Indicazioni agli uffici citando Leonardo Sciascia!

un’innovativa nota del direttore dell’Agenzia delle Entrate per costruire un miglior rapporto fisco-contribuente

Confesso che mi sono sorpreso. E non poco.

Attilio Befera, Direttore dell’Agenzia delle Entrate, nella nota n. 153551 del 29 ottobre 2010 ha fornito agli uffici periferici un atto di indirizzo in tema di controlli fiscali nel quale, dopo avere illustrato una sorta di decalogo di ciò che non deve essere fatto dai funzionari in verifica, ha concluso con un invito a non abusare del proprio potere, riportando un passo del Giorno della Civetta di Leonardo Sciascia.

«Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo», conclude il capomafia rivolgendosi al capitano dei Carabinieri che lo sta arrestando, il quale, assai sorpreso, gli chiede di rimando: «Perché?». «Perché» disse don Mariano «da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto».

Fino ad ora la lettura di circolari, risoluzioni, note e quant’altro era risultata necessaria per un adeguato svolgimento della professione, ma mai particolarmente esaltante dal punto di vista culturale. Dal 29 ottobre scorso è cambiato qualcosa. La letteratura italiana ha fatto ingresso nel linguaggio burocratico dell’Amministrazione! Chissà che non cambi qualcosa anche dal punto di vista dei comportamenti. L’auspicio è ovviamente questo.

Al di là della citazione, il messaggio del Direttore dell’Agenzia è importante e può offrire spunti di riflessione ed elementi di conforto nel travagliato rapporto Fisco – Contribuente.

Alcuni passaggi risultano particolarmente significativi e sono tesi ad evitare che si verifichino (ma forse è meglio dire si ripetano) atteggiamenti che possono essere percepiti come vessatori da parte dei contribuenti ovvero situazioni poco commendevoli, alla disperata ricerca degli “obiettivi monetari” cui gli uffici periferici sono costretti per evidenti ragioni di gettito erariale. Obiettivo questo – recita la nota – che deve essere conseguito:

  • senza arroganza o atteggiamenti di sopruso;

  • senza adempimenti inutili, ripetitivi e defatiganti;

  • senza indugi o ritardi per eseguire sgravi o rimborsi;

  • evitando di prospettare, in sede di accertamento con adesione, le proposte dell’ufficio come un minaccioso ultimatum;

  • annullando un accertamento senza solido fondamento, ovvero non emettendolo affatto;

  • facendo di tutto per guadagnare la fiducia e il rispetto dei contribuenti.

A ben vedere di tratta di circostanze e comportamenti che, nel confronto quotidiano con l’Amministrazione Finanziaria, siamo ahimè avvezzi a riscontrare. Quante volte abbiamo penato per ottenere uno sgravio o per avere una risposta ad un’istanza? Quante volte abbiamo nuovamente prodotto documenti già in possesso dell’Amministrazione Finanziaria? Si tratta, in alcuni casi, di fattispecie previste anche dallo Statuto dei Diritti del Contribuente ed inserite quindi in un contesto legislativo di tutela del cittadino. Pur tuttavia, vedere ribaditi tali principi dall’esponente di vertice dell’Agenzia delle Entrate, sottolineare la necessità di instaurare un rapporto di fiducia con atteggiamenti (reciproci) di collaborazione e buona fede, esortare i funzionari tributari a comportamenti degni di rappresentanti dello Stato, costituisce un’importante assunzione di responsabilità – peraltro già in re ipsa – ed un significativo richiamo al rispetto del cittadino.

E’ da evidenziare altresì il passaggio che precisa che “in verifica non è corretto cercare a ogni costo pseudoinfrazioni formali da sanzionare solo per evitare che la verifica stessa sembri essersi chiusa negativamente”. Si tratta anche in questo caso di circostanza assai diffusa, nella quale prevale la tendenza di chiudere i controlli con qualche rilievo – magari solo formale o di dubbia sostenibilità – solo per giustificare le ore-uomo impiegate in verifica, sacrificando l’obiettività delle valutazioni sull’altare della proficuità dell’azione accertatrice.

