La compensazione delle perdite e degli interessi passivi nelle fusioni e nelle scissioni

la fusione e la scissione delle società sono due fenomeni tra loro affini, anche se dalle finalità divergenti; per tale motivo, sia il legislatore civilistico che quello fiscale le hanno trattate in modo simile, prevedendo talune garanzie minimali a tutela dei soci e dei terzi, nonché determinati obblighi dichiarativi

La fusione e la scissione delle società sono due fenomeni tra loro affini, anche se dalle finalità divergenti; per tale motivo, sia il legislatore civilistico che quello fiscale le hanno trattate in modo simile, prevedendo talune garanzie minimali a tutela dei soci e dei terzi, nonché determinati obblighi dichiarativi.

In linea di massima, per tali tipologie di operazioni si pongono problemi di natura tributaria, in quanto avvenimenti astrattamente inquadrabili all’interno di sequenze di comportamenti fiscalmente elusivi a norma dell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, nonché quali «tecniche» in grado di superare talune limitazioni poste dall’ordinamento (ad esempio, quella che preclude la spendita delle perdite d’impresa in assenza dei requisiti minimi di vitalità e patrimonio netto).

In ogni caso, la prassi del soppresso Comitato consultivo «antielusivo» e dell’Amministrazione rimarca il fatto che non si tratta di operazioni di per sé elusive, ma semmai di singoli step di un percorso eventualmente riconoscibile dagli organi di controllo (o dall’Ente che emana il parere ex art. 21, L. 413/1991), finalizzato all’ottenimento di un indebito risparmio d’imposta attraverso più atti, fatti o negozi che sostanzialmente aggirano «obblighi» o «divieti» posti dall’ordinamento.

Se non è presente il comportamento elusivo, si tratta di operazioni fiscalmente neutre, di per sé insufficienti a far emergere base imponibile ai fini delle imposte sui redditi.

In ogni caso, le possibili vertenze con il Fisco possono essere prevenute mediante le procedure di interpello antielusivo ex art. 21 della L. n. 413/1991 (aspetti elusivi generali), e di disapplicazione ex art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. 600/1973 (norme specifiche), mentre in sede di controllo e accertamento possono essere fornite tutte le dimostrazioni richieste ai fini della difesa del contribuente.

Aspetti generali

Nel disciplinare il trattamento fiscale delle fusioni e delle scissioni societarie, il legislatore ha introdotto particolari cautele quanto alla possibilità di compensare le perdite d’impresa maturate da uno dei soggetti coinvolti nell’operazione con la situazione redditualmente «capiente» dell’altro soggetto. Ciò appare ragionevole, in un sistema fiscale analitico che «monitora» con attenzione i componenti reddituali negativi, in quanto permeabili alle possibilità di abuso (si pensi alla regola generale della decadenza temporale quinquennale per le perdite, fatta salva l’ipotesi delle perdite prodotte nei primi tre esercizi).

In particolare, le disposizioni in materia di operazioni straordinarie consentono la compensazione intersoggettiva delle perdite, nonché – a seguito della legge Finanziaria 2008 – degli interessi passivi eccedenti rispetto ai limiti di cui all’art. 96 del TUIR, solamente se risulta rispettato un duplice vincolo, che prevede il confronto tra perdite e patrimonio netto della società risultante dalla fusione o incorporante (fusione), ovvero delle beneficiarie (scissione), nonché una verifica di «vitalità», fondata sull’ammontare dei ricavi e del costo del lavoro rispetto alla situazione antecedente l’operazione.

Fusioni e perdite compensabili

Secondo il c. 7, primo periodo, dell’art. 172 del TUIR, «le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio (—), senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all’articolo 2425 del codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori».

