L'accertamento fiscale è legittimo solo se gli atti sono allegati

la giurisprudenza sta restringendo lo spazio per gli atti motivati “per relationem”: ecco le ultime dalla Cassazione

Ancora un giro di vite della Cassazione sugli accertamenti motivati per relationem, ritenuti illegittimi se privi degli atti in essi richiamati, anche quando si tratta di atti generali, soggetti a pubblicità legale. Con la sentenza n. 20535 del 1° ottobre scorso, il massimo giudice di legittimità ha stabilito che, in tema di accertamento tributario motivato per relationem occorre distinguere fra la disciplina in vigore ante art. 7 della Legge n. 212/2000, in forza della quale la legittimità dell’avviso richiede (solo) la conoscenza o la conoscibilità dell’atto da parte del contribuente, ove si tratti di atto extratestuale, mentre con il regime introdotto dallo Statuto del contribuente tale può essere adempiuto per relationem, cioè mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, solo a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato, ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale.

I fatti di causa si riferiscono ad un accertamento ICI ritenuto illegittimo perché la motivazione essenziale – che riguardava la deliberazione adottata dalla giunta municipale del Comune di con la quale, nell’approvare i lavori della Commissione tecnica all’uopo istituita, si è fissato il valore delle singole aree del territorio comunale – non risultava allegata all’atto impositivo, ma semplicemente richiamata.

Rifacendosi a propria precedente giurisprudenza (Cass. n. 15842/2006, n. 1906/2008 e, da ultimo, n. 28666/2008), la Corte ha condiviso quanto affermato dal giudice d’appello in ordine all’obbligo di motivazione degli atti impositivi che può giudicarsi legittimamente assolto “solo ed esclusivamente quando, avendo tempestivamente conosciuto o potuto conoscere il contenuto integrale degli atti richiamati, il contribuente sia stato comunque posto in grado di conoscere tutti gli elementi essenziali della pretesa addotta nei suoi confronti e di comprendere l’iter logico-giuridico seguito dall’amministrazione”.

Tale principio è stato definitivamente affermato dall’art. 7 della legge n. 212/2000 il quale, nel prevedere un generico obbligo di motivazione per gli atti tributari, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 3 della legge n. 241/1990, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, precisa anche che “se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.

Nel dare concreta attuazione ai principi generali contenuti nello Statuto, ma temperandone l’apparente rigore, il decreto legislativo n. 32 del 26/01/2001 ha tuttavia precisato che “se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”. L’intervento normativo in parola ha sicuramente alleggerito l’onere documentale gravante sull’ente impositore, limitandolo solo ai casi in cui il cosiddetto “atto presupposto” non è noto alla controparte. Ma nel caso in esame, come osserva la Corte, “non vi è prova che gli atti richiamati siano stati conosciuti o ricevuti dal contribuente, ne’ sono stati riprodotti negli avvisi, per cui questi, in ottemperanza al principio stabilito per la tutela del contribuente, devono essere dichiarati illegittimi”.

Nè vale, al riguardo, il rilievo dedotto da parte ricorrente che la motivazione dell’avviso di accertamento in parola è contenuta in una deliberazione della giunta comunale, che è atto generale soggetto a pubblicità legale, perché tale censura “è, in ogni caso formulata in violazione del principio di autosufficienza del ricorso”.

Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione vuole che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità nella condizione di avere la cognizione completa della controversia e del suo oggetto, e di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alla sentenza impugnata senza necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo (cfr., ex multis, Cass. n. 7060/2006).

Infatti, chiarisce la Corte che, qualora con il ricorso per Cassazione si sollevino – come nella specie – censure che comportino l’esame di delibere comunali per le quali non opera il principio iura novit curia,(1), è necessario “che il testo di tali atti sia trascritto e che siano, inoltre, dedotti i criteri di ermeneutica asseritamene violati, con l’indicazione delle modalità attraverso le quali il giudice di merito se ne sia discostato, non potendo la relativa censura limitarsi ad una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza” (in senso assolutamente conforme, cfr Cassazione n. 1893 del 27/01/2009).

