L'onere della prova in materia di studi di settore – seconda parte

proseguiamo l’analisi della valenza probatoria degli studi di settore e delle possibilità per i contribuenti di opporsi alle loro risultanze

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La circolare n. 19/E del 2010

L’Agenzia delle entrate ha fornito agli uffici, nella circolare n. 19/E del 2010, i chiarimenti per la gestione del contenzioso pendente in materia di accertamenti basati sulle risultanze degli studi di settore, alla luce delle richiamate sentenze delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

L’Agenzia ha, innanzitutto, ricordato che la centralità del contraddittorio è stata più volte sottolineata nei propri documenti di prassi (circolari: n. 21/E del 2004, punti 3 e 7; nn. 31/E e 38/E del 2007; n. 5/E del 2008, punto 3) e che la Cassazione ha sottolineato che è onere del contribuente fornire , “in contraddittorio, i propri chiarimenti e gli elementi giustificativi del rilevato scostamento o dell’inapplicabilità nella specie dello standard”.

Ha, quindi, rilevato che, “dai principi affermati dalle sezioni unite della Suprema Corte è possibile dedurre che:

– il contraddittorio consente all’Ufficio di commisurare alla concreta realtà

economica del contribuente la presunzione indotta dallo scostamento rilevato;

– l’Ufficio ha l’obbligo di invitare il contribuente, “nel rispetto delle regole del giusto procedimento e del principio di cooperazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, a fornire, in contraddittorio, i propri chiarimenti”;

la mancata attivazione del contraddittorio comporta l’assenza di un elemento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa.

Devono ritenersi viziati pertanto gli avvisi di accertamento basati sugli studi di settore applicati senza che sia stata attivata la fase del contraddittorio con il contribuente. In presenza di tale omissione, puntualmente rilevata dal contribuente nel corso del giudizio di prime cure, gli uffici ometteranno di coltivare le controversie. In ogni caso occorre considerare, infatti, che in materia di contenzioso tributario, la nullità dell’avviso di accertamento non è rilevabile d’ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile, qualora venga proposta per la prima volta nelle successive fasi del giudizio” (Cass. n. 37312 del 27 marzo 1993)”.

Gli uffici sono stati, pertanto, invitati a riesaminare le controversie pendenti e ad abbandonare la pretesa tributaria in presenza di avvisi di accertamento basati sulle risultanze degli studi di settore, nei casi in cui non sia stata attivata la fase del contraddittorio (nei casi diversi da quelli di inerzia del contribuente), sempre che la pretesa non sia comunque sostenibile.

L’Agenzia ha, inoltre, precisato che il principio dell’obbligatorietà dell’instaurazione della fase del contraddittorio con il contribuente, a pena di nullità dell’atto, produce effetti anche sulla motivazione dell’avviso di accertamento.

E’ stato ricordato che l’obbligo della circostanziata motivazione dell’atto di accertamento, dando conto, come richiesto dalla Cassazione, delle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio (secondo le stesse disposizioni che regolano il procedimento di accertamento con adesione), è stato affermato “in diversi documenti di prassi amministrativa (ex-multiis, circolari 28 giugno 2001, n. 65/E; 27 giugno 2002 n. 58/E; 7 giugno 2004, n. 21/E)”.

La mancata indicazione delle ragioni per le quali sono stati disattesi i puntuali rilievi del contribuente, non configura, però, a parere dell’Agenzia, “una carenza di motivazione dell’atto stesso quando tali ragioni sono comunque state esplicitate dall’ufficio in sede di contraddittorio e riportate nel relativo verbale ovvero siano comunque desumibili dal medesimo verbale, consegnato al contribuente e quindi da questi conosciuto”.

Ciò in quanto l’obbligo di indicare nella motivazione dell’atto delle ragioni per le quali si è ritenuto di non aderire ai rilievi forniti dal contribuente risponde “alle esigenze di realizzazione del giusto procedimento anche nella fase di accertamento della pretesa tributaria, più che alla necessità di dover riproporre nel medesimo atto impositivo gli elementi necessari per poter esplicare il proprio diritto di difesa, quand’essi siano già noti al contribuente”.

