzazioni alla P.E.”.

Avverso l’avviso di accertamento la N. s.r.l. presentava ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Forlì, la quale lo accoglieva parzialmente, escludendo la sovrafatturazione delle spese di sponsorizzazioni.

Proponevano appello principale la contribuente ed appello incidentale l’Agenzia delle Entrate di Forlì, ribadendo le rispettive tesi esposte in primo grado.

La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna rigettava il gravame della contribuente ed accoglieva quello dell’Agenzia.

Avverso la detta sentenza la N. s.r.l. ha quindi proposto ricorso per cassazione.

I motivi della decisione

Motivazione per relationem e vaglio critico

La prima doglianza svolta dalla ricorrente si fonda sulla considerazione che la CTR avrebbe errato quando ha escluso che “l’ente impositore sia incorso in un difetto di motivazione per acritico recepimento delle segnalazioni dell’organo di Polizia Tributaria“. Ed invero, la Commissione avrebbe trascurato – così continua la ricorrente – che l’ente impositore non aveva ritenuto nè di procurarsi nè di sottoporre ad adeguato vaglio gli atti del procedimento penale, preferendo appiattirsi sulle valutazioni dell’organo di Polizia tributaria che li aveva indicati come esistenti nel proprio processo verbale.

Inoltre, la CTR avrebbe altresì errato quando, a fronte della censura formulata nell’appello, ha ritenuto che l’omessa allegazione degli atti dell’indagine penale, dai quali sarebbe risultato il coinvolgimento nella presunta frode, non avrebbe pregiudicato l’esercizio del diritto di difesa della contribuente. Nè la Commissione ha inteso spiegare con motivazione adeguata le ragioni per le quali a suo avviso la mancata allegazione dei detti documenti non avrebbe arrecato alcun pregiudizio alla medesima.

La Corte premette che la prima ragione di doglianza risulta infondata alla luce della considerazione della controricorrente Agenzia, la quale evidenzia come il rilievo, riguardante il preteso recepimento acritico della segnalazione della P.T. risulti smentito dalla circostanza che “se l’Ufficio avesse recepito il p.v. tout court avrebbe ripreso i costi di L. 26.276.363.357 così come segnalato al foglio 6/7 del p.v. 13.5.99“, cosa questa non avvenuta a prova del fatto che l’Ufficio non ebbe a seguire nel proprio iter accertativo le segnalazioni della G. di F. acriticamente.

Inoltre, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “la motivazione degli atti di accertamento per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. (Cass. nn. 10205/03, 8690/02, 2780/01)”.

Ed ancora, in assenza di argomenti di segno contrario, il Collegio aderisce in tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributari – L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, c. 1 -, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, “non intende certo riferirsi ad atti di cui il contribuente abbia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione; infatti, un’interpretazione puramente formalistica si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause d’invalidità o d’inammissibilità chiaramente irragionevoli. (Cass. n. 18073/08)”.

La premessa torna utile in quanto, nel caso specie, i due p.v.c. in questione erano stati sottoscritti dal rappresentante legale della N. s.r.l. che ne aveva ricevuto copia con gli allegati. Dagli stessi risultavano tutti i documenti che avevano consentito all’organo verificatore prima e a quello accertatore poi di rilevare l’inesistenza soggettiva delle fatture contabilizzate.

La Corte aggiunge che la Commissione di seconde cure con una precisa valutazione di merito, che in quanto tale si sottrae al sindacato di legittimità di questa Corte, ha ritenuto che nell’atto emesso sono stati diffusamente precisati i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno legittimato e che le indicazioni contenute nel p.v.c. sono state puntuali e dettagliate. Ne deriva senza ombra di dubbio che la contribuente fu pertanto posta nella condizione di poter esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, onde l’infondatezza della ragione di doglianza in esame.

La legittimità dell’accertamento induttivo

Passando all’esame del terzo motivo di impugnazione, articolato sotto il profilo della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, c. 2, lett. d), nonchè della motivazione insufficiente e contraddittoria, la ricorrente, lamentando l’insussistenza delle condizioni dell’accertamento induttivo del reddito, ha sottolineato che la presunta sovrafatturazione, negata nella sua materialità dal primo giudice e non richiamata dall’Ufficio nel proprio appello “sarebbe stata espunta dal presente giudizio” e che il suo presunto coinvolgimento nella frode IVA non avrebbe potuto consentire all’Ufficio “di accedere a una determinazione induttiva – extracontabile del reddito, per la mancanza di un nesso di pertinenza con il presupposto d’imposta oggetto di accertamento“, in quanto la disponibilità derivante dal’evasione IVA non può essere sottoposta a tassazione una seconda volta sotto forma di maggior reddito di impresa non dichiarato, sia pure induttivamente determinato.

Premesso che l’Agenzia nel suo appello incidentale, come emerge dalla lettura della sentenza impugnata, richiamò espressamente le fatture passive emesse dalla contribuente per operazioni di sponsorizzazioni inesistenti, pur riconoscendo che le stesse non avevano concorso alla determinazione del reddito d’impresa per l’anno in discussione, aveva dedotto che tali fatture, così come quelle delle società di comodo, andavano tenute in debita considerazione al fine di “evidenziare le irregolarità delle scritture contabili e quindi la legittimazione a determinare il reddito D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2“.

