L'onere della prova in materia di studi di settore – prima parte

il tema della valenza probatoria degli accertamenti basati sui parametri e sugli studi di settore e dell’onere della prova contraria a carico dei contribuenti è stato ampiamente dibattuto dalla dottrina e nell’ambito della giurisprudenza…

Il tema della valenza probatoria degli accertamenti basati sui parametri e sugli studi di settore e dell’onere della prova contraria a carico dei contribuenti è stato ampiamente dibattuto dalla dottrina e nell’ambito della giurisprudenza della Corte di cassazione(1).

Nel presente intervento si fa il “punto della situazione”, tenendo anche conto della prassi interpretativa dell’Agenzia delle entrate.

 

Le sentenze delle SS.UU. della Cassazione del 2009

Al riguardo è, infine, intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite a stabilire, con le sentenze nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 depositate il 18 dicembre 2009, che gli accertamenti basati sugli studi di settore e sui parametri rappresentano un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata ex lege in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In particolare, gli studi di settore, “pur costituendo fuor di dubbio uno strumento più raffinato dei parametri, soprattutto perchè la loro elaborazione prevede una diretta collaborazione delle categorie interessate, restano tuttavia una elaborazione statistica, il cui frutto è una ipotesi probabilistica, che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice”. Quindi lo scostamento dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli presunti in base agli studi di settore “non deve essere “qualsiasi”, ma testimoniare una “grave incongruenza” (come espressamente prevede il D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, e come deve interpretarsi, in una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, la legge n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, nel quale pur essendo presente un diretto richiamo alla norma precedentemente citata, non compare in maniera espressa il requisito della gravità dello scostamento): tanto legittima l’avvio di una procedura finalizzata all’accertamento nel cui quadro i segnali emergenti dallo studio di settore (o dai parametri) devono essere “corretti”, in contraddittorio con il contribuente, in modo da “fotografare” la specifica realtà economica della singola impresa la cui dichiarazione dell’ammontare dei ricavi abbia dimostrato una significativa “incoerenza” con la “normale redditività” delle imprese omogenee considerate nello studio di settore applicato”.

La Cassazione ha ritenuto che “gli studi di settore – come, peraltro, in precedenza i parametri, anche se caratterizzati quest’ultimi da una minore approssimazione probabilistica – rappresentano la predisposizione di indici rilevatori di una possibile anomalia del comportamento fiscale, evidenziata dallo scostamento delle dichiarazioni dei contribuenti relative all’ammontare dei ricavi o dei compensi rispetto a quello che l’elaborazione statistica stabilisce essere il livello “normale” in relazione alla specifica attività svolta dal dichiarante”.

L’elemento determinante per adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente il risultato dell’applicazione dello studio di settore è, pertanto, “il contraddittorio – previsto espressamente dalla Legge n. 146 del 1998, art. 10, come modificato dalla legge n. 301 del 2004, art. 1, comma 409, lett. b), e comunque già affermato come indefettibile, a prescindere dalla espressa previsione, dalla giurisprudenza, in ossequio al principio del giusto procedimento amministrativo (v. Cass. n. 17229 del 2006), e dalla prassi amministrativa”.

Tale ricostruzione interpretativa è stata ritenuta indispensabile al fine di evitare che lo studio di settore si trasformi “da mezzo di accertamento in mezzo di determinazione del reddito, con una illegittima compressione dei diritti emergenti dagli artt. 3, 24 e 53 Cost.: se appare ammissibile la predisposizione di mezzi di contrasto all’evasione fiscale che rendano più agile e, quindi, più efficace l’azione dell’Ufficio, come indubbiamente sono i sistemi di accertamento per standard (parametri e studi di settore), il limite della utilizzabilità degli stessi sta, da un lato, nella impossibilità di far conseguire, alla eventuale incongruenza tra standard e ricavi dichiarati, un automatismo dell’accertamento, che eluderebbe lo scopo precipuo dell’attività accertativa che è quello di giungere alla determinazione del reddito effettivo del contribuente in coerenza con il principio di cui all’art. 53 Cost.; dall’altro, nel riconoscimento della partecipazione del contribuente alla fase di formazione dell’atto di accertamento mediante un contraddittorio preventivo, che consente di adeguare il risultato dello standard alla concreta realtà economica del destinatario dell’accertamento, concedendo a quest’ultimo, nella eventuale fase processuale, la più ampia facoltà di prova (anche per presunzioni), che sarà, unitamente agli elementi forniti dall’Ufficio, liberamente valutata dal giudice adito”.

Al riguardo è stato rilevato(2) che sembrerebbe improprio il riferimento all’art. 53 della Costituzione, perché i procedimenti amministrativi e giurisdizionali, per quanto strumentali alla realizzazione del diritto sostanziale, presentano un’autonomia che trova un riconoscimento anche a livello costituzionale, quanto meno nel principio di ragionevolezza di cui all’art. 3.

Il contraddittorio tra uffici e contribuenti non è, in passato, “mai decollato in quanto proprio negli anni in cui avrebbe dovuto iniziare la campagna di accertamenti sul 1998 (anno di entrata in vigore dei primi 45 studi di settore), cioè 2002-2003, è anche entrata in vigore la stagione dei condoni fiscali (Legge n. 289/02)”(3).

Appare, quindi, fondamentale per il contribuente la partecipazione al contraddittorio per esporre le proprie ragioni e per l’Ufficio motivare perché ha ritenuto non convincenti le argomentazioni sottopostegli.