Comportamenti in qualche modo vessatori, o come tali obiettivamente percepibili, sono destinati ad essere controproducenti, perché penalizzano i contribuenti onesti e tendono ad incentivare l’evasione. Le ragioni dell’etica e quelle della convenienza devono convergere.

Il rispetto e la fiducia – si legge ancora nella nota – non si possono strappare con la forza, ma si può solo cercare di meritarli faticosamente, giorno per giorno, con la correttezza, l’equilibrio, la trasparenza e la ragionevolezza dei comportamenti, dando all’autorità impersonale dello Stato la dimensione dell’autorevolezza, che dipende essenzialmente dalla persona di coloro che quell’autorità rappresentano nei riguardi dei contribuenti.

Questo vuol dire che l’obiettivo di acquisire gettito per l’Erario non può e non deve mai tradursi in comportamenti non rispettosi della legge.”

Parole importanti, che confidiamo vengano ben recepite.

Parole alle quali dovranno seguire i fatti.

Fiduciosi (ma non troppo), noi professionisti terremo una copia della nota di Befera sempre in borsa, sperando di non doverla di tanto in tanto mostrare a qualche funzionario tributario che ne abbia dimenticato il contenuto ovvero esibirla al Giudice in udienza.

15 novembre 2010

Massimo Conigliaro

 

Nota 29 ottobre 2010, prot. n. 153551

Agenzia delle Entrate – Dir. centrale del personale

Rapporti con i contribuenti sottoposti a controllo

 

I risultati dell’azione di recupero dell’evasione fiscale portata avanti dall’Agenzia delle Entrate sono sotto gli occhi di tutti. Sono risultati che contribuiscono ad assicurare le risorse necessarie per il funzionamento degli apparati pubblici e il soddisfacimento dei bisogni della collettività. Ne esce rafforzato il prestigio dell’Agenzia nell’ambito della pubblica amministrazione e presso l’opinione pubblica. E’ giusto esserne orgogliosi, pur nella consapevolezza degli ampi margini di possibile miglioramento. Il merito principale di tutto questo va sicuramente al grande impegno profuso ogni giorno dal nostro personale e all’elevata professionalità di cui dà continua prova. Taluni episodi che salgono alla ribalta delle cronache non possono offuscare la dedizione e il valore di migliaia di operatori che non cessano ogni giorno di assolvere scrupolosamente i propri doveri.

Correttezza ed efficienza sono principi basilari della nostra attività. Sono principi tra loro strettamente collegati, come lo sono le ragioni dell’etica e quelle della convenienza. Cogliere il senso di questo legame è essenziale. Tra gli ostacoli che continuamente incontriamo nel nostro lavoro, quello maggiore è infatti, a mio parere, la diffusa convinzione che rispettare le regole non conviene, e tra le regole da osservare vengono, naturalmente, in primo piano quelle che riguardano l’assolvimento degli obblighi fiscali. Sento spesso dire che è inappropriato collegare considerazioni di ordine morale a motivi di utilità sociale, quasi stessero su due piani totalmente distinti. Resto invece convinto, guardando anche all’esperienza delle nazioni e degli Stati più evoluti con cui dobbiamo confrontarci, che tra i segni più sicuri di una scarsa sensibilità alle ragioni dell’etica vi è proprio il fatto di non riuscire a coglierne, con naturalezza e spontaneità, la stretta connessione con le ragioni della convenienza sociale, che essendo la convenienza di tutti, è, in definitiva, la convenienza di ognuno.