Il terzo e ultimo periodo del c. 7 aggiunge che «in caso di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione (—), le limitazioni del presente comma si applicano anche al risultato negativo, determinabile applicando le regole ordinarie, che si sarebbe generato in modo autonomo in capo ai soggetti che partecipano alla fusione in relazione al periodo che intercorre tra l’inizio del periodo d’imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione. Le disposizioni del presente comma si applicano anche agli interessi indeducibili oggetto di riporto in avanti di cui al comma 4 dell’articolo 96».

Secondo la relazione introduttiva all’originario art. 123 del TUIR del 1986 (riprodotto nel vigente art. 172), la disposizione che preclude la trasmissione intersoggettiva delle perdite nell’ambito delle fusioni ha lo scopo di evitare «manovre evasive consistenti nella incorporazione di società ormai prive di ogni attività economica al solo scopo di decurtare il reddito imponibile compensandolo con le perdite fiscali da esse accumulate in esercizi precedenti». Tale previsione quindi, sempre con le parole della relazione di accompagnamento, «intende attuare una soluzione equilibrata che pur mantenendo fermo il diritto del riporto delle perdite, eviti che per mezzo della fusione si trasmettano deduzioni del tutto sproporzionate alle consistenze patrimoniali delle società fuse o incorporate».

Per quanto attiene alle operazioni di scissione, l’art. 173, c. 10, TUIR, stabilisce che «alle perdite fiscali delle società che partecipano alla scissione si applicano le disposizioni del comma 7 dell’articolo 172, riferendosi alla società scissa le disposizioni riguardanti le società fuse o incorporate e alle beneficiarie quelle riguardanti la società risultante dalla fusione o incorporante ed avendo riguardo all’ammontare del patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dal progetto di scissione di cui all’articolo 2506-bis del codice civile, ovvero dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2506-ter del codice civile».

Secondo l’Agenzia delle Entrate, espressasi nella circolare n. 19/E del 21.4.2009, «per ragioni di ordine logico e sistematico, si ritiene che la stessa norma debba trovare applicazione anche con riferimento alle eccedenze di interessi passivi netti indeducibili eventualmente generatesi in capo alle società che partecipano alla scissione». Con tale posizione è coerente la circolare Assonime n. 46 del 18.11.2009.

Gli interessi passivi

L’intervento operato dal legislatore con decorrenza dal 1° gennaio 2008 – attraverso l’art. 1, c. 33, lett. da a) a l), L. n. 244/2007 – ha semplificato la disciplina precedentemente applicabile dalle imprese relativamente agli interessi passivi, imponendo loro una semplice verifica della «congruità» del costo dell’indebitamento rispetto al risultato operativo lordo della gestione caratteristica (ROL).

Per effetto di tale meccanismo, se gli interessi passivi – al netto degli interessi attivi – maturati nell’anno superano il 30% del ROL, gli interessi eccedenti vengono rinviati ai periodi successivi.

L’introduzione della regola del riporto in avanti ha reso opportuno prevedere una specifica norma antielusiva, finalizzata ad evitare che eventuali operazioni straordinarie d’impresa siano poste in essere al precipuo scopo di subentrare nel diritto alla deduzione a titolo di interessi portati a nuovo, che ha integrato l’articolo 172, c. 7, del TUIR.

In buona sostanza, è stato introdotto un regime di deducibilità potenzialmente integrale per gli interessi passivi, articolato in tre fasi:

  • deducibilità piena nel periodo di imposta fino a concorrenza degli interessi attivi di periodo;

  • per l’eccedenza, deducibilità nel periodo di imposta entro il limite percentuale del ROL;

  • per l’ulteriore eccedenza, deducibilità nei successivi periodi di imposta nei quali si registri una “capienza” di ROL. Lo stesso ROL poi, oltre agli interessi passivi eccedenti, si rende riportabile in avanti.

La procedura di disapplicazione

Secondo quanto stabilito dall’art. 37-bis, c. 8, D.P.R. n. 600/1973, «le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione».