In merito a tale ultima affermazione è stato osservato(1) che la stessa non risulterebbe corretta “alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sulla motivazione degli atti impositivi, nonché degli stessi principi affermati dalla Corte di cassazione. Quest’ultima, infatti, si era già espressa nel senso della necessità di riportare nell’atto le ragioni del contribuente emerse nel contraddittorio con la sentenza n. 4626/2008”. Tale osservazione è stata condivisa dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro ha rilevato, nel parere n. 17 del 10 giugno 2010.

Nella circolare n. 19/E del 2010 è stato affrontato anche il caso in cui, a seguito dell’invito al contraddittorio, il contribuente sia rimasto inerte, precisando che in tale ipotesi la motivazione dell’atto può basarsi unicamente sull’applicazione dello studio di settore, con riferimento allo standard applicato, dovendosi ritenere sussistenti i requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui agli articoli 39, comma 1, lettera d), e 54, rispettivamente del DPR n. 600 del 1973 e del DPR n. 633 del 1972.

E’ stato, pertanto, raccomandato agli uffici di “segnalare al giudice il comportamento tenuto dal contribuente, perché possa liberamente apprezzarlo quale argomento di prova ai sensi dell’articolo 116 del codice di procedura civile. Tra l’altro, la mancata risposta all’invito potrà costituire motivo idoneo a giustificare la compensazione delle spese del giudizio, in caso di soccombenza dell’Agenzia”.

In merito, infine, all’onere della prova in giudizio, l’Agenzia ha rilevato che le Sezioni Unite hanno inteso sottolineare come, per effetto ed in esito alla fase endoprocedimentale del contraddittorio con il contribuente, le presunzioni su cui si basano gli studi di settore acquistano il carattere della gravità, precisione e concordanza che possono di per sé stesse giustificare e sostenere la pretesa impositiva; “di contro, la mancata risposta, da parte del contribuente, all’invito al contraddittorio costituisce elemento indiziario convergente a supportare la corrispondenza a realtà dell’accertamento”.

Al riguardo è stato osservato(2) che “la controprova da parte del contribuente va data in giudizio solamente quando l’ufficio ha assolto il suo onere probatorio”. Anche la Fondazione studi dei consulenti del lavoro ha rilevato, nel citato parere n. 17, che “l’ufficio, anche nell’ipotesi in cui il contribuente non si presenti al contraddittorio, ha comunque l’onere, sulla base degli elementi a propria disposizione, di verificare e provare che le risultanze dello studio di settore sono coerenti in relazione alla specifica situazione del contribuente”.

E’ stato, infine, osservato che gli elementi giustificativi del rilevato scostamento o dell’inapplicabilità dello standard – dei quali è onere del contribuente fornire l’esistenza nella fase endoprocedimentale del contraddittorio – rappresentano altrettante eccezioni alla pretesa tributaria, avendo la Cassazione ha affermato che innanzi al giudice tributario il contribuente potrà proporre ogni eccezione (e prova) che ritenga utile alla sua difesa, senza essere vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo, e anche nel caso in cui egli all’invito al contraddittorio non abbia risposto, restando inerte.

Tuttavia, ai sensi dell’art. 57 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, “detti rilievi, rectius eccezioni, se non sono stati sollevati nel primo grado di giudizio, restano preclusi nel grado di appello, ferma restando la più ampia facoltà di prova – in relazione alla sussistenza di tali eccezioni/rilievi – riconosciuta al contribuente, anche a mezzo di presunzioni semplici. Infatti, nel processo tributario le eccezioni, vale a dire “lo strumento processuale con il quale si faccia valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa od estintiva della pretesa fiscale” (cfr. Cass. n. 22010 del 13 ottobre 2006; n. 10112 dell’11 luglio 2002), se non sono rilevabili d’ufficio, non possono essere proposte per la prima volta in appello”.

