Le prove nel processo tributario – seconda parte

di Antonino Pernice

Pubblicato il 18 maggio 2010

prosegue l'esaustiva guida anlle prove ammissibili nel processo tribuario
 


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5. ESEMPI DI PRESUNZIONI NELL’ACCERTAMENTO FISCALE.


1) Esempi di presunzioni legali previste dalla legge a favore dell’ufficio sono:


  • le presunzioni di ricavi per i versamenti (e prelievi) bancari (art.51, dpr 633/72, e, art.32 dpr 600/73);

  • la presunzione di un certo reddito nel caso di possesso di beni che implicano una certa capacità contributiva (art.38 dpr 600/73);

  • cessione e acquisto di beni non presenti in magazzino (art.53, dpr 633/72);

  • quelle nel settore immobiliare;

  • la presunzione di residenza nel territorio dello Stato delle persone fisiche emigrate in Paesi a regime fiscale privilegiato (art.3, dpr 917/86).


La Cass. n.1876 del 27.08.09, ha affermato che “le presunzioni legali possono valere solo per un tributo e non per altri: ad esempio, l’art.6 dpr 633/72 prevede che la merce detenuta “in conto visione” per oltre un anno si presume ceduta: questa presunzione vale solo per l’Iva e non è utilizzabile ai fini delle imposte sui redditi, per contestare ricavi non dichiarati.


Nel processo tributario, le presunzioni legali funzionano come deroga all’ordinario criterio di ripartizione dell’onere della prova: data una determinata situazione (ad esempio il possesso di un certo bene) la legge presume che il contribuente sia titolare di un certo reddito. Perciò, spetta al contribuente dimostrare che quella situazione di fatto non costituisce una capacità reddituale tassabile o perché già ne ha tenuto conto.


Nel caso di presunzioni legali, è sufficiente fare riferimento alle risultanze probatorie acquisite ed alla previsione normativa che ne conferisce rilievo di presunzione legale, specificando, in caso di presunzione relativa, se la prova contraria sia stata o meno fornita e, in caso affermativo, esponendo le motivazioni per cui si ritiene che detta prova contraria sia o meno idonea a superare l’effetto probatorio stabilito dalla norma.


Invece, nel caso di presunzioni semplici o semplicissime (non legali), è necessario esplicitare in modo puntuale, argomentata e logicamente consequenziale, le ragioni per cui si ritiene che gli elementi presuntivi utilizzati siano idonee a comprovare i fatti o le situazioni che si intende dimostrare.


Tale dettagliata motivazione è obbligatoria nei casi di utilizzo del metodo analitico/induttivo, fondato sulle risultanze contabili del contribuente, esistenti, formalmente corrette e generalmente attendibili ed assistite dalla generale “presunzione di veridicità” riconosciuta dalla legge.


La giurisprudenza di legittimità, riguardo alle presunzioni semplici utilizzabili nel metodo analitico – induttivo, ha affermato che:


  • non si richiede che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile secondo un legale di necessari età assoluta ed esclusiva, essendo sufficiente che, in base alle regole di esperienza, il fatto ignoto sia desumibile alla stregua di un fatto solo probabile con riferimento ad una connessione di accadimenti ragionevolmente verosimile in base ad un criterio di normalità;


  • le presunzioni possono risultare gravi, precise e concordanti anche se desunte da dati di comune esperienza, sempre che rapportati, in modo concreto e significativo, agli specifici elementi propri della fattispecie presa in esame;


  • la prova per presunzioni non richiede come presupposto una pluralità di fatti noti, risultando sufficiente che tutti gli aspetti anche di un solo fatto noto, in assenza di circostanze contrarie, siano univoci e concordanti sul verificarsi del fatto ignoto.


Esempi di presunzioni semplici.


Soltanto nei casi tassativamente indicati dalla legge, le presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (c.d. semplici o semplicissime) possono essere considerate fonti di prova.