La disapplicazione, che può essere richiesta in particolare in caso di perdite (o interessi passivi eccedenti) nell’ambito delle operazioni di fusione e scissione, prevede la presentazione di un’apposita istanza al competente direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, il quale risponde con un provvedimento motivato entro 90 giorni (termine non previsto normativamente, ma introdotto dalla prassi dell’Agenzia). Il regolamento attuativo, cui occorre fare riferimento, è stato emanato con D.M. n. 259 del 19.6.1998 (vigente dal 18.8.1998).

La richiesta di disapplicazione può essere valutata dall’Amministrazione anche in base alle valide ragioni economiche che presiedono all’operazione posta in essere.

Le valide ragioni economiche in generale

In relazione alle operazioni di fusione, il concetto di valide ragioni economiche – che assume un’importanza centrale quale criterio per affermare o escludere il carattere elusivo di un determinato comportamento – risulta dirimente sia per quanto attiene alla disposizione antielusiva «generale», sia con riferimento alle norme specifiche anti – «bare fiscali».

In primissimo luogo, occorre tuttavia evidenziare quanto segue:

  • nel contesto dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, la condizione per ottenere dall’Amministrazione il riconoscimento degli effetti fiscali delle operazioni «sospette» (in sede di interpello o di accertamento) è costituita dalle valide ragioni economiche, ossia dall’«apprezzabilità economico-gestionale» che deve necessariamente supportarle;

  • tali «ragioni» devono essere «valide», cioè dotate di una propria «necessità» non meramente giuridica, e in nessun caso possono ridursi alla ricerca della soluzione più vantaggiosa dal punto di vista tributario;

  • la Norma di comportamento n. 147 dell’Associazione Dottori Commercialisti di Milano (ADC) ha richiamato sul punto la giurisprudenza europea(1), propugnando un’interpretazione estensiva del concetto, non limitantesi al c.d. «business purpose», ossia alla convenienza economica delle società direttamente interessate dall’operazione;

i nuovi indirizzi della giurisprudenza della Cassazione in materia di abuso del diritto sembrano rendere di fatto inutile il ricorso all’art. 37-bis, giacché sarebbero ora giustificate anche le attività di contrasto all’elusione senza il supporto di tale norma, con le connesse garanzie per i contribuenti (ruling e accertamento supermotivato, con la possibilità di un più ampio contraddittorio). Si tratta di un orientamento che è stato già recepito dalla prassi ufficiale(2): ciò nondimeno, appare più che mai necessario far riferimento al concetto di valide ragioni economiche, soprattutto per salvaguardare la posizione di chi si accinge a effettuare operazioni suscettibili di procurare (anche) un vantaggio sotto il profilo tributario.

Le motivazioni economiche tipiche della fusione

Sotto il profilo della motivazione economica, le operazioni di fusione rappresentano – secondo quanto è stato affermato nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 62/E del 28 febbraio 2002 – uno dei mezzi per realizzare la crescita dimensionale delle imprese, con le conseguenti economie di scala, con l’obiettivo di fondo del rafforzamento delle imprese stesse sul mercato e del miglioramento della loro capacità competitiva. La medesima risoluzione ammette in verità anche fusioni non direttamente finalizzate alla crescita dimensionale, giacché « … le fusioni possono avere lo scopo di agire sulla leva dei costi, o avere motivazioni puramente finanziarie, ma pur sempre al fine di aumentare la competitività o la produttività complessiva dell’impresa in un’ottica di crescente vitalità economica».

Assolutamente «insolito», e «non valido» dal punto di vista economico-gestionale, è invece il fine di far nascere un nuovo soggetto da porre immediatamente in liquidazione. In tali situazioni, l’apprezzamento delle valide ragioni economiche in grado di giustificare l’operazione richiede – per così dire – di «estrapolare» la motivazione «ordinaria» di un determinato comportamento, ad esempio di un’operazione societaria straordinaria, per verificare se, nel caso esaminato, tale motivazione sia o meno presente. In tale prospettiva, la fusione «liquidatoria» (produttiva di vantaggi fiscali) è comparata con la liquidazione (non produttiva di vantaggi fiscali).