Anche in altre occasioni(3) l’Agenzia delle entrate ha confermato la necessità che “la presunzione di evasione dei ricavi e dei compensi, basata sulle risultanze degli studi di settore, sia confermata anche da altri dati ed elementi in possesso dell’Amministrazione” e ha ricordato di aver inviato agli uffici “un prontuario, di supporto all’attività di analisi e selezione, che contiene una serie di elementi, aggiuntivi rispetto alle risultanze di gerico, per valutare più attentamente la posizione del contribuente e motivare in modo più dettagliato ed esaustivo l’atto di adesione”. La stessa Agenzia ha, inoltre, sottolineato che:

  • in una grande organizzazione possono esistere delle eccezioni, che potranno essere individuate ed eliminate anche grazie a segnalazioni puntuali da parte di consulenti e professionisti;

  • la migliorata qualità degli accertamenti è confermata dai dati relativi al primo semestre del 2010, che confermano, a fronte della riduzione dei controlli basati sugli studi di settore, “il trend di crescita della maggiore imposta media accertata (che è passata da 8.300 euro dei primi sei mesi del 2009 a 9.600 euro dello stesso periodo del 2010) e di quella definita (da 3.900 a 4.500 euro). Migliora anche il numero di accertamenti che vengono definiti con l’adesione da parte del contribuente: dal 51%, registrato nel primo semestre del 2009, al 59% del 2010”.

 

La successiva giurisprudenza della Cassazione

I principi affermati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione sono stati richiamati e confermati nelle successive sentenze della stessa Corte, concernenti l’obbligo del contraddittorio e della motivazione dell’accertamento, nonchè l’onere del contribuente di fornire la prova contraria.

Nell’ordinanza del 16 settembre 2010, n. 19609, è stato, in particolare, affermato che se gli studi di settore “sono contestati sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare l’accertamento…, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa che devono essere provati e non semplicemente enunciati nella motivazione dell’accertamento”. Nell’ordinanza n. 15905 del 6 luglio 2010 è stato ribadito che è legittimo l’avviso di accertamento basato sui parametri se il contribuente non adempie al proprio onere probatorio dando conto delle motivazioni che giustificano la non applicabilità del detto strumento(4).

La Cassazione ha, altresì, negato, nella ordinanza n. 18941 del 31 agosto 2010, la legittimità di un accertamento “esclusivamente fondato su dati parametrici ricavati da studio di settore specificamente contestati dai contribuenti e non altrimenti asseverati dall’Agenzia e peraltro … in assenza di preventivo contraddittorio”. Ad analoghe conclusioni la Corte è pervenuta:

  • nella ordinanza n. 15909 del 6 luglio 2010, che ha ritenuto illegittimo un accertamento motivato sulla base del solo scostamento dalle risultanze dello studio di settore, senza che siano state fornite valutazioni in merito alle osservazioni formulate dal contribuente;

  • nella ordinanza n. 18227 del 5 agosto 2010, riguardante un accertamento dal quale non era desumibile l’impossibilità di costituire il contraddittorio nonostante il regolare invito del contribuente, “unica ipotesi in cui, secondo la giurisprudenza…, è possibile fondare (e motivare) l’accertamento sulla sola applicazione degli standards”.

 

5.2. La prova contraria

Numerose sentenze della Cassazione hanno preso in esame la problematica relativa alle caratteristiche della prova contraria che è chiamato a fornire il contribuente al quale venga notificato un accertamento che rispetti i principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte, affrontando problematiche concrete, quali quelle relative alla presenza di situazioni di crisi economica, allo svolgimento contemporaneo di attività di lavoro dipendente, alla fase iniziale dell’attività professionale, alla rilevanza degli interventi chirurgici.

La Cassazione ha, innanzitutto, affermato, nella ordinanza n. 14313 del 15 giugno 2010, che è legittimo l’accertamento basato sullo studio di settore se l’ufficio ha provato l’esistenza di gravi incongruenze tra le risultanze dello stesso e i ricavi dichiarati e il contribuente non è stato in grado di fornire la prova contraria.

