Opposizione del segreto professionale alle indagini tributarie e suoi limiti

Un argomento caldo: i limiti per cui è opponibile il segreto professionale alle indagini tributarie.

Opposizione del segreto professionale

Come è noto, l’accesso nei confronti del professionista – sottoposto a controllo – è eseguibile solo alla presenza del titolare dello studio o di un suo delegato, proprio per consentirgli, fra l’altro, se ritenuto necessario, l’opposizione del segreto professionale.

Con decisione n. 6045 del 15 luglio 2008 (dep. il 5 dicembre 2008) il Consiglio di Stato, Sez. IV, aveva devoluto al giudice tributario la cognizione della controversia relativa all’impugnazione del provvedimento finale adottato in conseguenza dell’attività d’accertamento svolta dall’Amministrazione finanziaria.

Per il Consiglio di Stato, il provvedimento d’autorizzazione da parte della competente Procura della Repubblica, richiesto in conseguenza del segreto professionale opposto sulla corrispondenza intrattenuta fra il professionista ed il cliente, non costituiva atto suscettibile d’autonoma impugnazione bensì elemento del procedimento d’accertamento la cui legittimità è pienamente sindacabile dal giudice tributario.

“Essa si colloca, pertanto, all’interno di un procedimento di verifica fiscale, di natura impositiva (in quanto finalizzato all’accertamento dell’effettivo assolvimento dell’obbligazione tributaria), cosa che – secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale – ne comporta la impugnabilità soltanto con l’atto finale impositivo innanzi al giudice tributario.
E’ stato, infatti, più volte rilevato che in materia di accertamento delle imposte sui redditi il provvedimento del procuratore della Repubblica, autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente (ex artt. 52, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 33, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), è un atto amministrativo attraverso il quale l’amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo e partecipa direttamente della natura amministrativa del provvedimento considerato, condizionandone la legittimità, ed è pertanto sindacabile dal giudice tributario in base ai principi generali che regolano l’attività dello Stato (Cass. Pen, sez. V, 3 dicembre 2001, n. 15230); inoltre sempre in tema di accertamenti fiscali, ed in particolare di indagini svolte ex artt. del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 52 e 62 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è stato precisato che:
a) la Guardia di Finanza, che coopera con gli uffici finanziari, procedendo ad ispezioni, verifiche, richieste ed acquisizioni di notizie, ha l’obbligo di conformarsi alle dette disposizioni, sia quanto alle necessarie autorizzazioni che alle verbalizzazioni;
b) tali indagini hanno carattere amministrativo, e devono essere tenute distinte dalle indagini svolte dalla stessa Guardia di Finanza in veste di polizia giudiziaria diretta all’accertamento di reati (Cass. Pen., sez. V, 16 aprile 2007, n. 8990)”.

Concludeva così la sentenza:

“sussiste effettivamente la giurisdizione del giudice tributario, da ritenersi competente ogniqualvolta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario (o di sanzioni inflitte da uffici tributari), dal cui ambito restano escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario o viene impugnato un atto generale ovvero venga chiesto il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo”. Infatti, “la giurisdizione tributaria è concepita come comprensiva di ogni questione relativa all’esistenza e alla consistenza dell’obbligazione tributaria (Cass. SS.UU., 4 aprile 2006, n. 7806)”.

 

Inoltre, la Sezione era dell’avviso che nel caso di specie mancavano i presupposti, soggettivi ed oggettivi, necessari ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo.

E la giurisdizione amministrativa non può neppure trovare fondamento sulla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo cui

“la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa quando ne ricorrano i presupposti”.

Infatti, la predetta norma deve essere necessariamente letta ed interpretata sistematicamente, cioè coerentemente ai principi costituzionali delineati dagli articoli 24 e 113:

“se deve sicuramente postularsi la giustiziabilità degli atti provenienti dalla pubblica amministrazione, detta giustiziabilità è tuttavia subordinata alla specifica ricorrenza dei presupposti stabiliti dalla legge, presupposti che, come si è accennato, nel caso di specie non sussistono”.

Né può considerarsi sussistente alcun vulnus ai principi predicati dall’art. 24 e 113 della Costituzione per il fatto che l’impugnazione del provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica può essere proposta solo col provvedimento impositivo finale.

