la gestione del cosiddetto interpello all’Amministrazione Finanziaria non è sempre semplice; ecco tutti i chiarimenti a riguardo, con particolare attenzione a: interpello ordinario, interpello preventivo, interpello successivo e le risposte dell’Ammnistrazione
Soprattutto a seguito dell’entrata in vigore e all’attuazione dello Statuto del contribuente, nel primo decennio del XXI secolo, ma a seguito di un pluriennale processo di elaborazione legislativa che traeva ispirazione anche dalle esperienze estere – si è inteso riformare l’attività dell’Amministrazione fiscale in senso consensuale-partecipativo.
È chiaro che, rispetto alle attività che hanno a che fare con le obbligazioni tributarie, si registra una «bipartizione» che da un lato vede prevalere (nell’«emisfero del controllo») i poteri (ispettivi e accertativi, finalizzati all’acclaramento della posizione del contribuente nella prospettiva della riscossione delle imposte), e dall’altro (nell’«emisfero della compliance») i servizi di assistenza e consulenza, orientati alla facilitazione dell’autoassolvimento degli obblighi tributari.
In ogni caso, l’Amministrazione deve per prima informare i propri comportamenti alla massima correttezza, osservando i principi di legalità, uguaglianza, capacità contributiva, in attuazione di precisi obblighi sanciti dalla costituzione: ciò la costringe, secondo le norme dello Statuto, a informare chiaramente i contribuenti, anche ad hoc con riferimento a propri casi personali e specifici, in ordine ai quali sussista una condizione di incertezza interpretativa.
Chiunque può pertanto interpellare preventivamente l’Amministrazione allorquando abbia l’intenzione di porre in essere un comportamento dai riflessi tributari non chiari (art. 11, L. n. 212/2000), e può altresì chiedere se sussistano in una determinata fattispecie dei profili elusivi (art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973), nonché se possa essere disapplicata, in un caso specificamente individuato, una disposizione normativa di natura antielusiva (art. 37-bis, ottavo comma, D.P.R. n. 600/1973).
Occorre tuttavia considerare che l’istituto dell’interpello prevede, in linea generale, la presentazione di quesiti a carattere preventivo: se tale requisito non sussiste, non è possibile fornire risposta (in caso contrario, si richiederebbe una sovrapposizione con le attività di controllo-accertamento) e le istanze vengono dichiarate inammissibili.
L’interpello: aspetti generali
L’interpello è sorto in Italia come procedura speciale nell’ambito del contrasto all’elusione fiscale, ed è quindi stato generalizzato attraverso lo Statuto del contribuente, proprio per consentire ai privati di avere dall’Amministrazione un indirizzo ad hoc, in relazione a una problematica interpretativa di natura giuridico-tributaria.
Lo strumento ha avuto una notevole fortuna, sia per la semplicità della relativa procedura, sia per i tempi abbastanza contenuti della risposta, sicché esso è stato «piegato» alle particolari esigenze di tipo probatorio connesse all’applicazione di normative specifiche del TUIR (ad esempio, nel contesto delle c.d. controlled foreign companies, per fornire la dimostrazione che la società estera svolge un’effettiva attività commerciale, ovvero che attraverso di essa non sono «delocalizzati» redditi ai fini tributari).
Occorre altresì evidenziare che la procedura che governa l’istruttoria relativa all’interpello ordinario (ex art. 11, L. 27.7.2000, n. 212) nell’Agenzia delle Entrate consente all’ufficio regionale addetto di investire della questione la Direzione Centrale Normativa, la quale può rispondere direttamente e, se lo ritiene opportuno, per l’importanza generale della questione, trasfondere la risposta in una risoluzione che viene pubblicata sul sito Internet ufficiale del servizio di documentazione tributaria. In tal modo, la problematica che interessa nello specifico l’interpellante può avere una previa risoluzione valida (in virtù del principio del legittimo affidamento) per tutti coloro che si trovino in una situazione analoga.
Gli interpelli presentano una certa varietà di forme e procedure, le quali sono comunque riconducibili a quattro schemi generali:
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interpello ordinario;
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interpello antielusivo;
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interpelli «probatori»;
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interpello «disapplicativo».
Dal punto di vista dell’interpello ordinario, che rappresenta una delle più forti innovazioni introdotte dalla L. n. 212/2000, l’articolazione decentrata della relativa attività, affidata in larga misura alle direzioni regionali, ha fatto sì che si imponesse un’esigenza di uniformità: in tale prospettiva, la competente Direzione Centrale Normativa (DCN) dell’Agenzia delle Entrate svolge una funzione di monitoraggio e, se necessario, di riforma dei pareri resi, oltre ad essere destinataria delle questioni ritenute di maggior rilevanza o problematicità.
L’interpello ordinario secondo l’art. 11 dello Statuto
Secondo l’art. 11, c. 1, L. 212/2000, nel testo vigente a decorrere dall’1.8.2000, ciascun contribuente è abilitato a inoltrare per iscritto all’Amministrazione finanziaria, che deve rispondere entro 120 giorni, «circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse. La presentazione dell’istanza non ha effetto sulle scadenze previste dalla disciplina tributaria».