Nella successiva sentenza n. 16235 del 9 luglio 2010 la stessa Corte ha precisato che gli elementi probatori addotti dal contribuente devono essere specifici e concreti, senza fare riferimento “a generiche argomentazioni prive di qualunque concreta indicazione”. Non è, ad esempio, sufficiente, come chiarito nella sentenza n. 16235 del 9 luglio 2010, fare generico riferimento alla mera applicabilità, nei riguardi degli esercenti arti e professioni, del principio di cassa, ma il contribuente deve indicare in modo specifico gli effetti che tale criterio ha prodotto con riferimento ai compensi dichiarati nell’anno ( dimostrando che i compensi sono stati incassati in un altro periodo o non sono stati ancora percepiti). Tale principio è stato, inoltre, applicato nelle sentenze che hanno preso in esame le concrete casistiche emergenti dalla giurisprudenza di merito, che sono di seguito illustrate.

Con riguardo alle situazioni di crisi economica la Cassazione ha affermato:

  • nella ordinanza n. 18941 del 31 agosto 2010, che è valida la prova fornita dal contribuente della crisi generalizzata del settore(5), non contestata dall’ufficio. Al riguardo è stato correttamente osservato(6) che “gli studi di settore vengono costruiti su dati di annualità pregresse rispetto all’anno di loro applicazione, inoltre l’elaborazione dei rapporti, fra le diverse variabili e l’ammontare di ricavi stimato, risente del contesto economico dell’anno di riferimento. Pertanto, se successivamente all’annualità utilizzata come base dati, il settore è interessato da fenomeni che modificano le relazioni (ad esempio, nei periodi di crisi tendono a ridursi i margini operativi, la manodopera, seppur ancora in forza all’azienda, non viene, pienamente utilizzata, come pure la capacità produttiva degli impianti) fra variabili e ricavi, il risultato dello studio non è attendibile. Peraltro, poiché quella che ha investito il settore tessile è stata una crisi generalizzata – e non una crisi legata alla singola azienda documentabile con specifici fatti – appare evidente che in assenza di particolari correttivi introdotti nello studio di settore, la singola realtà aziendale non poteva essere colta. Tuttavia, si evidenzia che la crisi, come elemento che può giustificare lo scostamento dal risultato parametrico, non dovrebbe essere sufficiente per i periodi d’imposta 2008 e 2009 in quanto, per tali anni – interessati da una crisi generalizzata dell’economia che trasversalmente ha colpito, seppur in maniera differenziata, tutti i settori – sono stati introdotti specifici correttivi in tutti gli studi, al fine di rendere il modello «sensibile» alle intervenute mutate condizioni economiche. Per completezza, nell’ipotesi di singola crisi aziendale si è dell’avviso che il contribuente possa (meglio, debba nel suo interesse), in sede di contraddittorio, portare elementi che corroborino tale situazione, ad esempio: utilizzo di cassa integrazione, ricorso agli enti bilaterali di sostegno al reddito, revoca di affidamenti o richiesta di rientri, riduzione negli acquisti, solleciti di pagamento ricevuti dai fornitori, ecc. Sarà l’Ufficio, se intende resistere nella pretesa, a dover fornire, prima in sede di contraddittorio e poi in sede di accertamento, i motivi per cui non ritiene di dover tener conto degli elementi di valutazione offerti dal contribuente”;