I contribuenti possono, peraltro, formulare le proprie osservazioni già in sede di dichiarazione annuale, compilando il campo “annotazioni” del modello dedicato all’indicazione dei dati relativi agli studi di settore. Tale facoltà risulta esercitata, nel 2008, da circa 265.000 contribuenti (rispetto ai 5.000 del 2005)(4), che hanno fatto valere situazioni di: non normalità economica o del periodo di svolgimento dell’attività, marginalità economica, crisi economica ecc. Si ritiene che anche in tali casi sussista l’obbligo per l’ufficio di contestazione delle osservazioni formulate dal contribuente.

E’ stato osservato(5) che “la formulazione prescelta dalla Corte parrebbe di portata generalissima, tale da farne ritenere imprescindibile l’attuazione non solo nel caso di accertamenti standardizzati, ma in generale” e che il superamento delle obiezioni del contribuente potrebbe non essere effettuato dall’Ufficio in modo analitico ma risultare dal complesso del ragionamento.

Gli studi di settore, rilevando, rispetto ai redditi dichiarati, eventuali significative incongruenze, legittimano semplicemente, sempre secondo la Cassazione, “l’avvio delle procedure di accertamento a carico del contribuente con invito a quest’ultimo, nel rispetto delle regole del giusto procedimento e del principio di cooperazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, a fornire, in contraddittorio, i propri chiarimenti e gli elementi giustificativi del rilevato scostamento o dell’inapplicabilità nella specie dello standard”.

Pertanto, la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo dello scostamento dagli studi di settore, ma deve essere integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio: è da questo più complesso quadro che emerge la gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui detti studi e la giustificabilità di un onere della prova contraria (ma senza alcuna limitazione di mezzi e di contenuto) a carico del contribuente.

L’onere della prova, cui nemmeno l’Ufficio è sottratto in ragione della peculiare azione di accertamento adottata, è così ripartito:

a) all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto dell’accertamento;

b) al contribuente, che può utilizzare a suo vantaggio anche presunzioni semplici, fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce.

L’esito del contradditorio endoprocedimentale non condiziona, tuttavia, la impugnabilità dell’accertamento innanzi al giudice tributario, al quale il contribuente potrà proporre ogni eccezione (e prova) che ritenga utile alla sua difesa, senza essere vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo, e anche nel caso in cui egli all’invito al contraddittorio non abbia risposto, restando inerte. In quest’ultimo caso, naturalmente, il giudice potrà valutare nel quadro probatorio questo tipo di comportamento (la mancata risposta), mentre l’Ufficio potrà motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione dei parametri dando conto della impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito.

La Suprema Corte ha, quindi, confermato che il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente.

Va, a tale riguardo, ricordato che, però, l’art. 32, penultimo comma, del DPR n. 600 del 1973 stabilisce che le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti degli uffici non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa.

E’ stato, infine, affermato che il processo di progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività “giustifica la prevalenza in ogni caso dello strumento più recente su quello precedente con la conseguente applicazione retroattiva dello standard più affinato e, pertanto, più affidabile”.

I principi più importanti affermati nelle sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione appaiono, quindi, i seguenti:

gli studi di settore sono, così come i parametri, presunzioni semplici e sono inidonei a supportare l’accertamento, ove contestati sulla base di allegazioni specifiche, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa;

lo scostamento dai risultati dei detti strumenti di accertamento deve testimoniare una “grave incongruenza”;

la gravità, precisione e concordanza della presunzione nasce in esito al contraddittorio con il contribuente, da attivare obbligatoriamente, “pena la nullità dell’accertamento”. L’esito di tale contraddittorio e le ragioni per le quali sono stati disattesi i rilievi del contribuente devono confluire nella motivazione dell’accertamento e ne condizionano la congruità;

incombe sul contribuente l’onere di provare la sussistenza delle condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce. Lo stesso può proporre in sede contenziosa ogni eccezione e prova che ritenga utile, senza risultare vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo;

qualora il contribuente non risponda all’invito al contraddittorio o rimanga inerte nel corso dello stesso l’ufficio può limitarsi a motivare l’accertamento soltanto sulla base delle risultanze dei parametri o degli studi di settore, dando conto dell’impossibilità di costituire il detto contraddittorio. In tal caso, il giudice potrà “valutare nel quadro probatorio questo tipo di comportamento (la mancata risposta)” del contribuente.

A tale riguardo è stato ritenuto(6) che l’atto di accertamento “potrà essere reputato valido soltanto se recherà, oltre alla significativa non congruità rispetto ai risultati di Gerico, degli ulteriori elementi presuntivi relativi alla specifica attività esercitata dal contribuente e i motivi per i quali l’ufficio ha reputato di emettere l’atto impositivo nonostante le ragioni esposte dal contribuente nel contraddittorio”.

 

NOTE

1) Per l’approfondimento di tutte le problematiche teorico-applicative riguardanti gli studi di settore si veda A. Dodero e G. Ferranti, Manuale sugli studi di settore, IPSOA, 2009, e la relativa “Addenda 2010”.

2) Da A. Marcheselli, Le Sezioni Unite sulla natura presuntiva degli studi di settore”, in Corr. Trib. n. 4/2010, pag. 251.

3) Così C. Carpentieri, “Gli studi di settore “persuasori” di fedeltà fiscale”, in Il Sole 24 Ore- Norme e tributi del 26 novembre 2007, pag. 39.

4) Cfr. A. Bongi, “Contraddittorio preventivo? Piace”, in Italia Oggi del 13 febbraio 2010, pag. 24, che riporta i dati illustrati dalla Sose nel corso della tavola rotonda su “studi di settore e imprese”.

5) Da A. Marcheselli, op. loc. ult. Cit..

6) Da D. Deotto, “Non basta l’esito degli studi”, in Il Sole 24 Ore del 22 dicembre 2009, pag. 33.

 

17 novembre 2010

Gianfranco Ferranti