Una fusione a carattere «liquidatorio» verrebbe quindi «censurata» sia in sede di interpello ex art. 21 della L. n. 413/1991 (o di accertamento antielusivo fondato sull’art. 37-bis, c. 1, D.P.R. n. 600/1973), sia nell’ambito della procedura di disapplicazione, nella prospettiva dell’utilizzo delle perdite.

La prassi del soppresso Comitato consultivo antielusione evidenzia talune situazioni nelle quali le operazioni poste in essere, nella loro concatenazione, rivelano un’intenzionalità incoerente con i fini dichiarati o con quelli ordinariamente associati alle operazioni medesime.

Nel parere n. 34 del 18.12.2006, emanato dal soppresso Comitato «antielusivo», è stata affrontata una casistica relativa a un’operazione di fusione per incorporazione seguita dalla successiva scissione parziale del patrimonio dell’incorporata, con utilizzo intersoggettivo delle perdite maturate.

Secondo il Comitato, l’operazione era «intimamente contraddittoria» sotto il profilo della logica imprenditoriale, giacché essa si sviluppava «… attraverso due passaggi del tutto incompatibili: da un lato una aggregazione di patrimoni attraverso la fusione, dall’altro la disaggregazione degli stessi con successivi atti di scissione parziale».

Il parere guardava all’«obiettivo reale» perseguito dai soggetti agenti, il quale non poteva ricondursi all’intenzione di integrare sotto un’unica organizzazione imprenditoriale l’attività industriale e commerciale e quella agricola, perché ciò era contraddetto dalla previsione del successivo scorporo di tutti gli apporti.

«Si evidenzia, infatti, che gli assets provenienti da Y entrano ed escono dal patrimonio di X, lasciando all’interno solo parte dei debiti e, soprattutto, le perdite. Di qui, il palese abuso dello strumento della fusione».

Se, invece, lo scopo reale dell’operazione fosse stato quello di scorporare l’attività immobiliare da quella caratteristica delle due società operative, esso avrebbe potuto essere attuato attraverso una semplice operazione di «spin off», « … senza interporre una fusione che si rivela assolutamente artificiosa e priva di valide ragioni economiche».

Le motivazioni economiche tipiche della scissione

Considerando le scissioni, la «valide ragioni», ossia l’«apprezzabilità economico-gestionale» dell’operazione, potrebbe essere ravvisata nelle operazioni finalizzate a limitare o a contenere gli effetti dannosi di un deterioramento dei rapporti fra soci, incidente negativamente sulla gestione dell’impresa sociale, ovvero finalizzate a gestire il ricambio generazionale alla guida dell’impresa sociale o di taluni rami d’azienda.

La necessità di riconoscere maggiori gratificazioni alla nuova imprenditorialità, congiuntamente a quella di limitare i possibili rischi di una minore esperienza o di un’inadeguata capacità gestionale, potrebbe giustificare l’attuazione di una scissione societaria proporzionale, attraverso la quale vengano attribuite ai più giovani imprenditori maggiori partecipazioni nella beneficiaria con attività più a rischio, in corrispondenza ad una rispettiva riduzione partecipativa nella beneficiaria dotata di minor rischio d’impresa (attività tradizionale, immobiliare, etc…).

Le medesime ragioni economiche potrebbero indurre a una scissione proporzionale, seguita da uno o più riassestamenti di partecipazioni (cessioni reciproche tra i soci o anche con terzi) volti a raggiungere, solo in un secondo momento, lo stesso risultato direttamente raggiunto nella prima ipotesi di scissione non proporzionale.

Tale seconda modalità, finalizzata allo stesso risultato, troverebbe valida giustificazione:

  • nel risparmio di spesa, non essendo prescritta, in quel caso, la relazione degli esperti altrimenti obbligatoria;

  • nella strategia di graduare nel tempo il maggior peso partecipativo della nuova imprenditorialità giovanile in corrispondenza con l’assolvimento dei nuovi compiti, verificabile solo successivamente alla prima operazione di scissione proporzionale.