  • nella sentenza n. 19136 del 7 settembre 2010, che la crisi economica rappresenta una situazione di non normale svolgimento dell’attività, che legittima la non applicazione dello studio di settore. La fondazione studi dei consulenti del lavoro ha al riguardo osservato, nel parere n. 10 del 22 settembre 2010, che “il fenomeno della crisi sia da giudicare sussistente in tutte le ipotesi di sospensione dell’attività. Una sospensione che non sia meramente occasionale o programmata…costituisce evidentemente una condizione di non normalità nell’esercizio dell’attività medesima, che giustifica uno scostamento anche sensibile dai risultati parametrici”. Cià in quanto la struttura produttiva il più delle volte è caratterizzata “da elementi di rigidità quali, ad esempio, i beni strumentali, i finanziamenti da terzi, alcune spese di carattere produttivo e non di meno la gestione del personale”. I contribuenti devono a tal fine munirsi di “elementi di prova ineccepibili”: ad esempio, nei casi di “ammissione alle procedure di CIG, CIGS o di licenziamenti collettivi e di mobilità, la situazione di criticità che perfeziona l’ipotesi di esclusione dagli studi di settore è valutata e accertata, nelle opportune sedi, dagli Enti a ciò demandati…Il perfezionamento delle specifiche procedure che passano sotto l’attenta analisi di funzionari ministeriali costituisce prova certa e diretta della sussistenza della crisi”.

Le situazioni che interessano i professionisti che hanno iniziato da pochi anni l’attività sono state prese in considerazione dalle sentenze:

  • n. 19951 del 21 settembre 2010, nella quale è stato affermato, con riguardo al caso di un giovane procuratore legale, che “è palesemente illogico ritenere che sia sufficiente l’apertura della partita IVA perché siano assicurati clienti, ricavi e redditi, così come la predisposizione della propria posizione tributaria non è un indice della produzione di reddito”. La Corte ha, pertanto, ritenuto illogica la motivazione della Commissione di merito, che “ha equiparato l’attività del praticante procuratore legale a quella del procuratore legale od ha ignorato totalmente l’inerzia tipica della fase iniziale dell’attività professionale legale”;

  • n. 20210 del 24 settembre 2010, nella quale è stato esaminato il caso di un esercente la professione di dottore commercialista da appena due anni e senza avvalersi di collaboratori o dipendenti e riconosciuta, in considerazione delle caratteristiche dell’attività, l’inapplicabilità dei parametri.

Con riguardo ai casi dei professionisti che svolgono anche un’attività di lavoro dipendente la Suprema corte ha affermato:

  • nella sentenza n. 16529 del 14 luglio 2010, che è assolutamente carente la motivazione della Commissione di merito che non aveva preso in considerazione le argomentazioni addotte da un architetto che aveva dichiarato di esercitare in via prevalente un’attività di lavoro dipendente come insegnante, dalla quale ritraeva un reddito più alto di quello derivante dall’attività professionale;

  • nella sentenza n. 19957 del 21 settembre 2010, riguardante il caso di un ingegnere che esercitava in via principale l’attività di lavoro dipendente come insegnante, che “rettamente la Commissione ha osservato che il tempo dedicato dal contribuente al lavoro autonomo non incide direttamente sulla determinazione dei ricavi, né il contemporaneo esercizio di due attività può costituire da solo motivo sufficiente per disattendere la conclusioni della Amministrazione Finanziaria. Ciò che rileva, infatti, è la prova, a carico del contribuente in forza della inversione di legge del relativo onere, che il tempo impiegato nello svolgimento della attività di lavoro dipendente incida sulla redditività della attività autonoma, non in astratto come intende il ricorrente, ma in concreto, con esposizioni di orari, tempi di esecuzione di ogni singola prestazione, impegno temporale complessivo della occupazione alternativa, impegni professionali rifiutati od impossibili per carenza di tempo disponibile. In sostanza, la prova di una concreta diminuzione di capacità reddituale della libera professione in forza della duplice attività non è a carico della Amministrazione Finanziaria, ma del contribuente, il quale può adempiere all’onere anche con presunzioni, allegando tuttavia i dati necessari a sostegno dell’assunto. Tale onere a giudizio della commissione non è stato assolto dal contribuente, il quale ha perfino omesso di esporre il tempo in concreto dedicato alla attività autonoma”. Al riguardo è stato osservato(7) che “forse di diverso tenore poteva essere l’epilogo se, ad esempio, indicando il (limitato) numero delle ore lavorate, si fosse prodotto un conteggio – a parità di costi fissi – per dimostrare la non logicità dell’automatismo”.