Lo scarno inciso normativo, successivamente specificato sia dal regolamento di attuazione (D.M. 26.4.2001, n. 429), sia delle circolari dell’Amministrazione, racchiude in sé numerose problematiche, delle quali si cercherà di render conto.
Innanzi tutto, la norma obbliga l’amministrazione a rispondere (salva l’esigenza di integrazioni documentali, che sono acquisibili solamente una volta) entro un determinato termine temporale, il cui mancato rispetto è sanzionato attraverso la produzione di effetti specifici «a danno» della parte pubblica e a vantaggio del contribuente. Il silenzio è insomma «significativo», sicché, se l’Amministrazione omettesse la risposta, l’interpellante potrebbe dar corso al comportamento specificamente prospettato nell’istanza.
È evidente che anche in relazione a tale aspetto potrebbero sorgere problematiche interpretative: dovrebbe infatti trattarsi dell’omessa risposta in relazione a una questione chiara e incontrovertibile, altrimenti l’ente impositore avrebbe margine per disconoscere gli effetti indicati, «svincolando» quindi l’attività di accertamento e controllo.
Analogamente, i contribuenti e l’Amministrazione dovranno porre specifica attenzione alle eventuali domande contenute all’interno del quesito principale, ovvero, nel caso di interpelli «plurimi», contenenti più quesiti, alla puntuale risposta fornita (od omessa) in relazione ad ogni quesito.
Un aspetto che merita qui porre in evidenza riguarda la «tempistica» dell’istanza e della risposta, in quanto incidente sulle ordinarie scadenze fiscali e sulle aspettative dei contribuenti.
È chiaro infatti che, se il comportamento prospettato (ad esempio, il realizzo di una plusvalenza da cessione di partecipazioni con riferimento alla quale è invocato il trattamento di parziale esenzione, ex art. 87 del TUIR) è destinato a realizzarsi nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale, l’interesse del contribuente ad ottenere una risposta positiva potrebbe venir meno se il decorso dei 120 giorni (eventualmente prorogabili, in caso di integrazione documentale, fino a giungere a 240 giorni complessivi) comportasse la comunicazione del parere dopo la scadenza dei termini prescritti per la presentazione della dichiarazione fiscale.
A tale proposito – atteso che, comunque, il requisito della preventività dell’interpello deve sussistere al momento della presentazione dell’istanza, e non quando è emanato il parere – potrebbero verificarsi le seguenti circostanze:
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contribuente che ha presentato l’istanza di interpello e ha attuato il comportamento prospettato prima di ricevere il parere positivo della direzione regionale;
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contribuente che ha presentato l’istanza di interpello e ha attuato il comportamento prospettato prima di ricevere il parere negativo della direzione regionale;
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contribuente che ha presentato l’istanza di interpello e ha prudenzialmente attuato un comportamento per sé più svantaggioso, ma poi riceve un parere positivo dall’Amministrazione (troppo tardi rispetto alle ordinarie scadenze fiscali).
Mentre nella prima ipotesi non sussisterebbero problemi quanto alle conseguenze del comportamento dell’istante, difforme rispetto all’interpretazione del Fisco, nella seconda ipotesi il contribuente potrebbe temere di aver innescato un’attività di controllo, «autodenunciandosi» di fronte agli uffici. Tale timore non dovrebbe però aver fondamento, dato che l’attività consulenziale dell’Amministrazione (e dell’Agenzia delle Entrate in particolare) tende a tenersi ben distinta e indipendente rispetto a quella di controllo, e quindi in nessun modo suscettibile di incidere sui piani di controllo elaborati dalle strutture operative.
Nella terza ipotesi, infine, il contribuente temeva una posizione restrittiva da parte dell’Amministrazione, ma invece, innescando la procedura di interpello, ha ricevuto una risposta a sé favorevole. In tale situazione, la dichiarazione potrebbe essere già stata presentata e le maggiori imposte già assolte: si tratterebbe dunque di rettificare tali adempimenti, per far valere i benefici concessi dall’interpello positivo.
A tale proposito, può essere rammentato che, in base all’art. 2033, c.c., «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda». Esistono poi nell’ordinamento tributario specifiche disposizioni che legittimano la rettifica della dichiarazione presentata, mentre in sede giurisprudenziale la Corte di Cassazione ha sempre convalidato la rettifica, in termini molto ampliativi, affermando la natura di «manifestazione di scienza» della dichiarazione (si veda, da ultima, la recente sentenza della Corte di Cassazione, sezione tributaria, 5.11.2010, n. 22553).
Il carattere «circostanziato e specifico» dell’istanza
L’istanza dev’essere «circostanziata», e dunque recare tutte le indicazioni che, in punto di fatto e di diritto, necessitano alla direzione regionale o centrale per procedere all’istruttoria e alla successiva emanazione del parere.