Diverse sono le cose che possono fare velo a questa semplice verità, fino a renderla irriconoscibile e a ribaltarla nell’assunto che l’interesse di tutti non è l’interesse di alcuno in particolare, e non ha quindi valore. Una di quelle cose è simile forse all’illusione infantile di poter essere l’«uomo invisibile». L’illusione, cioè, che i nostri comportamenti individuali sfuggano alla visibilità cui sono invece assoggettate le azioni di tutti gli altri; l’illusione (sottesa spesso alla tipica esclamazione: “Ma che male c’è!”) che perseguire solo il tornaconto individuale possa avere l’effetto magico di avvantaggiare noi stessi senza alla fine danneggiare tutti, e quindi, di riflesso, pure noi stessi. La persistenza di questa illusione è l’essenza stessa del ritardo culturale del nostro Paese. Il modo in cui, stando al nostro posto, possiamo contribuire a cambiare questo stato di cose è credere anzitutto noi stessi – a fatti e non a parole – che correttezza ed efficienza sono veramente destinate a convergere.

Vi sono pochi dubbi sul fatto che ciò che contraddistingue nel nostro Paese il fenomeno dell’evasione fiscale non è solo e non è tanto il suo livello, quanto piuttosto la circostanza che ne venga generalmente percepita poco, o comunque non a sufficienza, la gravità. Le ragioni di questa percezione affondano, almeno in parte, nella storia di popolazioni che hanno spesso avvertito il potere statale come estraneo, se non ostile. E la reazione istintiva, quando non ci si sente rispettati, è quella di mancare di rispetto, violando o aggirando regole che appaiono frutto di imposizione arbitraria.

Poiché noi rappresentiamo lo Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative — il prelievo fiscale — noi dobbiamo operare in modo da guadagnare sempre più, nell’esercizio di quella funzione, il rispetto e la fiducia che i cittadini devono all’Istituzione di cui siamo rappresentanti. Non ci è consentito dire: “ma questo non dipende solo da noi”. Questo dipende anche da noi, ed è ciò che conta. Nell’esistenza che conduciamo come uomini comuni uno dei sentimenti da cui, al pari di chiunque altro, tendiamo ad essere afflitti è quello dell’impotenza di fronte a tutto ciò che ci sovrasta. Le nostre recriminazioni si volgono spesso verso quella dimensione, oscura e indecifrabile, che viene solitamente chiamata: “il Potere”. Ma quando ci impegniamo nel lavoro così delicato che abbiamo l’onore di svolgere, siamo noi “il Potere”, e siamo noi che abbiamo la responsabilità di esercitarlo in modo da guadagnarci — e da guadagnare allo Stato che rappresentiamo – il rispetto e la fiducia di tutti coloro che sono soggetti al potere che ci è stato conferito.

Il rispetto e la fiducia non si possono però strappare con la forza. Si può solo cercare di meritarli faticosamente, giorno per giorno, con la correttezza, l’equilibrio, la trasparenza e la ragionevolezza dei comportamenti, dando all’autorità impersonale dello Stato la dimensione dell’autorevolezza, che dipende essenzialmente dalla persona di coloro che quell’autorità rappresentano nei riguardi dei contribuenti.

Questo vuol dire che l’obiettivo di acquisire gettito per l’Erario non può e non deve mai tradursi in comportamenti che abbiano fondato motivo di essere percepiti come frutto di arroganza o come manifestazione di atteggiamenti di sopruso. Questo significa pure che non debbono essere chiesti o imposti adempimenti inutili, ripetitivi e defatiganti; che uno sgravio o un rimborso sulla cui spettanza non vi siano dubbi devono essere eseguiti senza indugi o ritardi; che, in sede di accertamento con adesione, le proposte dell’ufficio non devono essere prospettate come un minaccioso ultimatum, ma sempre nell’ottica della corretta e civile dialettica tra le parti. E ancora: se un accertamento non ha solido fondamento, non va fatto. Tutto quello che sto qui criticando è esattamente l’opposto di ciò che occorre fare per guadagnare la fiducia e il rispetto dei contribuenti, e crescere così in autorevolezza.