La Cassazione ha, altresì, affermato, nella sentenza n. 22555 del 5 novembre 2010, con riguardo al caso di un architetto, che “non necessariamente (né ordinariamente) il professionista che benefici di pensione, che non abbia nessuno da mantenere e che, per giunta, goda di un supporto familiare… svolge e/o deve svolgere un’attività professionale ridotta rispetto al collega che viva solo degli onorari professionali, abbia familiari da mantenere e provveda in proprio anche alle spese di alloggio” (il professionista in questione abitava ancora con i genitori).

Le condizioni in presenza delle quali può essere data rilevanza ad interventi chirurgici e patologie mediche sono state illustrate nella sentenza n. 19754 del 17 settembre 2010, nella quale è stato esaminato il caso di un geometra che aveva subito, nell’anno oggetto di accertamento, un intervento chirurgico. Al riguardo la Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto che la documentazione prodotte dal contribuente fosse “parziale e insufficiente” e rilevato “la mancanza della prova relativa alla prognosi dell’intervento chirurgico”. Appare importante la precisazione della Corte che “ai fini di stabilire l’incidenza di un tale evento sulla capacità produttiva di reddito, non rileva il fatto in sè ma la durata della (eventuale) derivatane inabilità allo svolgimento della normale attività lavorativa”.

Nella citata sentenza n. 22555 del 2010 è stata, altresì, ritenuta insufficiente a contrastare l’accertamento la certificazione medica prodotta dal contribuente attestante una patologia (ipertiroidismo) che avrebbe notevolmente ridotto la sua capacità lavorativa, condividendo l’affermazione della Commissione di merito, che aveva ritenuto l’attestazione “priva di qualsiasi riferimento a concreti parametri medico-legali o di un qualche diverso elemento di riscontro concreto da parte dello stesso certificante, specie quanto all’avverbio…notevolmente”.

Anche la prassi dell’Agenzia(8) ha ritenuto legittimo dare rilevanza a situazioni di “crisi individuale dell’attività del contribuente”, quali “gravidanza, malattia, assoggettamento a procedure concorsuali”.

In dottrina è stato, altresì, osservato(9) che i contribuenti potrebbero fornire la prova contraria dimostrando di aver: “1) dovuto procedere a disinvestimenti (ad esempio, alienato, magari anche sottocosto, beni strumentali); 2) dovuto concedere pegno o ipoteca su propri beni o chiedere garanzie personali; 3) dovuto procedere a nuovi conferimenti, cui non sono seguiti investimenti ma il ripianamento di perdite; 4) dovuto ricorrere, per lo stesso scopo, a mutui; 5) ricevuto la segnalazione di scoperto in banca; 6) visti revocati i fidi bancari; 7) subìto atti di messa in mora o decreti ingiuntivi per ritardati pagamenti; 8) rifiutato aumenti previsti delle retribuzioni dei dipendenti, ovvero aver proceduto a licenziamenti; 9) dichiarato ricavi con una diminuzione proporzionale alla diminuzione dei ricavi dichiarati dai concorrenti; 10) versato sui conti bancari dell’impresa un ammontare minore proporzionale alla flessione dei ricavi dichiarati; 11) effettuato minori acquisti; 12) mostrato una diminuzione del tenore di vita; 13) dichiarato ricavi o compensi non congrui ai valori degli studi per la prima volta, mentre nei periodi precedenti la congruità sussisteva; 14) perduto un cliente importante (per conclusione del rapporto, fallimento, cessazione della sua attività), fonte di una grossa componente di ricavi o compensi nei periodi precedenti; 15) subìto la concorrenza di nuovi operatori (un esercizio commerciale concorrente ha iniziato l’attività, nuovi professionisti sono entrati sul mercato, ecc.); 16) perso elementi della propria struttura produttiva (ad esempio, due praticanti hanno lasciato lo studio professionale); 17) avuto problemi familiari (separazioni, divorzi, malattie di prossimi congiunti); 18) avuto problemi di salute.