Soprattutto, atteso che comunque l’Agenzia fiscale può sopperire alla mancanza di informazioni sulle norme che si ritengono applicabili, un’istanza di interpello carente della descrizione del fatto relativamente al quale è chiesto di conoscere l’orientamento «ufficiale», può prestarsi a immaginabili difficoltà di trattazione, o persino a una pronuncia di inammissibilità.
Infatti, l’interpello ha la caratteristica di produrre un parere che vincola i controlli fiscali, e quindi si «consolida» nei confronti dell’Amministrazione; ma il parere riguarda il caso specificamente prospettato, e quindi sarebbe improduttivo – o, peggio, utilizzabile strumentalmente, perché riferito a una fattispecie vaga e indefinita -, nel caso in cui la situazione dell’istante non fosse chiaramente esposta (eventualmente, anche con il supporto della documentazione ritenuta utile dallo stesso interpellante, o richiesta dalla direzione).
Inoltre, l’istanza deve essere «specifica», ossia riferita alla particolare situazione – o alle particolari situazioni – relativamente alle quali è proposto interpello. Non è espressamente escluso l’interpello «plurimo», contenente più domande, ma – evidentemente – su ciascuna domanda l’interpellante avrà l’onere di esplicare, documentare, argomentare, e prospettare la relativa soluzione.
L’obbligo di redigere un’istanza circostanziata e specifica appare finalizzato, sostanzialmente, a circoscrivere l’area tematica sulla quale la direzione andrà a rispondere e quindi, in definitiva, ad evitare «ultrapetizioni» od «extrapetizioni», dalle quali potrebbero sorgere ulteriori incertezze od utilizzi strumentali dei pareri resi.
Gli effetti della risposta dell’Amministrazione
Nel contesto della procedura di interpello, il vincolo nei confronti dell’Amministrazione è costituito – ciò che sarà ribadito in altri termini dal decreto attuativo – solamente con riferimento all’interpellante (ovvero al contribuente nel cui interesse è presentata l’istanza dagli altri soggetti eventualmente a ciò abilitati secondo la normativa) e alla questione specifica che è oggetto dell’istanza.
L’interpello si pone insomma, in linea di principio, come una risposta specifica a una domanda specifica, e la domanda, come avviene per le pronunce giurisdizionali, circoscrive l’ambito stesso della risposta.
Tale caratteristica di «specificità» spicca particolarmente se si considerano le differenze tra l’interpello ordinario e l’interpello antielusivo: mentre, infatti, quest’ultimo è orientato a cogliere la componente «artificiosa» e «maliziosa» di comportamenti coordinati posti in essere da più soggetti, in un contesto dinamico, l’interpello ex art. 11, pur potendosi esercitare su un più ampio campo applicativo, può conoscere solamente la «fotografia» di un determinato comportamento, ossia ciò che il contribuente vuol far conoscere all’Amministrazione, omettendo il «prima» e il «dopo», nonché i «dintorni» del comportamento prospettato.
Ciò si riflette in un notevole rischio potenziale per l’Amministrazione in sede di consulenza, poiché anche una pronuncia apparentemente «innocua», non censurabile per vizi di «ultrapetizione» od «extrapetizione», potrebbe esporre il Fisco a tentativi di utilizzo indebito del parere, in sede amministrativa e giudiziale.
Secondo il secondo periodo del secondo comma dell’art. 11 in esame, se l’istanza non perviene al contribuente entro il termine di cui al primo comma (120 giorni, eventualmente prorogabili fino a 240 in caso di integrazioni documentali), «si intende che l’Amministrazione concordi con l’interpretazione o il comportamento prospettato dal richiedente». Da ciò consegue che «qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta, anche se desunta ai sensi del periodo precedente, è nullo».
Il terzo comma aggiunge che, limitatamente alla questione che è oggetto dell’istanza di interpello, l’Amministrazione non può irrogare sanzioni nei confronti del contribuente che non abbia ricevuto risposta entro il termine prescritto.
Il silenzio rappresenta, nell’istituto in esame, una potente garanzia per gli interpellanti, e inoltre rafforza l’obbligo di adempiere dell’Amministrazione, che in questo modo è soggetta non solamente ad un termine perentorio, ma anche alla «sanzione» immediata rispetto all’eventuale inadempimento.
La preventività dell’interpello
Per quanto attiene al concetto di «preventività» dell’interpello ordinario, che si incardina sull’art. 1, c. 2, del D.M. 209/2001, può essere precisato quanto segue.