2) L’accertamento induttivo nei casi previsti dall’art.39, 2^ c. dpr 600/73:

In deroga alle disposizioni del comma precedente l'ufficio delle imposte determina il reddito d'impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma:

a) quando il reddito d'impresa non è stato indicato nella dichiarazione;

b) abrogato;

c) quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell'art.33 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all'ispezione una o più scritture contabili prescritte dall'art.14, ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;

d) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica. Le scritture ausiliarie di magazzino non si considerano irregolari se gli errori e le omissioni sono contenuti entro i normali limiti di tolleranza delle quantità annotate nel carico o nello scarico e dei costi specifici imputati nelle schede di lavorazione ai sensi della lettera d) del primo comma dell'art.14 del presente decreto;

d-bis) quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell'art.32, 1^ c., nr.3) e 4), del presente decreto o dell'art.51, 2^ c., nr.3) e 4), dpr 633/72”.


Perché il giudice possa desumere da un fatto noto quello ignoto è necessario che tra i due fatti esista un rapporto di inferenza, che sebbene stabilito alla stregua di un canone di probabilità, sia esclusivo nel senso che, sia pure con il metro della probabilità, da fatto noto sia possibile inferire solo quello ignoto (Cass. n.12088 del 28.11.98; n.7954 del 23.07.99).


Nella prova per presunzione, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi dalla esistenza del primo come conseguenza ragionevolmente possibile verosimile.


La Circ. 32/E del 19.10.06, ha affermato che “In caso di ricostruzione del reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti, l’ufficio non può non tenere conto, soprattutto in assenza di documentazione certa, di un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi accertati; regola che, ovviamente, vale anche se in tutto o in parte i maggiori ricavi siano stati assunti tramite indagini bancarie. Tale riconoscimento resta escluso ai fini Iva poiché nel meccanismo di tale tributo la base imponibile è costituita dall’insieme dei soli corrispettivi dovuti al cedente o al prestatore”.


3) Le presunzioni di cessione disciplinate dal D.P.R. 441/1997:

Le differenze quantitative scaturenti in sede di verifica dal raffronto tra le risultanze contabili delle scritture ausiliarie di magazzino (di cui alla lett. d) dell'art. 14 comma 1, del D.P.R. 600/1973) o dalla documentazione obbligatoria emessa e ricevuta e la consistenza delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d'imposta oggetto di controllo (art. 4 del D.P.R. 441/1997).

La norma richiamata prevede un'ulteriore presunzione legale per quanto concerne il momento di cessione o di acquisto.

L' art. 4 comma 1, D.P.R. 441/1997 prevede infatti che gli effetti delle presunzioni operano al momento dell'inizio degli accessi, ispezioni e verifiche.

In particolare, con riferimento alle presunzioni di cessione, l'art. 1 stabilisce che si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni o in quelli dei suoi rappresentanti.

Ne deriva che ogni qual volta in sede di accessi, ispezioni e verifiche risulti un mancato rinvenimento di beni precedentemente oggetto di acquisizione (nelle varie forme appena sopra considerate), si verifica il presupposto della presunzione “legale” di cessione, che può essere "vinta" solamente fornendo la prova contraria con i mezzi tassativamente e specificamente previsti dalla norma tributaria.

Tali mezzi sono indicati nello stesso regolamento all'art. 3 e - insieme alla disamina dell'intero D.P.R. 441/1997 - sono oggetto di specifica analisi nella Circ. 193 del 23.07.98.

Essi sono differenti a seconda delle cause che hanno portato alla perdita di disponibilità del bene da parte dell'azienda.

Si distinguono a seconda che queste siano a fronte di:

  • consegna a terzi a titolo non traslativo della proprietà;

  • cessioni gratuite di beni fatte a enti pubblici, associazioni riconosciute o fondazioni con finalità di assistenza, beneficenza ecc. e alle ONLUS di cui all'art. 10, n.12), D.P.R. 633/1972;

  • perdita della disponibilità del bene per effetto di eventi fortuiti, accidentali e comunque indipendenti dalla volontà del soggetto;

  • distruzione dei beni o trasformazione in beni di altro tipo e di più modesto valore economico;

  • vendite in blocco od operazioni similari.