La stessa ragione economica iniziale potrebbe infine richiedere anche l’ingresso (coevo o successivo) di altra nuova imprenditorialità utile a potenziare quella già esistente, più facilmente attraibile se resa, anch’essa, intestataria di partecipazioni sociali.

Le società neocostituite: come effettuare il test

Qualche problema si pone, per l’effettuazione dei test del patrimonio netto e della vitalità, se si tratta di soggetti neocostituiti, giacché in tale ipotesi non può evidentemente farsi nessun raffronto con i due ultimi esercizi anteriori rispetto a quello in cui è effettuata l’operazione.

Soccorre l’interprete sul punto la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 337/E del 29.10.2002, la quale ha affermato che:

«… la società in perdita, in quanto costituita soltanto un anno prima di quello in cui è stata deliberata la fusione, non dispone di bilanci precedenti per cui non può calcolare la media prevista (…) al fine di verificare le condizioni di vitalità».

«Di conseguenza, un’applicazione strettamente letterale della norma porterebbe ad escludere la possibilità di utilizzare le perdite da parte della società incorporante».

Dato però che la ratio della disposizione in esame è quella di contrastare la realizzazione di fusioni con società prive di capacità produttiva, secondo la circolare è possibile desumere la vitalità aziendale da altri fattori.

Innanzi tutto, secondo l’Agenzia, se la società che intende riportare le perdite è sorta nell’esercizio sociale precedente a quello della delibera di fusione, non può presumersi alcun depotenziamento.

Pertanto, anche nelle situazioni nelle quali non sia possibile effettuare i test del patrimonio netto e della vitalità dell’impresa, nell’ambito della procedura di disapplicazione ex art. 37-bis, c. 8, D.P.R. n. 600/1973, possono essere valorizzati in alternativa altri criteri in grado di dimostrare la vitalità aziendale (nella prospettiva dell’utilizzo delle perdite in compensazione).

La preoccupazione manifestata dal legislatore nel richiedere il rispetto del limite del patrimonio netto è chiaramente orientata a evitare che nell’operazione di fusione possano essere impiegati dei soggetti societari sostanzialmente «fittizi» (c.d. «bare fiscali»), e rispetto a tale vincolo e a tale finalità si comprende la necessità di evitare che il patrimonio potesse essere artificiosamente incrementato attraverso conferimenti successivi, per aumentare il plafond da confrontare con la perdita fiscale, ovvero – alla luce dei vigenti articoli 96 e 172 del TUIR – con gli interessi passivi eccedenti indeducibili nel periodo di imposta.

Alla luce di quanto sopra affermato, non sembrano sussistere problemi in ordine alla possibilità di dedurre fiscalmente sia le perdite che gli interessi passivi eccedenti, di cui all’art. 96, TUIR, da parte della società incorporante / risultante dalla fusione / beneficiaria della scissione.

NOTE

1) In particolare, è stata ripresa dall’ADC la sentenza della Corte di Giustizia del 17.7.1997, relativa al procedimento C-28/95 (sentenza «Leur – Bloem»).

2) Si consideri, a titolo meramente esemplificativo, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 16/E del 24.4.2009, in materia di parziale deducibilità dell’IRAP versata (par. 1): «la deduzione spetta alla predetta condizione e prescinde, dunque, dall’ammontare complessivamente sostenuto per oneri del personale o interessi passivi. Resta inteso che il sostenimento dei costi relativi al personale dipendente o agli interessi passivi deve rispondere a criteri di inerenza, ragionevolezza ed economicità e risultare coerente con gli obiettivi di politica aziendale perseguiti. In relazione, in particolare, ad operazioni che abbiano dato luogo ad interessi passivi saranno attivati opportuni controlli al fine di verificarne le valide ragioni economiche e l’inerenza all’attività esercitata».

8 novembre 2010

Fabio Carrirolo