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L’istanza di interpello dev’essere presentata «prima di porre in essere il comportamento o di dare attuazione alla norma oggetto di interpello»: in caso di comportamenti «continuati», come quelli consistenti, ad esempio, nella fatturazione secondo determinate modalità, gli effetti specifici dell’interpello potranno prodursi solamente con riferimento ai comportamenti successivi. A tale proposito, potrebbe registrarsi uno «sdoppiamento» della preventività; infatti, l’istanza – come sopra evidenziato – deve precedere il comportamento prospettato, ma la risposta dell’Amministrazione, il cui carattere è (pur limitatamente alla fattispecie prospettata, e nel rispetto dei vincoli delle interpretazioni centrali) «innovativo», dovrebbe esplicare i propri effetti non a decorrere dalla presentazione dell’istanza, bensì dall’emanazione del parere, o – meglio – dalla sua ricezione da parte del contribuente-istante(1).
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La brevità della norma non consente di discernere le varie ipotesi possibili, relativamente alle quali potrebbe essere prevista una specificazione, distinguendo, ad esempio:
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i comportamenti consistenti nell’esecuzione di adempimenti fiscali in tali ipotesi, la risposta – positiva o negativa – dell’Amministrazione dovrebbe intendersi riferita ai soli adempimenti successivi (con riguardo alla fatturazione, all’emissione dello scontrino o della ricevuta, alla presentazione delle dichiarazioni, alle iscrizioni in libri e registri, etc.);
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i comportamenti consistenti nell’effettuazione di atti, fatti, negozi, di rilevanza civilistica, il cui effetto fiscale sia dubbio in tali ipotesi, rimanendo valida la regola del riferimento ai soli comportamenti successivi, le operazioni relativamente alle quali sorge l’interesse del contribuente alla risposta dovrebbero ritenersi del tutto autonome rispetto alla sfera dell’«adempimento» minuto.
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Con riferimento, in particolare, al punto 2.a (comportamenti consistenti in adempimenti fiscali), occorrerebbe precisare che il quesito sulla presentazione del «dichiarativo» non dovrebbe «surrogare», o «dissimulare», un quesito volto in realtà a conoscere il trattamento tributario di una fattispecie per la quale il comportamento è già stato posto in essere.
A titolo esemplificativo, quindi, non dovrebbe potersi ammettere un’istanza formalmente volta a conoscere se il tal componente reddituale negativo dedotto possa essere indicato al rigo «X», se il vero interesse del contribuente era di ottenere la «validazione» della controversa deducibilità di tale componente negativo. In tale ipotesi, si assisterebbe infatti alla «forzatura» dell’istituto dell’interpello, nel senso dell’ottenimento ex post di un «salvacondotto» ufficiale da parte dell’Amministrazione (indotta in inganno).
Secondo quanto affermato, possono enuclearsi due categorie di interpello (non separate, ma conviventi in un unico istituto), con la finalità di distinguere meglio i tipi di problematiche affrontati dai contribuenti.
Soprattutto in relazione alle problematiche esposte dal mondo delle imprese, possono infatti incontrarsi aspetti sostanziali del diritto tributario (ad esempio, l’applicazione – nell’ambito dei conferimenti intracomunitari, dell’art. 179 anziché dell’art. 177 del TUIR), a fronte di quesiti involgenti le modalità attuative della fatturazione (sempre a titolo esemplificativo, il sistema di applicazione dell’imposta di bollo sui libri e registri dell’impresa nell’ambito della conservazione «sostitutiva» – digitale – dei documenti fiscali).
Per distinguere concettualmente i due «campi d’azione» dell’interpello, occorre focalizzare l’attenzione sul «comportamento» prospettato, che è anche il fondamentale punto di snodo dell’istituto, in quanto su du esso è provocato l’intervento interpretativo dell’ente impositore.
I rapporti con le attività di controllo e accertamento fiscale
Il rapporto tra interpello ordinario e attività di accertamento è causa di numerosi interrogativi, in parte risolti dalla prassi.
Come è noto, l’istituto dev’essere preventivo, ed è stato ritenuto incompatibile con le situazioni nelle quali il contribuente stia subendo un’attività di controllo fiscale in relazione alle problematiche sulle quali verte il quesito.
Il carattere della preventività, in tale contesto, si pone come una «garanzia» rispetto alla possibilità che l’Amministrazione renda una risposta positiva rispetto a comportamenti che sono «censurati» in sede di controllo: è infatti evidente l’inopportunità che una fase «autoritativa» dell’attività del Fisco, come quella del controllo tributario e dell’accertamento, venga prevaricata da un’attività di consulenza specifica, come quella dell’interpello.
L’intervento – successivo o contestuale – difforme rispetto all’operato dei «controllori» (degli uffici locali, regionali o centrali dell’Agenzia delle Entrate), potrebbe infatti porsi come una revoca, se non una «scomunica» esplicita, e potrebbe essere indotto solamente da una disfunzione della macchina amministrativa, cioè da una carente conoscenza della situazione dell’interpellante.
Per tale motivo, è non solamente opportuno, ma necessario, che l’Amministrazione abbia piena cognizione delle «pendenze» fiscali di coloro che ad essa si rivolgono quale «consulente», interloquendo con le proprie articolazioni amministrative preposte ai controlli (ciò che avviene comunque in un processo di «osmosi» che interessa, a contrario, anche gli organismi accertatori, interessati ad acquisire le indicazioni generali formulate in sede interpretativa).