Ovviamente, anche in questo caso non esistono regole rigide: nessuna di queste situazioni è sempre decisiva in un senso o in un altro. Molte di esse possono essere a seconda dei casi prove di una fallacia dello studio ovvero circostanze strumentalmente predisposte dal contribuente. Ad esempio, la flessione nei versamenti bancari di cui sopra al punto 10) potrebbe essere, a seconda dei casi: a) la conseguenza di minori ricavi; b) il frutto di una manovra di precostituzione delle prove volte a consentire una evasione fiscale prima non realizzata (il contribuente decide di evadere e coerentemente smette di versare parte dei ricavi); c) correlata al fatto che il contribuente continua a versare solo una percentuale dei suoi ricavi ma, mentre prima occultava ricavi in una quota superiore alla soglia degli studi, dopo, essendosi ridotti i ricavi, si trova ad occultare ricavi che lo portano fuori della congruità. Nel caso a) non c’è evasione; nel caso b) c’è evasione solo nel periodo di imposta considerato; nel caso c) c’è sempre stata evasione. Ciò che conta è il prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso. Gli spazi difensivi appaiono però cospicui, in una materia dove conta così nettamente la valutazione del merito delle situazioni. Una volta affermata la natura di presunzioni semplici degli studi di settore, il campo per la esplicazione di tali difese si presenta ampissimo e non ancora adeguatamente sfruttato”.

Sempre in merito all’onere della prova contraria a carico del contribuente è stato rilevato(10), con specifico riguardo alle affermazioni contenute nelle citate ordinanze n. 14313 e n. 15905 del 2010, che “se gli studi sono presunzioni semplici, esse per definizione non possono determinare una inversione dell’onere della prova in senso tecnico (che consegue solo alle presunzioni legali). La differenza non è solo terminologica, ma pratica e concerne ogni forma di accertamento fondato su presunzioni semplici, non solo quelli fondati su studi di settore. Il contribuente può infatti difendersi da un accertamento fondato su una presunzione semplice facendo, essenzialmente, tre cose (cumulativamente o alternativamente): a) contestare che il ragionamento presuntivo operato sia plausibile in sé; b) contestare che i fattori del contesto conoscitivo assunti dall’Ufficio come base della presunzione (fatto noto) sussistessero nell’assetto allegato dall’Ufficio, contrastando la plausibilità della relativa prova, in sé; c) allegare e provare nuovi elementi del contesto incompatibili o con il fatto noto della presunzione o con il suo risultato”.

 

Note

1) Da D. Deotto, “Prove di svolta sugli studi”, in Il Sole 24 Ore del 16 aprile 2010, pag. 33.

2) Da D. Deotto, “Solo se il fisco prova la pretesa l’onere passa al contribuente”, in Il Sole 24 Ore del 16 aprile 2010, pag. 33.

3) Si veda la nota dell’Ufficio stampa dell’Agenzia pubblicata sul Sole 24 Ore dell’1 settembre 2010, pag. 23.

4) Anche la CTP di Massa Carrara ha affermato, nella sentenza n. 8 del 19 gennaio 2009, che per dimostrare l’illegittimità dell’accertamento basato sugli studi di settore non è sufficiente la generica contestazione del carattere presuntivo di tale metodologia di accertamento.

5) Si trattava, in particolare, del settore tessile del distretto di Prato.

6) Da A. Trevisani, “Il “valore probatorio” degli studi di settore”, in Corr. Trib. n. 42/2010, pag. 3497.

7) Da G. Valcarenghi, “La presunzione semplice va comunque smentita”, in Il Sole 24 Ore dell’11 ottobre 2010, pag. 44.

8) Si veda, al riguardo, la Guida agli studi di settore presente sul sito dell’Agenzia delle entrate.

9) Da A. Marcheselli, “Ancora equivoci e incertezze sulle concrete applicazioni degli studi di settore”, in Corr. Trib. n. 31/2010, pag. 2514.

10) Da A. Marcheselli, “Ancora equivoci e incertezze sulle concrete applicazioni degli studi di settore”, in Corr. Trib. n. 31/2010, pag. 2514.

 

22 novembre 2010

Gianfranco Ferranti