Si sottolinea che vi sono delle "Forme vincolate" per rendere inoperante la presunzione di cessione.

Nel caso di distruzione di beni (o di loro trasformazione in prodotti di modesto valore economico), il 4^ c. dell'art.2 del D.P.R. 441/1997 stabilisce una procedura generale e una alternativa semplificata qualora la dismissione dei beni avvenga per opera di soggetti abilitati il cui oggetto di attività consiste nello smaltimento dei rifiuti:

  • La procedura "generale" prevede che la distruzione dei beni deve essere provata da una comunicazione scritta diretta agli uffici e ai comandi della G. di F. e dal verbale compilato dai funzionari dell'A.F., da ufficiali di polizia tributaria o da notai che hanno presenziato alle operazioni, nonché, nel caso di successiva movimentazione dei beni che si ottengono dalla distruzione o trasformazione, dal documento di trasporto di cui al D.P.R. 472/1996.

Ovvero da dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi della L. n.15 del 04.01.68, se l'ammontare dei beni distrutti o trasformati non sia superiore a lire 10 milioni.

Da tale verbale o dichiarazione di atto notorio devono risultare: data, ora e luogo in cui avvengono le operazioni, nonché natura, quantità, qualità e ammontare del costo dei beni distrutti o trasformati.

La comunicazione deve essere effettuata su apposito modello ministeriale da inviarsi agli Uffici delle entrate o, in mancanza, agli Uffici delle Imposte dirette e ai Comandi della G. di F. (competenti in relazione al luogo ove avviene la distruzione o trasformazione).

Tale comunicazione deve pervenire almeno 5 giorni prima dell'operazione di distruzione o di trasformazione.

La comunicazione stessa, da redigersi in attesa del modello ministeriale su carta libera, deve contenere: il luogo, la data e l'ora in cui verranno poste in essere le operazioni, le modalità di distruzione o di trasformazione; la natura, qualità e quantità dei beni; l'ammontare complessivo, sulla base del prezzo di acquisto, dei beni da distruggere o trasformare nonché il valore ottenibile dalla distruzione o trasformazione. Si evidenzia che tale comunicazione non è necessaria (e, quindi, non deve essere inviata), quando la distruzione è disposta da un organo della Pubblica amministrazione.

  • Questa necessità di documentazione non si verifica, e pertanto non è richiesta, qualora la rottamazione (intesa come volontaria distruzione) non venga operata direttamente, ma si realizzi mediante l'ausilio di soggetti terzi (La dismissione avviene ad opera di soggetti abilitati allo smaltimenti dei rifiuti (decreto Ronchi, D.Lgs. 22/1997).

In questo caso, infatti, il trasferimento della proprietà del bene a un soggetto che dovrà necessariamente distruggerlo assicura che lo stesso non sarà più oggetto di scambi rilevanti ai fini IVA e che non produrrà più reddito tassabile.

Effetti ai fini Iva dell’operazione di distruzione: il D.P.R. 441/1997 ha di fatto sostituito, con effetto dal 07.01.98, l'art.53 del D.P.R. 633/1972. Quindi, quanto sopra riportato costituisce parte integrante della normativa IVA.

Ne deriva che:

se la procedura di rottamazione viene attuata nel rispetto della suddetta normativa, l'operazione non è tassabile ai fini IVA in quanto risulta mancante del requisito oggettivo previsto dall'art. 1 del D.P.R. 663/1972;

se, viceversa, la rottamazione non viene attuata nel rispetto delle regole sopra previste, il Fisco presume che i beni siano stati ceduti in evasione di IVA a far data dal momento in cui viene rilevata tale presunzione.