Analogamente, non è possibile prescindere dalle attività di controllo poste in essere dai reparti della G.d.F., le cui evidenze sono comunque acquisibili sia, negli estremi, attraverso il sistema informativo dell’anagrafe tributaria (SIAT), sia mediante richiesta alla stessa G.d.F., che con l’Amministrazione civile è tenuta per legge a collaborare(2).
Inoltre, l’Amministrazione in sede di controllo dovrà tener conto degli effetti dei pareri da essa resi quale «consulente», che sono essenzialmente preclusivi nei confronti delle attività ispettive e accertative difformi, salva la possibilità di revoca, la quale però non potrà certamente essere strumentale all’apertura di un’attività di controllo fiscale (ne andrebbe, altrimenti, del rispetto dei «pilastri» di buona fede e tutela dell’affidamento, sui quali l’istituto dell’interpello poggia).
Sarebbe possibile un interpello successivo?
Si è detto che la preventività costituisce un presupposto indefettibile dell’interpello ordinario; ciò non significa che, in linea di principio, non potesse essere ipotizzato un interpello «non preventivo», anche se – evidentemente – di un tale ruling occorrerebbe stimare gli effetti in relazione alle attività di controllo ed accertamento.
Esaminando il parere del Consiglio di Stato, sez. consultiva per gli atti normativi, n. 193 del 20.11.2000 (sul regolamento attuativo), emergerebbe la possibilità di un interpello anche «successivo»: l’Organo consultivo ha infatti evidenziato che «la norma primaria non include tra i requisiti dell’interpello anche il carattere preventivo rispetto alla condotta del contribuente.
La disposizione regolamentare invece impedisce il ricorso all’interpello da parte dei contribuenti che abbiano già dato attuazione alla norma tributaria e che vogliano verificare la correttezza della interpretazione data, anche per i comportamenti futuri (relativamente ai tributi periodici) o per eventuali regolarizzazioni».
Il parere conteneva quindi il suggerimento (non accolto nel testo definitivo del regolamento) «di prevedere che l’istanza possa essere presentata anche dopo aver dato attuazione alla norma, fermo restando che il divieto di irrogare sanzioni di cui al successivo art. 5, commi 3 e 4, si applica solo per il periodo successivo alla scadenza del termine per la risposta».
Le motivazioni dell’interpello preventivo
L’opzione nel senso della necessaria «non preventività» dell’interpello appare tuttavia motivata sulla base delle seguenti considerazioni.
Si pensi al caso di un contribuente che sta subendo un’attività di verifica fiscale, con la contestazione, da parte dei verificatori, di rilievi sostanziali derivanti dall’interpretazione dei comportamenti posti in essere in sede di controllo. Potrebbe trattarsi, ad esempio, del carattere di «inerenza», ex art. 109, co. 5, del TUIR, di acquisti di beni o di servizi posti in essere nell’attività d’impresa.
Se non fosse previsto il carattere preventivo dell’interpello, il contribuente potrebbe benissimo acquisire un parere reso dalla competente direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate, il quale:
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ipotizzando un coordinamento «perfetto» con l’organo di controllo (ufficio controlli fiscali della direzione stessa, ovvero ufficio locale), dovrebbe necessariamente «appiattirsi» sulle deduzioni dei verificatori, altrimenti si registrerebbe – evidentemente – un esplicito conflitto tra funzioni e uffici all’interno dell’Amministrazione;
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in difetto di coordinamento, potrebbe essere difforme rispetto alle convinzioni dei verificatori, e in tal modo inficiare l’attività di controllo: si tratterebbe infatti di un parere sottoscritto dal direttore regionale (ovvero dal rappresentante del «vertice» dell’Agenzia delle Entrate nella circoscrizione territoriale della regione), che smentirebbe esplicitamente l’operato dei «controllori» dallo stesso gerarchicamente dipendenti.
Per i motivi esposti, gli addetti all’attività di interpello all’interno dell’Amministrazione devono compiere le necessarie «ricognizioni» nel sistema informativo dell’anagrafe tributaria (SIAT), per escludere che vi siano attività di verifica od accertamento, nonché contenziosi pendenti, riguardanti le questioni prospettate nell’istanza.