Il Consiglio di Stato osserva infatti che la prospettazione degli appellanti, secondo cui il procedimento potrebbe concludersi senza alcun provvedimento impositivo (qualora si accerti che l’obbligazione tributaria è stata perfettamente adempiuta) e che in tal caso il provvedimento autorizzatorio resterebbe inammissibilmente sottratto ad ogni sindacato giurisdizionale, non è idonea a fondare la giurisdizione amministrativa.

Per un verso,

“la Sezione è dell’avviso, anche sulla scorta della ricordata consolidata giurisprudenza in materia, che la natura amministrativa (tributaria) dell’atto autorizzativo non può dipendere dal fatto che il procedimento tributario si concluda o meno con un provvedimento tributario (accertamento); d’altra parte, anche ad ammettere che l’atto autorizzatorio abbia un’immediata, concreta ed effettività lesività, quest’ultima si riverbera esclusivamente su di una posizione di diritto soggettivo, e non già di interesse legittimo: è sufficiente al riguardo rinviare a quanto già precisato in ordine alla natura del controllo svolto dal Procuratore della Repubblica ed alla impossibilità di predicarne la natura di organo amministrativo in senso stretto; a ciò consegue che l’eventuale tutela del diritto alla riservatezza della corrispondenza, in tesi violato nella presente fattispecie, se ammissibile, deve essere azionata davanti al giudice dei diritti”.

E’ proprio per la richiesta di cassazione di tale sentenza che è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite – sentenza n.11082 del 7 maggio 2010 ( ud. del 16 febbraio 2010) -, che ha respinto il ricorso del contribuente, enucleando importanti principi.

 

Le Sezioni Unite della Cassazione in merito all’opposizione del segreto professionale

I “documenti” e le “notizie” considerati nel comma 3, nell’art. 52, del DPR n.633/72 sono sempre e soltanto quelli inerenti lo scopo dell’accesso ispettivo, ovverosia (comma 1)

sentenza corte di cassazione

“procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni”

e l’opposizione del “segreto professionale”, di regola, impedisce sia l’esame dei “documenti” che l’acquisizione delle “notizie” – altrimenti possibili – oggetto di quel segreto da parte degli stessi ispettori fiscali.

Peraltro – osserva la Corte – la necessità, od anche la (mera) opportunità, di sottoporre a controllo, ai fini fiscali, pure gli atti “secretati” dal professionista-contribuente, discende dalla ovvia possibilità, offerta da tale esame, di riscontare l’eventuale esistenza di “attività professionali” fiscalmente rilevanti non dichiarate o dichiarate in misura minore e/o comunque non risultanti dalle scritture contabili e/o dagli atti non secretati:

“le contestazioni che possono essere mosse dall’Amministrazione finanziaria ad un professionista”,

infatti, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, ben possono fondarsi anche su “notizie che riguardano i suoi clienti” se quelle “notizie” sono rivelatrici di fonte reddituale non (o diversamente) dichiarata.

La necessità di richiedere l’autorizzazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, c. 3, ultimo inciso, nasce soltanto nel corso di una verifica fiscale ed ha unicamente la funzione di consentire ai verificatori di esaminare i documenti o di acquisire le notizie “relativamente” ai quali il contribuente professionista ha eccepito l’esistenza di un (suo dovere di tutelare il) “segreto professionale” per avere egli il possesso di quei documenti o la cognizione di quelle notizie in ragione della sua attività professionale in favore del cliente (sempre che quei documenti e quelle notizie abbiano effettivamente un contenuto che, nell’interesse del diritto di difesa del cliente, debba rimanere segreto): l’autorizzazione in questione, quindi, attiene esclusivamente al procedimento amministrativo di verifica tributaria e produce effetti solo nell’ambito dello stesso.

Correttamente, pertanto, prosegue la sentenza della Cassazione a SS.UU.

“il Consiglio di Stato, essendo l’atto (del quale è stato chiesto l’annullamento) privo di una sua autonomia, come di qualsiasi efficacia esterna a quel procedimento di verifica fiscale, tenuto conto proprio della natura della situazione giuridica di cui i ricorrenti (che la hanno invocata) hanno chiesto la tutela, ha ritenuto l’autorizzazione in questione solo atto interno a detto procedimento e, di conseguenza, soggetto al sindacato del giudice tributario cui il legislatore (con il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, sia nel testo originario, che in quello novellato dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448 art. 12, comma 2) ha demandato la tutela giurisdizionale di tutti i contribuenti (anche dei professionisti) in ordine ai tributi indicati nella norma”.