In base al combinato dell'art.6 D.Lgs. 471/1997 e degli artt.13, 2^ c., e 14, 3^ c., D.P.R. 633/1972, la sanzione amministrativa in questo caso prevista è pari a 1/2 volte il valore dell'imposta evasa determinata sul valore normale dei beni per i quali si presume la cessione.

Effetti ai fini delle imposte dirette e IRAP dell'operazione di distruzione: quanto detto in termini di presunzione ai fini IVA ha validità anche per quanto attiene le imposte sui redditi e IRAP.

In questo caso le modalità previste per rendere inoperante la presunzione di cessione permettono di evitare la presunzione di occultamento di ricavi e nel contempo costituiscono elemento considerato "certo e preciso" al fine di procedere alla deduzione delle eventuali perdite correlate ai beni oggetto di rottamazione.

In linea generale la presunzione di cessione rileva anche ai fini IRAP se oggetto della dismissione sono "beni strumentali impiegati nella normale attività produttiva, commerciale o di servizi che vengono alienati per effetto del deperimento economico-tecnico.

Questo in quanto gli effetti della dismissione di tali beni (vale a dire plusvalenza - minusvalenza) incidono su poste del conto economico rilevanti ai fini di tale imposta.

In termini negativi, qualora il contribuente non sia in grado di provare l'avvenuta distruzione dei beni, il Fisco presume che i beni siano stati ceduti in evasione di imposte dirette e IRAP a far data dal momento in cui viene rilevata tale presunzione.

Questo comporta non solo che nell'anno di accertamento dovrà essere rilevato un maggior imponibile pari alla differenza tra il valore normale del bene oggetto di presunta cessione e il valore di ammortamento dello stesso, ma risulteranno dovute le imposte, e le correlate sanzioni e interessi, connesse al minor imponibile rilevato nell'anno di dismissione del bene a seguito dell'eventuale minusvalenza contabilizzata.

La sanzione amministrativa in questo caso prevista è pari a 1/2 volte il valore dell'imposta evasa (art. 1 D.Lgs. 471/1997).

4) Criteri per stabilire il valore normale dei beni immobili (presunzione legale relativa) e ritorno alle presunzioni semplici.

L'art.1, comma 307, L. 296/2006 attribuisce all'Agenzia delle Entrate il compito di fissare periodicamente con apposito provvedimento i criteri utili per la determinazione del valore normale (o valore venale in comune commercio) dei fabbricati ai fini delle imposte dirette ex art. 9, co. 3, D.P.R. 917/1986, ai fini dell'Iva ex art. 14, D.P.R. 633/1972 e ai fini dell'imposta di registro ex art. 51, co. 3, D.P.R. 131/1986.

L’Agenzia delle entrate, in data 27.07.07, ha emanato il provvedimento che fissa i criteri per la determinazione periodica del valore normale degli immobili oggetto di compravendita ai fini delle diverse imposte interessate (Iva, delle imposte sui redditi e di registro).


In particolare, tali criteri sono stabiliti sulla base dei valori dell'Osservatorio del mercato immobiliare dell'Agenzia del Territorio e di coefficienti di merito relativi alle caratteristiche che influenzano il valore degli immobili, integrati da altre informazioni in possesso dell'Ufficio.


Tali criteri si distinguono a seconda che l'immobile sia ad uso abitativo o meno:


  • il valore normale degli immobili ad uso abitativo si ottiene dal prodotto fra la superficie risultante dal certificato catastale (o, in mancanza, calcolata ai sensi dell'Allegato C, D.P.R. 138/1998) e il valore unitario determinato sulla base delle quotazioni immobiliari dell'Osservatorio del mercato immobiliare e dei coefficienti di merito relativi alle caratteristiche dell'immobile (taglio, livello del piano, categoria catastale);


  • il valore normale degli immobili diversi da quelli abitativi si ottiene dalla media fra il valore minimo e quello massimo espresso dall'Osservatorio del mercato immobiliare riferiti al periodo dell'atto di compravendita e allo stato conservativo normale per la particolare destinazione dell'immobile;


  • il valore degli immobili ultimati o ristrutturati da non più di 4 anni si ottiene sulla base dello stato conservativo ottimo censito dall'Osservatorio del mercato immobiliare (o, in mancanza, applicando al valore che si ottiene nei due casi suddetti, immobili abitativi e non, un moltiplicatore pari a 1,3).