Alcune ipotesi possibili
Sorgono però le seguenti questioni:
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attività di controllo ancora «pendenti» riguardanti il contribuente (privato o impresa) solamente per alcuni anni d’imposta:
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se sono stati formulati rilievi sostanziali nelle materie oggetto di interpello, questi possono risultare preclusivi del parere, che deve essere dichiarato inammissibile;
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in assenza di rilievi sostanziali nelle materie oggetto di interpello, quest’ultimo risulta certamente ammissibile;
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attività di controllo che, pur riguardando problematiche analoghe a quelle prospettate nell’istanza, si rivolgono ad altri settori impositivi (ad es., IVA anziché imposte sui redditi):
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l’eventuale declaratoria di inammissibilità è rimessa a un’autonoma valutazione dell’organismo di consulenza (direzione regionale o, nelle ipotesi normativamente previste, centrale);
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attività di controllo su problematiche analoghe a quelle prospettate nell’istanza definite mediante accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, procedure di sanatoria:
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la definizione intervenuta, evidentemente, prevale sull’eventuale possibilità di far valere un parere difforme, dato che in sede di adesione – o nelle altre ipotesi sopra indicate – il contribuente avrebbe condiviso nel merito l’impostazione data al problema attraverso il contraddittorio con l’ufficio;
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atteso che, nella prassi operativa, si incontrano verbali contenenti più rilievi, recepiti in toto o anche solo in parte nell’accertamento, definiti totalmente o parzialmente, etc., è evidente che le ipotesi particolari dovranno essere affrontate analiticamente dall’Amministrazione;
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attività di controllo che sono state definite mediante annullamento totale o parziale in autotutela, ovvero mediante l’archiviazione totale o parziale del p.v.c.:
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si ritiene che, comunque, l’attività posta in essere dall’Amministrazione in veste «autoritativa» debba esser fatta prevalere, e quindi l’emanazione del parere successivo non possa prescinderne, altrimenti si giungerebbe ad avere una «nota» sottoscritta dall’organo di vertice (direttore regionale o centrale), che smentirebbe (revocandola?) l’attività di controllo svolta dalla stessa Amministrazione;
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contenzioso in corso su problematiche analoghe a quelle prospettate nell’istanza:
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tale ipotesi dovrebbe risultare preclusiva del parere, in quanto si controverte su questioni che contrappongono contribuenti e Fisco, e – certamente – in tale ipotesi difetta in modo assoluto il carattere della preventività. Ad ogni modo, anche in tale ipotesi non si potrebbe prescindere da una valutazione dell’Amministrazione, intesa a definire i contorni della fattispecie prospettata nell’istanza e i profili di «similitudine» con quella che è oggetto della controversia.
La prassi pregressa dell’Agenzia delle Entrate in materia di preventività
Secondo le precisazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 31.5.2001, n. 50/E (par. 2.2), «in conformità alla ratio dell’istituto, concepito in funzione dell’interesse dei contribuenti a conoscere l’indirizzo interpretativo dell’Amministrazione finanziaria, allo scopo evidente di porsi al riparo o, comunque, conoscere preventivamente gli esiti dell’attività di controllo, il comma 2 dell’articolo 1 richiede che l’istanza possa essere presentata soltanto prima di porre in essere il comportamento rilevante ai fini tributari (ad esempio, prima di presentare la dichiarazione dei redditi, prima di assolvere l’imposta di registro connessa con la registrazione dell’atto, prima di emettere la fattura IVA ecc.).
Il mancato rispetto di tale condizione non preclude in via di principio la possibilità di acquisire comunque il parere dell’Agenzia, ma impedisce che la richiesta presentata possa essere trattata come “interpello del contribuente” sul piano degli effetti».
Da ciò si evince che:
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l’interpello ordinario è finalizzato ad evitare un contrasto con il Fisco eventuale e successivo, e non a risolvere una situazione «pregressa» (la quale è invece affrontabile attraverso le istanze di archiviazione ed autotutela, l’accertamento con adesione e gli altri strumenti «deflativi» del contenzioso, oltre che con il tradizionale strumento del contenzioso tributario);
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nel caso di un interpello «successivo» difforme rispetto all’attività di controllo, esso – anche senza che l’Amministrazione ne faccia menzione nel parere emesso – non sarà produttivo degli effetti tipici che si ricollegano allo strumento, anche se, com’è evidente, potrà essere strumentalmente utilizzato dall’istante in tutte le sedi (e soprattutto in quella giudiziale), apparendo come un’esplicita «smentita» del controllo stesso da parte della direzione regionale o centrale.
A tale ultimo riguardo, si richiama però l’attenzione sul fatto che gli effetti dell’interpello restano circoscritti a un fatto specifico e alla situazione personale del contribuente-istante: ne è quindi impossibile l’utilizzo come un’istruzione ufficiale a valenza «erga omnes».
I chiarimenti della circolare del 2010
La circolare n. 32/E del 14.6.2010, emanata dalla DCN dell’Agenzia delle Entrate, affronta il tema dell’interpello con un nuovo approccio, manifestamente orientato alla prevenzione dei possibili abusi dell’istituto.
Si evidenzia che la circolare prende in considerazione unitariamente numerosi aspetti che sono comuni alle varie tipologie di ruling: a tale riguardo, giacché il presente contributo concerne direttamente la problematica della preventività, si ritiene di omettere i profili specificamente riferiti all’una o all’altra tipologia, nonché quelli riguardanti ulteriori aspetti delle procedure di interpello e disapplicazione.