La Commissione di secondo grado, dopo aver dato conferma che l’importo indicato in dette fatture, effettivamente, non era stato ripreso ad imposizione, accoglieva l’impugnazione incidentale dell’Agenzia prendendo in considerazione le stesse fatture sotto un diverso profilo, “vale a dire come elementi indiziari di non poco rilievo che, insieme ad altri debitamente evidenziati nella sentenza, giustificavano l’applicazione del metodo induttivo autorizzando l’Ufficio a disattendere le scritture contabili e a determinare induttivamente il reddito della società sulla base dei ricavi dichiarati (cfr pag. 6 della sentenza di secondo grado)”.

Nè rileva in senso contrario l’assunto della ricorrente, secondo cui “la disponibilità derivante dal’evasione IVA non può essere sottoposta a tassazione una seconda volta sotto forma di maggior reddito di impresa non dichiarato“, trattandosi con tutta evidenza di un argomento che non è in relazione con il percorso decisionale assunto dai giudici di seconde cure, i quali si sono limitati a prendere in considerazione le dette fatture al solo fine di evidenziare l’irregolarità delle scritture contabili della contribuente.

A riguardo, viene sottolineato il principio di diritto già pronunciato precedentemente in altre pronunce della Corte, “secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’inattendibilità complessiva delle scritture contabili, determinata da omissione, falsità, o inesattezza nella loro tenuta, legittima l’ufficio tributario all’accertamento induttivo del reddito imponibile, basato su presunzioni anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cass. n. 6086/09)”.

Il valore indiziario delle dichiarazioni

La ricorrente lamenta che il giudice di appello, dopo aver correttamente attribuito valore indiziario alle dichiarazioni dei responsabili delle società filtro, non ne ha tratto le dovute conseguenze in ordine alla necessità che la sentenza trovasse fondamento in ulteriori riscontri, non avendo tali dichiarazioni efficacia di prova. Inoltre, il giudice di secondo grado non avrebbe distinto tra processi verbali redatti nei confronti della società e verbali redatti nei confronti di terzi, trascurando che questi non possono costituire prova nei confronti di contribuenti, formalmente estranei a quell’attività di accertamento.

Per la Corte di Cassazione anche tale censura non merita di essere condivisa. “A riguardo, si deve premettere che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, prevede che, in deroga alla disposizioni che consentono all’ufficio in fase di accertamento di apportare modifiche a singole poste, l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lett. d), del comma precedente quando venga constatata un’inattendibilità globale delle scritture. In armonia con tale assetto normativo ed in mancanza di qualsiasi divieto di legge, il giudice tributario può a sua volta utilizzare anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o anche altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trame non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova, se essa sia stata predisposta in relazione ad un giudizio avente ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i processi”.

Tale premessa torna utile nella misura in cui evidenzia come debba allora ritenersi esente da censure la considerazione, posta dalla CTR a base della decisione impugnata, “quando ha statuito che i verbali riguardanti le società, che avevano interposto la loro intermediazione negli acquisti della contribuente, costituiscono elementi di prova su cui fondare il proprio convincimento. E ciò, tanto più ove si consideri che il Tribunale di Torino, in esito al procedimento penale nei confronti della rappresentante legale della contribuente, chiamata a rispondere di concorso nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, dichiarò non luogo a procedere solo perche la sua condotta, come quella del precedente amministratore e liquidatore, non era più prevista dalla legge come reato, ferma restando però la circostanza che si fosse comunque avvalsa delle dette fatture, (cfr pag. 6 della sentenza di secondo grado)”.

Le valutazioni di merito

La ricorrente lamenta l’erronea utilizzazione, da parte dell’Ufficio, delle percentuali di ricarico per la determinazione del reddito non dichiarato, perchè il numero ristretto degli operatori assunti come termine di confronto (due) priva i dati ricavati dal loro conto economico dei caratteri di esemplarità e rilevanza necessari a sostenere il calcolo del ricarico medio del settore. Inoltre, il procedimento seguito dall’Ufficio sarebbe errato per l’adozione di dati relativi a grandi aggregati economici e non a dati omogenei per singoli prodotti, per l’applicazione delle percentuali di ricarico ottenute ai ricavi e non ai costi.

Anche quest’ultima censura non viene ritenuta ammissibile per un duplice ordine di considerazioni.

In primo luogo, come risulta dalla lettura della sentenza di secondo grado, “la Commissione di seconde cure, dopo aver premesso che l’Ufficio ai fini della determinazione del reddito di impresa non aveva affatto utilizzato il metodo analitico a costi e ricavi bensì il diverso metodo induttivo previa applicazione di un coefficiente di redditività ai ricavi, aveva disatteso la censura formulata dall’appellante e valutato corretto ed equo il coefficiente adottato dall’Ufficio. Ciò posto, appare evidente come la censura proposta eluda il punto nodale della pronunzia e non sia correlata con la ratio decidendi della decisione impugnata difettando della necessaria specificità, attesa la non riferibilità della censura alla sentenza d’appello impugnata”.

In secondo luogo, “l’inammissibilità deriva dal fatto che parte ricorrente avanza, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto. E sul punto, non è superfluo rilevare che la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice di merito, per cui deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze”.

23 dicembre 2010

Francesco Buetto