La Suprema Corte sposta ora l’attenzione dalla conoscenza necessaria al contribuente per poter consapevolmente esercitare il proprio diritto di difesa a quella – egualmente necessaria – che grava sull’ente impositore, parte resistente nel processo tributario, in relazione all’onere della prova dei fatti tributari posti a fondamento dell’attività accertativa.

In altre parole, l’ente impositore – sia esso amministrazione finanziaria che ente locale – deve supportare la motivazione per relationem dell’atto di accertamento, costituendo esso fonte di prova della fondatezza della pretesa fiscale, anche fornendo all’organo giudicante tutti gli elementi indispensabili per contribuire a formare il convincimento del giudice sulla questione controversa.

Come avevamo già avuto modo di evidenziare(2), nel processo tributario l’onere di provare i fatti necessari alla formazione del giudizio si distribuisce fra le parti secondo il principio di cui all’art. 2697 c.c.: è posto a carico del contribuente per quanto concerne i fatti impeditivi, modificativi e/o estintivi rispetto a quelli addotti dall’ufficio a sostegno della pretesa impositiva, mentre grava sull’ente impositore l’onere probatorio in ordine ai fatti affermati in motivazione. Pertanto, in caso di motivazione per relationem dell’avviso di accertamento, non spetta al contribuente, ma all’ufficio finanziario l’onere di produrre in giudizio tutti i documenti comprovanti la fondatezza e la legittimità della pretesa fiscale, dei quali nulla risulta nella motivazione dell’accertamento, appunto resa per relationem ad altri atti o ducumenti. In mancanza, il giudice non è posto in grado di verificare la fondatezza dell’atto opposto, ponendo a confronto le argomentazioni dell’ufficio e quelle di parte ricorrente.

Perciò la Corte, dopo aver osservato che la conoscenza dei regolamenti comunali e provinciali non rientra fra i doveri del giudice il quale, “solo ove disponga di poteri istruttori, può acquisirne diretta conoscenza, indipendentemente dall’attività svolta dalle parti”(3), ha ritenuto necessario che il testo di tali atti sia interamente trascritto e che siano inoltre “dedotti i criteri di ermeneutica asseritamente violati, con l’indicazione delle modalità attraverso le quali il giudice di merito se ne sia discostato, non potendo la relativa censura limitarsi ad una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto in sentenza”.

In altre parole, il ricorso per cassazione deve risultare autosufficiente e, quindi, contenere in sé tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata, non essendo sufficiente un generico rinvio agli atti difensivi del pregresso giudizio di merito (Cass. sentenza n. 1037 del 02/02/1994, n. 12080 del 2000, n. 7434 del 2001, n. 7938 del 2001).

Ecco quindi che la mancanza di una norma regolamentare (o di altro atto comunque ritenuto decisivo ai fini del giudizio) incide sulla completa conoscenza della questione di diritto, non consentendo al giudice un pronunciamento informato e consapevole.

Note

1) La locuzione latina iura novit curia (traduzione: il giudice conosce le leggi) esprime un fondamentale principio del diritto processuale moderno in virtù del quale le parti possono limitarsi ad allegare e provare i fatti costituenti il diritto affermato in giudizio, mentre la legge non deve essere provata al giudice, perché egli la conosce a prescindere da ogni attività delle parti.

2) FUSCONI, Il fisco perde sul p.v.c. incompleto, in Il commercialista telematico, novembre 2009.

3) Si rammenta che l’art. 3 bis, comma 5, del D.L. 203/2005 (conv. in L. n. 248/2005) ha abrogato il terzo comma dell’articolo 7 del d. lgs. 546/1992 che così disponeva: “E’ sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”. La predetta modifica ha accentuato il carattere processual-civilistico del processo tributario, sempre più modellato sull’art. 115 del c.p.c. e sul principio della disponibilità della prova, in forza del quale iudex iudicare debet iuxta alligata partium, ma anche sull’art. 2697 c.c. in tema di onus probandi. La predetta abrogazione ha superato il vaglio di costituzionalità con la sentenza n. 109 del 29 marzo 2007 emessa dalla Corte Costituzionale con la quale il giudice delle leggi “ha inteso rafforzare il carattere dispositivo del processo tributario, espungendo un potere officioso, tipico di un processo inquisitorio, che mal si concilia con la terzietà del giudice e con il principio dell’onere della prova”.

10 novembre 2010

Valeria Fusconi