È comunque opportuno evidenziare che l’istituto in esame trova la propria esaltazione nell’ambito della totale compliance e nella trasparenza di ambo le parti del rapporto, e quindi dovrebbe intendersi come assolutamente estraneo rispetto al contesto accertativo/sanzionatorio.
È però anche un mezzo delicato, che effettivamente pone dei problemi di possibile abuso, e richiede pertanto dal lato dell’amministrazione l’attitudine a riconoscere il «pericolo» e a prevenirlo, se del caso evitando di rispondere (mediante declaratoria di inammissibilità), ovvero «isolando» la parte problematica del quesito.
Occorre infatti considerare che l’ufficio preposto non «vede», in sede di interpello, tutta la situazione contestuale che è sottesa e circostante rispetto al quesito proposto: quest’ultimo è spesso solamente la «punta dell’iceberg» rispetto a una situazione complessa, che riguarda la vita delle imprese e degli scambi con terze economie, magari entro un gruppo economico-giuridico, in un contesto caratterizzato da transazioni complesse, contratti, etc. Per tale ragione, i pareri espressi terminano spesso con formule di chiusura che non escludono la possibilità di controllo successivo per l’ufficio, specialmente nella forma «antielusiva» di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.
Gli interpelli obbligatori
La circolare in esame qualifica determinati interpelli come «obbligatori», e nel fare ciò compie un passo deciso nella direzione dell’inserimento della procedura di ruling all’interno del rapporto tributario, come un «preludio» – non incidentale, ma necessaria – al procedimento di accertamento: ciò nondimeno, la risposta mantiene però la propria natura di parere, non pregiudicando per il contribuente-istante l’eventuale comportamento difforme.
Insomma: se il contribuente ritiene ad esempio di poter considerare fiscalmente neutrale una determinata operazione, che l’amministrazione ritenesse invece concorrente alla base imponibile, egli potrebbe comunque evitare di inserire in dichiarazione l’indicazione del relativo valore, e tale situazione non dovrebbe poter costituire «fonte d’innesco» per l’attività di controllo.
Tale aspetto è tuttavia assai delicato, perché:
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la domanda che è oggetto dell’interpello viene rivolta allo stesso Ente che presiede alle attività di controllo e accertamento;
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in presenza di una risposta positiva all’interpello, tale Ente ha la facoltà di controllare che il contribuente si sia effettivamente comportato in conformità rispetto alla risposta resa (e che abbia previamente fornito una corretta rappresentazione della fattispecie);
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in presenza di una risposta negativa, gli organismi di controllo non trovano ostacoli rispetto alla possibilità di contestare il comportamento assunto come fiscalmente scorretto (se non illecito).
A tale riguardo, occorrerebbe comprendere se, ai fini della sanzionabilità dell’eventuale illecito riscontrato, la previa presentazione di interpello possa essere intesa come sufficiente a manifestare la buona fede del contribuente-istante (il quale aveva certo la facoltà di non «scoprire le carte» di fronte all’amministrazione, ma ciò nonostante ha ritenuto di stimolarne la risposta affrontando il rischio di un parere negativo).
Ritornando al discorso principale, esplicitato nella circolare, può evidenziarsi che gli interpelli ritenuti obbligatori sono quelli:
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finalizzati all’ottenimento «di un parere favorevole all’accesso ad un regime derogatorio (in talune ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile»;
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resi necessarii dall’esigenza «di consentire all’Amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive».
Le tipologie di ruling menzionate nella circolare sono costituite dalle istanze relative alle CFC(3), da quelle riferite alla disapplicazione specifica di norme antielusive (art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973)(4) e da quelle riguardanti la disapplicazione della normativa speciale in materia di società non operative (che in realtà rappresentano una «sottospecie» delle istanze disapplicative).
Riguardo a queste ultime (con considerazioni che potrebbero ritenersi applicabili anche alle altre istanze disapplicative, ad esempio in materia di riportabilità delle perdite nell’ambito di fusioni e scissioni)(5), l’Agenzia supera il precedente orientamento espresso relativamente alla possibilità di fornire le «controprove» richieste anche in sede contenziosa.
In definitiva, quindi, anche se l’interpello – comunque obbligatorio – è negativo, e a esso segue l’attività di accertamento dell’ufficio, il contribuente ha la facoltà di produrre le dimostrazioni richieste avanti la CTP.
In particolare sulla preventività
Un preciso orientamento in materia di preventività è stato espresso nel paragrafo 5.2 della circolare n. 32/E, ove l’Agenzia ha puntualizzato che, ai sensi dell’art. 11 dello Statuto, l’interpello è ordinario se la domanda precede il comportamento.
Pertanto, per i comportamenti che trovano attuazione nella dichiarazione fiscale, il contribuente deve presentare l’istanza prima della scadenza del termine ordinario di presentazione della dichiarazione medesima, «a nulla influendo la circostanza che l’inadempimento può essere sanato nei novanta giorni successivi ovvero che la dichiarazione originariamente presentata è integrabile, sia a favore del contribuente (articolo 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322 del 1998), sia a favore dell’erario (articolo 2, comma 8, del citato D.P.R. n. 322/1998)» (mentre non assume rilevanza il fatto che il contribuente sia tenuto ad effettuare versamenti anteriormente alla scadenza del termine ordinario di presentazione della dichiarazione).