Tali criteri sono emanati per garantire una uniforme e corretta applicazione delle disposizioni che, in relazione ai diversi ambiti impositivi, permettono la rettifica da parte dell'Agenzia delle Entrate dei valori degli immobili dichiarati dai contribuenti in atti, se si rivelano difformi dal valore normale.


Tali criteri, quindi, hanno valore probatorio. Infatti, lo scostamento fra il valore normale e quello dichiarato dalle parti nell'atto di compravendita rappresenta, di fatto, una presunzione legale relativa a favore del Fisco, che dimostrerebbe il fatto che parte del corrispettivo è stata occultata, salvo prova contraria da parte dei contribuenti coinvolti, con l'inversione quindi dell'onere della prova (C.M. 13.7.2007, n. 170/E). 


La legge Comunitaria 2008, approvata definitivamente il 23.6.2009, all'art. 16-bis mira a riportare l'attività accertativa immobiliare nella modalità ante D.L. 223/2006: in particolare, per effetto di tali modifiche l'art. 54, c. 3, D.P.R. 633/1972 e l'art. 39, c. 1, D.P.R. 600/1973 vengono sostanzialmente riportati alla formulazione anteriore all'intervento normativo del 2006.


In sostanza, viene eliminata la modalità fondata nell'ambito dell'accertamento/rettifica di tipo analitico-induttivo sul valore normale dei beni immobili. In altre parole, negli accertamenti immobiliari viene eliminato il riferimento ai valori di mercato.


Pertanto, per le compravendite di immobili le presunzioni "automatiche" dei Fisco tornano ad essere semplici e dovranno essere dimostrate dall'Ufficio.


Niente più automatismo dell'equazione valore normale - corrispettivo della cessione e quindi gli Uffici dovranno provare, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, l'evasione del contribuente.


Ne consegue che, come era in passato, lo scostamento tra valore normale e prezzo dichiarato, potrà:


  • rappresentare un mero indizio di evasione, alla stregua di quella che viene anche definita presunzione "semplicissima". Tale indizio potrà anche essere isolatamente utilizzato in sede di accertamento ma solo in presenza di una delle fattispecie che legittimano un accertamento induttivo puro, ex art. 39, c. 2, D.P.R. 600/1973;


  • le presunzioni semplici assurgono ad elemento probatorio certo, allorché presentino i noti requisiti della gravità, precisione e concordanza (accertamento di tipo analitico-presuntivo ex art. 39, c. 1, lett. d), D.P.R. 600/1973).


5.1 Divieto di presunzioni di secondo grado o della doppia deduzione (c.d. praesumptio de praesumpto).


È inibito che da un fatto noto si deduca un primo fatto ignoto e da questo un secondo fatto ignoto in base a quanto previsto dall’art.2727 c.c. che consente soltanto un’unica deduzione.


Infatti, l’art.2727 c.c. prevede che la presunzione è un mezzo di prova consistente nella deduzione di un fatto ignoto direttamente ed immediatamente da fatti e circostanze noti.


La Cass. n.3306 del 13.05.83, ha affermato “il divieto del c.d. praesumtum de praesumpto. Cioè, una volta accertata in via presuntiva l’esistenza di un fatto ignoto, non è ammesso dedurre da questo fatto ignoto, sempre in via presuntiva, l’esistenza di un altro fatto, anch’esso ignoto.


La ratio di questo divieto si base sull’esigenza di evitare che tanto maggiore sia la concatenazione dei ragionamenti induttivi, tanto minore sia la probabilità dell’esattezza del ragionamento effettuato.


Tuttavia, tale divieto scatta soltanto in presenza di una catena di presunzioni semplici.