E se da una verifica non emergono fatti o elementi concreti da contestare, non è corretto cercare a ogni costo pseudoinfrazioni formali da sanzionare solo per evitare che la verifica stessa sembri essersi chiusa negativamente. Se il contribuente ha dato prova sostanziale di buona fede e di lealtà nel suo rapporto con il Fisco, ripagarlo con la moneta dell’accanimento formalistico significa venire meno a un obbligo morale di reciprocità, ed essere perciò unfair, cioè scorretti nei suoi confronti. Comportamenti in qualche modo vessatori, o come tali obiettivamente percepibili, sono destinati — per le ragioni di fondo prima descritte — ad essere controproducenti, perché penalizzano in definitiva i contribuenti onesti e tendono perciò a incentivare l’evasione, cioè il comportamento opposto a quello che vorremmo e dobbiamo contrastare. Anche qui le ragioni dell’etica e quelle della convenienza convergono.

Non dimentichiamo infatti che, in un sistema tributario basato sull’autotassazione, la missione istituzionale dell’amministrazione finanziaria è quella di perseguire il massimo livello di adesione spontanea agli obblighi tributari; a questo fine dev’essere indirizzata anche l’attività di controllo, che assolve la sua funzione di dissuasione solo se si basa su comportamenti in grado di ispirare fiducia e di suscitare credibilità. Non vanno affatto in questa direzione modi di agire dettati da una comprensione profondamente distorta della spinta a “raggiungere l’obiettivo”. Nei sistemi di incentivazione da concordare con le Organizzazioni sindacali e, a monte, nella ridefinizione dei sistemi di pianificazione e controllo, l’Agenzia intende dare segnali concreti che scoraggino queste pratiche deteriori e motivino comportamenti virtuosi nel senso appena indicato. Muovendo da questa finalità, si apporteranno a quei sistemi le revisioni necessarie e si adotteranno le opportune iniziative di formazione, che avranno come punto di riferimento non solo e non tanto l’illustrazione delle norme giuridiche dello Statuto del Contribuente ma, soprattutto, l’acquisizione della consapevolezza di quale sia la logica e lo spirito che vi sono sottesi.

È un topos della narrativa la figura dell’uomo di legge (nell’esercizio dell’attività di controllo il personale dell’Agenzia svolge le funzioni tipiche di uomini di legge) che riesce a suscitare l’ammirazione della controparte con il suo atteggiamento fermo e risoluto, ed insieme rispettoso e disposto a capire senza preconcetti e alterigia le altrui ragioni. Ed è la realtà che, seppure trasposta nelle forme dell’invenzione artistica, dà spesso ispirazione alla narrativa.

È questo il caso di uno dei racconti più noti della letteratura italiana contemporanea, “Il giorno della civetta”. Vi si trova una definizione singolare dell’essere “uomo” (la parola, e il significato che nel libro essa esprime, sfugge naturalmente – nelle intenzioni implicite dell’autore dell’opera, apparsa nel 1961 – ai confini delle definizioni di genere, dominanti oggi ma pressoché sconosciute all’epoca). La definizione si deve a don Mariano, che nel racconto interpreta la parte di un capomafia locale. Parlando al capitano dei carabinieri Bellodi, che è venuto ad arrestarlo, il capomafia delinea una sua personale catalogazione di tipi umani. Comprende cinque categorie. Le prime quattro sono più o meno dispregiative. Soltanto l’ultima ha una caratterizzazione positiva ed è connotata da una sola parola, priva di aggettivi: uomo. «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo», conclude il capomafia rivolgendosi a Bellodi, che, assai sorpreso, gli chiede di rimando: «Perché?». «Perché» disse don Mariano «da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto».

So che su questi temi e sulle considerazioni che vi ho rappresentato ci unisce un sentire comune. Desidero che ne rendiate partecipi i vostri collaboratori.