Per i comportamenti che invece non trovano attuazione con la presentazione di una dichiarazione (ciò che può verificarsi, ad esempio, nel campo dell’imposta di registro), va fatto riferimento ad elementi diversi: ad esempio, alla presentazione dell’atto per la registrazione.
Da ciò consegue che le istanze di disapplicazione della disciplina CFC e le istanze di disapplicazione della disciplina antielusiva (comprese quelle riferite alle società non operative), per le quali il comportamento rilevante ai fini dell’interpello trova attuazione nella dichiarazione dei redditi, oltre – naturalmente – alle istanze di interpello ordinarie a fronte di comportamenti «dichiarativi», devono essere presentate in tempo utile, cioè 120 ovvero 90 giorni, a seconda dei casi, prima della scadenza del termine ordinario di presentazione della predetta dichiarazione.
Il difetto del requisito della preventività comporta l’inammissibilità degli interpelli, ai quali non viene fornita alcuna risposta nel merito, nemmeno a titolo di consulenza giuridica.
Quanto sopra premesso, l’Agenzia introduce comunque una previsione derogatoria rispetto alla regola generale enunciata, chiarendo che, «in via eccezionale», «per le istanze di interpello CFC e le istanze di disapplicazione della disciplina antielusiva … che hanno effetto sulla dichiarazione dei redditi 2009,…, al fine di definire il carattere della preventività si può far riferimento non al termine ordinario di presentazione della dichiarazione bensì al termine (novanta giorni) entro cui le dichiarazioni si considerano validamente presentate (ex articolo 2, comma 7 del D.P.R. n. 322 del 1998)».
Insomma: l’istanza CFC e l’istanza «disapplicativa», anche riferita alle società di comodo (ma anche, con tutta evidenza, l’interpello ordinario in tema di comportamenti «dichiarativi») deve intendersi come preventiva se presentata per lo meno 90 giorni prima del termine di presentazione della dichiarazione (solitamente, il 30 settembre dell’anno): per il solo 2010 (con riferimento al periodo di imposta 2009), il termine utile è quello dei novanta giorni utilizzabili per la «valida presentazione» della dichiarazione. Si chiarisce inoltre che il termine dei 120 giorni anteriori si applica alle istanze ordinarie e CFC, e quello dei 90 giorni anteriori alle istanze di disapplicazione.
Istanze ordinarie, CFC e rispetto della preventività
Le disposizioni in materia di società controllate e collegate estere (CFC) sono state oggetto delle recenti modificazioni apportate dall’art. 13, D.L. 1.7.2009, n. 78, convertito dalla L. 3.8.2009, n. 102. Le problematiche collegate alle società CFC sono state esaminate dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 51/E del 6.10.2010, che in molti punti richiama la predetta circolare «generale» n. 32/E sugli interpelli.
In particolare, secondo la nuova pronuncia, l’istanza per la disapplicazione della CFC rule dev’essere inoltrata all’Agenzia delle entrate preventivamente: in coerenza con la circolare n. 32/E, è a tale riguardo precisato che, ai fini della verifica della preventività, il comportamento (costituito dall’indicazione del reddito della società CFC) trova attuazione nella dichiarazione dei redditi, e dunque l’istanza dev’essere presentata – a pena di inammissibilità – in tempo utile per ottenere la risposta prima della scadenza del termine ordinario di presentazione della dichiarazione, «a nulla rilevando la circostanza che l’inadempimento può essere sanato nei 90 giorni successivi ovvero che la dichiarazione originariamente presentata è integrabile, sia a favore del contribuente, sia a favore dell’erario».
«Pertanto, se un contribuente con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare intende chiedere la disapplicazione della CFC rule con riferimento ad una controllata estera per il periodo d’imposta 2010, la relativa istanza dovrà essere presentata entro il 1° giugno 2011, posto che il termine ordinario per l’invio della relativa dichiarazione dei redditi scade il 30 settembre 2011».
In sostanza, mediante le richiamate istruzioni di prassi si è inteso fare in modo che i tempi ordinari per l’istruttoria del parere venissero a coincidere con il termine massimo entro il quale l’istanza può considerarsi preventiva. Dovrebbe divenire in tal modo impossibile la situazione – finora ricorrente – in cui l’istanza veniva presentata in tempo utile (cioè entro il termine per la presentazione della dichiarazione fiscale), e quindi il comportamento veniva posto in essere anteriormente all’emanazione del parere da parte dell’Agenzia delle Entrate (che, chiaramente, poteva essere difforme rispetto alla prospettazione fatta dall’istante, ossia consistente, nel caso delle istanze CFC, nel diniego alla disapplicazione).
Una situazione simile avrebbe richiesto, in caso di non conformità tra il comportamento del