6. LA PARTA’ DELLE PARTI E IL DIVIETO DELLA PROVA TESTIMONIALE NEL PROCESSO TRIBUTARIO.


La Cass. n.20526 del 22.09.06, ha affermato che “se nella fase amministrativa dell’accertamento e della riscossione dei crediti tributari la legge riconosce all’A.F. poteri sovraordinati rispetto alle controparti, quando però si entra nell’ambito del processo le parti devono essere collocate su di un piano di parità”.


Dinanzi alle C.T., l’A.F. si trova sullo stesso piano del contribuente” (Cass. n.8890 del 13.04.07).


L’art.111, 2^ c., Cost. prevede che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.


Nonostante tale dettato normativo, fino a questo momento, non è possibile sostenere che le presunzioni siano incostituzionali.


Ancora si possono citare altri casi di protezionismo per l’Erario. Ad esempio nel caso previsto dall’art.2729 c.c. che le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni.


Tuttavia, la disposizione contenuta nell’art.7, 4^ c. d.lgs. 546/92 che: “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, non comporta anche l’inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art.2729, 2^ c., del c.c., in quanto, come afferma la Cass. Sez. I, n.12854 del 19.12.97, “tale norma è inapplicabile nel processo tributario, nel quale l’esclusione della prova testimoniale è dettata da un’esigenza di speditezza e la relativa disposizione va considerata di carattere eccezionale, con la conseguenza che non può essere applicata oltre i casi considerati”.


Il giudice può desumere elementi di prova anche dalle dichiarazioni confessorie di un terzo richiamate nel rapporto della G. di F. (prodotto in giudizio) e quindi, di indizi, liberamente valutabili dal giudice stesso secondo il suo prudente apprezzamento. Dette dichiarazioni non configurano una prova testimoniale (intendendosi per testimonianza la narrazione compiuta da un terzo innanzi ad un giudice, nel contraddittorio delle parti), espressamente non ammesse nel vigente processo tributario (Cass. n.21268 del 02.11.05; n.14427 del 22.12.99; n.2992 del 01.03.02).


Però, se le presunzioni legali servono ad agevolare gli interessi dell’Erario, l’art.111 Cost. tutela interessi di rango equivalente, se non superiore (il giusto processo e la parità delle parti nel giudizio).


In attesa di una revisione del processo tributario, si può dire che un’apertura a vincere tale contrasto viene dalla Cass. sent. n.16472 del 18.06.08, dove afferma che “contrariamente alla tesi sostenuta dall’amministrazione, questa Corte ha già statuito in consimili fattispecie che la determinazione del reddito effettuata sulla base dell’applicazione del c.d. “redditometro”, di cui al D.M. 10.09.92 e D.M. 19.11.92, non impedisce al contribuente di dimostrare, in modo concreto, che egli possiede un reddito inferiore, poiché le presunzioni poste dal redditometro sono soltanto relative e non assolute; per cui la prova contraria non è limitata a quella prevista dal dpr 600/73, art.38, comma 5, (e cioè che il maggior reddito accertato è costituito dai redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta), ma è consentito dimostrare che il reddito presunto sulla base del coefficiente non esiste o esiste in misura inferiore.

Quindi, la prova testimoniale (come il giuramento) continua a non essere ammessa quale prova nel processo tributario (Corte Cost., sent. n.18 del 20.1.2000, ed ord. n.324 del 27.7.2001, confermandosi così la legittimità costituzionale dell'art. 7 nella parte in cui prevede il divieto della prova testimoniale: conforme: Cass., sent. n.21267 del 02.11.2005).

Tale divieto riguarda sia la prova testimoniale in sé, sia i documenti (contenenti eventuali prove testimoniali), destinati a sostenere affermazioni corrispondenti ad un verbale di testimonianza.