La giurisdizione (piena ed esclusiva) del giudice tributario fissata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, poi, non ha ad “oggetto” solo gli atti per così dire “finali” del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti, propriamente, come “impugnabili” dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19) ma investe – nei limiti, ovviamente, dei “motivi” sottoposti dal contribuente all’esame di quel giudice ai sensi dell’art. 18, c. 2, lett. e), stesso D.Lgs. – tutte le fasi del procedimento che hanno portato alla adozione ed alla formazione di quell’atto tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto “istruttorie” prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale” impugnato:

“la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria”,

infatti (Cass., un., 4 marzo 2008 n. 5791; ma già, Cass., un., 25 luglio 2007 n. 16412),

“è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa”.

Siffatta estensione della giurisdizione tributaria evidenzia, di converso, l’applicabilità anche agli atti fiscali (lato sensu) distruttori del principio della non autonoma (ed immediata) impugnabilità proprio in quanto aventi carattere infraprocedimentale.

“Il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria”,

peraltro ed invero (Cass., un., 27 marzo 2007 n. 7388),

“non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Sez. Un., ord. n. 13793/04)”:

“l’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi”,

infatti, come chiarito,

“non incontra un limite nell’art. 103 Cost.”

perché (secondo una costante giurisprudenza costituzionale: da ultime, ordinanze n. 165 e 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006)

“non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici”.

L’eventuale illegittimità del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica – lamentata dai ricorrenti -, quindi, non lede un semplice interesse legittimo ma integra (se effettivamente sussistente) sempre la lesione di un vero e proprio diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica ordinata perché solo quel provvedimento rende legittimo l’esercizio dell’azione accertatrice e fa sorgere, a carico del contribuente – professionista verificato, gli obblighi di “pati” detta azione anche in ordine ai documenti ed alle notizie secretati nonché di “facere” quanto eventualmente le afferenti norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività, il tutto sempre a prescindere dall’eventuale esito, negativo per l’Ufficio, del controllo stesso.

 

L’opposizione del segreto professionale tutela i clienti

La Corte di Cassazione a SS.UU. afferma che il “segreto professionale” non copre (e, quindi, non può essere opposto per coprire) tutta e ogni attività professionale perché lo stesso (come è stato già rilevato anche dalla dottrina) è previsto a esclusiva tutela del cliente.

Tra l’altro, la Corte Costituzionale (sentenza depositata il giorno 8 aprile 1997 n. 87), ha ben chiarito che

“la protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell’attività”

professionale

“svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione, assume carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa e non l’interesse soggettivo del professionista”;

di concerto, questa Corte seconda sezione penale, sentenza 6 marzo 2009 n. 17674, depositata il 24 aprile 2009, in cui si richiama (Cass. n. 8635/1996) ha ribadito che

“la ratio incrimina trace dell’art. 622 c.p.”

(il quale punisce il professionista che violi, dandone rivelazione “senza giusta causa” o impiegandolo a proprio o ad altrui profitto, un “segreto” di cui abbia avuto “notizia” per “ragione… della propria professione”, e che rechi “nocumento”)

“consiste nella tutela della libertà e della sicurezza del singolo, nel senso che il professionista che, in ragione del suo status, viene a conoscenza dei segreti del cliente, è tenuto ad assicurarne la riservatezza”.

L’autorizzazione in questione – il cui contenuto motivazionale deve essere necessariamente correlato all’esigenza di esplicitare l’avvenuta comparativa valutazione delle contrapposte ragioni offerte dalle parti, ovverosia dei motivi per i quali il contribuente – professionista ha opposto il segreto professionale e delle ragioni che, secondo l’organo verificatore, rendono necessari e/o indispensabili, ai fini della verifica fiscale in atto, l’esame dei documenti e/o l’acquisizione delle notizie “secretati” – non ha affatto lo scopo (paventato dai ricorrenti) di “perforare” (come a dire di rendere noto a o conoscibile da tutti) il segreto professionale – che deve sempre continuare a svolgere la sua funzione di tutela del cliente perché:

  • il suo rilascio consente solo l’esame dei documenti, e la richiesta di notizie in ordine ai quali (esame e richiesta) il contribuente – professionista ha opposto il segreto;
  • l’effettiva sussistenza delle ragioni (rappresentate agli organi verificatori) per le quali è stato opposto il segreto professionale deve essere comunque verificabile: la condivisione della contraria opinione, infatti, come intuibile, finirebbe con l’attribuire al professionista-contribuente il potere, arbitrario ed incontrollabile, di sottrarre ogni e qualsiasi documentazione e/o notizia “scomoda” per lui alla verifica fiscale cui è sottoposto e, quindi, in sostanza, il potere di sottrarsi tout court a detta verifica, con evidente lesione del principio di cui all’art. 53 Cost.;
  • l’accertata concreta sussistenza consente agli ispettori autorizzati dal Procuratore della Repubblica – comunque tenuti all’osservanza del segreto d’ufficio dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, nel testo sostituito con la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28, – di esaminare i documenti e di acquisire le notizie “secretati” sempre ed esclusivamente nei limiti (indicati dalla norma) dell’”accertamento dell’imposta” e della “repressione dell’evasione e delle altre violazioni”, non certo di divulgare (se non assolutamente indispensabili ai fini detti) il contenuto dei documenti e delle notizie coperti dal segreto professionale.

 

All’obbligo di serbare il “segreto professionale”, peraltro, non può riconoscersi la latitudine che sottende la tesi dei ricorrenti atteso che non ogni “pratica” del cliente può dirsi coperta da segreto professionale: questo, infatti, protegge solo le notizie date al professionista riservatamente per il fine difensivo detto e, comunque, non altrimenti già note aliunde (come, ad esempio, le “notizie” esposte in controversie giudiziarie interessanti il cliente stesso).

 

L’esito negativo dell’attività di accertamento

L’ipotizzabile esito negativo per l’Ufficio dell’attività d’accertamento compiuta in forza di provvedimento ritenuto illegittimo dal contribuente (con conseguente riscontrata inesistenza delle condizioni per emettere un provvedimento fiscale) – come, del pari l’adozione di un provvedimento impositivo del tutto avulso dall’esame dei “documenti” /o delle “notizie” secretati – porta la valutazione di quel fatto (ove lesivo di un qualche diverso interesse giuridico del contribuente ispezionato) nell’orbita giurisdizionale del giudice ordinario (quindi, non del giudice amministrativo) siccome ipoteticamente lesiva del diritto squisitamente soggettivo del contribuente a comunque non subire (a prescindere dalla operata “perforazione” del segreto professionale), al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali e, di conseguenza, le connesse compressioni legali ai suoi corrispondenti diritti (anche costituzionalmente garantiti), oltre i casi e le ipotesi previsti dalle afferenti leggi che attribuiscono e circoscrivono l’esercizio del potere di controllo degli Uffici fiscali: l’esito detto, infatti, non fa sorgere l’imprescindibile momento di collegamento con nessun “oggetto della giurisdizione tributaria” indicato nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, perché la controversia a tutela di quel fatto lesivo non involge alcun tributo.

In ordine alla legittimità del differimento al momento dell’impugnazione dell’atto impositivo della tutela giurisdizionale per vizi e/o per irregolarità concernenti atti compiuti nel corso dell’iter amministrativo conclusosi con l’adozione dell’atto impositivo notificato, di poi, è sufficiente ricordare il pensiero (“costantemente affermato”, come dice lo stesso giudice delle leggi) della Corte Costituzionale (decisione 23 novembre 1993 n. 406, che ricorda

“da ultimo le sentenze n. 154 del 1992; n. 15 del 1991; n. 410 del 1990; n. 530 del 1989”) secondo cui “gli artt. 24 e 113 Cost., non impongono una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità, la quale può essere differita ad un momento successivo ove ricorrano esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia”,

sempre che “il legislatore” osservi

“il limite imposto dall’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, in conformità al principio della piena attuazione della garanzia stabilita dalle suddette norme costituzionali”:

nel caso, non i ravvisano né sono state dedotte difficoltà della “tutela giurisdizionale” relativa all’atto qui impugnato quale conseguente al differimento di quella tutela al momento della emissione dell’atto di imposizione fiscale o all’esito, eventualmente negativo (a fini tributari) dell’accesso ispettivo.

31 maggio 2010

Francesco Buetto