Si evidenzia che la Cass., sent. n.25713 del 09.1.2009, ha ammesso la prova testimoniale nel processo tributario, affermando che “Il contribuente impossibilitato - a seguito del subito furto - ad esibire, in sede di verifica e di accertamento, i documenti contabili (registri e fatture) la cui tenuta è obbligatoria non è ipso facto esonerato dall'onere della prova della sussistenza dei crediti esposti in dichiarazione annuale ai fini dell'imposta sul valore aggiunto. Soccorre, in tale ipotesi, la regola generale di cui all'art. 2724 n. 3 c.c., secondo la quale la parte è autorizzata alla deduzione di prova testimoniale o per presunzioni”.


La sentenza conferma un indirizzo giurisprudenziale che va ormai consolidandosi, pur se il 4^ c., dell’art.7 d.lgs. 546/92, prevede che la prova testimoniale non costituisce un mezzo istruttorio ammesso nel processo tributario.


Tale esclusione, già vigente nel vecchio processo, trae giustificazione dalla natura documentale del processo tributario, pur se è di diverso avviso larga parte della dottrina, che ritiene processualmente incongrua la posizione delle parti in un processo che prevede a favore dell'Erario l'utilizzabilità di innumerevoli presunzioni cui non è possibile contrapporre la prova testimoniale.


Dunque, la Corte supera il divieto della prova testimoniale nel processo tributario, previsto dall’art.7, 4^ c., d.lgs. 546/92, attraverso l’art.2724, n.3), del c.c., che ammette la prova per testimoni in tutti i casi in cui il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.


6.1 Indicazioni della Cassazione (ord. n.149 del 08.01.2010), sul sistema delle prove nel processo tributario.


In merito ai rapporti tra prova testimoniale e dichiarazioni di terzi prodotte nel corso del giudizio (di supporto alla difesa del contribuente), nelle forme dell'atto notorio e della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, diversa è la confessione stragiudiziale:


  • la "confessione stragiudiziale" (art. 2735 c.c.) è la dichiarazione resa dal contribuente al di fuori del processo, con la quale riconosce la verità di fatti e circostanze a lui sfavorevoli;


  • l’atto notorio è l’attestazione di fatti pubblicamente noti rese in forma solenne al notaio. L'art.1 della L. 89 del 16.02.1913 concede ai notai (anche) "la facoltà di ricevere con giuramento atti di notorietà in materia civile e commerciale". Esso si caratterizza per la presenza di due attestanti, (non risultando necessario l'intervento del diretto interessato), che - dopo il giuramento di rito e l'ammonizione sull'obbligo di dire la verità - rendono la dichiarazione. Esso fa prova fino a querela di falso della provenienza dal pubblico ufficiale ricevente, del luogo e della data di ricevimento, nonchè del fatto che gli attestanti abbiano reso determinate dichiarazioni, ma non della veridicità del contenuto di quest'ultime;


  • la dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, invece, è l'attestazione di fatti resa dallo stesso interessato, ai sensi del D.P.R. 445/2000, che - alla luce di quanto prima detto sulla c.d. "confessione stragiudiziale" - potrebbe rientrare nel processo solo se contenente fatti e circostanze sfavorevoli al contribuente.


Ciò premesso, si ribadisce che la regola dell'onere della prova fissata dall'art.2697 c.c. si applica anche nel processo tributario.


Tranne che per le cause di rimborso (nelle quali è il contribuente ad attivarsi per la prova dei fatti sui quali si fonda la pretesa restitutoria), nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie è l'ufficio finanziario ad essere onerato dalla prova del fondamento delle sue pretese (Cass., sez. trib., n.10148 del 02.08.2000).


L'amministrazione, invero, è attore in senso sostanziale e, quindi, su di essa grava l'onere della prova.


Fermo restando che:


  • l'art.7, 4^ c., d.lgs. 546/92, vieta nel processo tributario "il giuramento e la prova testimoniale";


  • la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell'art.7, non riscontrando, nella scelta (discrezionale) del legislatore, l'eccepito contrasto con gli artt.3, 24 e 53 Cost. (Corte Cost., sent. n.18 del 12.01.2000);


  • le limitazioni per la parte privata quanto all'esercizio del diritto di difesa, nonostante le garanzie offerte dall'art.24 Cost., non giungono (comunque, almeno secondo la tesi prevalente) fino alla totale chiusura nei confronti delle dichiarazioni dei terzi.


Le dichiarazioni rese da terzi "estranei" alla lite tributaria, che entrano nel processo e sono utilizzabili, hanno una natura diversa.


Soltanto la testimonianza è necessariamente orale, (normalmente) ad iniziativa di parte, e, comporta il giuramento dei testi.


Preliminarmente si evidenzia che:


  • mentre all’A.F., nel corso della fase istruttoria, è consentita l'acquisizione delle dichiarazioni di soggetti terzi da porre a base dell'atto impositivo (Cass. n.3526 dell’11.03.2002;


  • più controversa è la loro introduzione nel processo tributario da parte del contribuente.


Secondo un orientamento della dottrina (Russo, Manuale di diritto tributario, Il processo tributario, Milano, 2005, 179) e della Cass. n.703 del 15.01.07, tenuto conto del disposto dell'art.7 d.lgs. 546/92, “le dichiarazioni di terzi prodotte in giudizio attraverso un atto notorio sono processualmente irrilevanti”.


Il "recupero" di tali atti potrebbe aversi attraverso l'acquisizione disposta dal giudice (ad es. a mezzo della G. di F.), grazie ai suoi poteri istruttori.


Secondo un altro orientamento della Cass. n.11221 del 16.05.07; n.9958 del 16.04.08, "nel processo tributario, come è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell'A.F. trovino ingresso a carico del contribuente, con il valore proprio degli elementi indiziari, va del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, beninteso con il medesimo valore probatorio".


In quest'ultimo filone si inserisce l’Ordinanza della Cass. n.149 del 08.01.2010, con la quale, riconoscendo l'ammissibilità dell'atto notorio nel giudizio fiscale, gli ha attribuito valore solo indiziario e non di piena prova.


La Suprema Corte ha chiarito che il processo deve svolgersi nell'effettivo contraddittorio delle parti e che le prove devono formarsi nel giudizio; pertanto, l'atto notorio (cioè la dichiarazione resa da un soggetto innanzi ad un pubblico ufficiale) non può assumere la forza di prova ed è inidoneo da solo a costituire il fondamento della decisione, potendo rappresentare - al più - una presunzione semplice, in presenza dei caratteri della gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c.).


7. IL VALORE DELLE DICHIARAZIONI NEL PROCESSO TRIBUTARIO.

Secondo la Corte di cassazione:

  • le dichiarazioni rese dal contribuente (o dall'amministratore di società) in contraddittorio con i verificatori e risultanti dal P.V.C. debitamente sottoscritto dal contribuente stesso possono assumere il valore di confessione stragiudiziale e, come tali, legittimare l'accertamento dell'Ufficio (Cass., Sez. I Civ., sent. n.1481 del 22.2.1999; contra, C.T.R. Toscana, sent. n.164 del 26.2.2000), ancorché il loro valore probatorio sia rimesso al libero apprezzamento del giudice (Cass., sent. n.2610 del 10.11.1999);

  • le dichiarazioni rese dall'indagato, in sede penale, costituiscono dichiarazioni confessorie, liberamente valutabili dal giudice tributario, ma idonee a costituire prova della fondatezza dell'accertamento (Cass., sent. n.20601 del 24.10.2005);

  • le dichiarazioni di terzi (aventi carattere testimoniale) possono essere prodotte nel giudizio tributario e costituiscono indizi che vanno liberamente apprezzati dai giudici tributari (Cass., sent. n.5957 del 10.10.2002; e Cass., sent. n.14427 del 22.12.1999; Cass., sent. n.14774 del 15.11.2000);

  • le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (ad es. raccolte dai verificatori ed inserite nel processo verbale di constatazione) "non hanno natura di prove testimoniali, bensì di mere informazioni acqu