di Massimo Conigliaro
dottore commercialista – pubblicista
docente Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze
Tale impostazione, però, anche alla luce dell’ampliamento dei poteri di accertamento sui conti correnti bancari, merita alcune ulteriori riflessioni. Non vi è dubbio che la parte contribuente possa difendersi e provare la correttezza dei dati fiscali dichiarati anche in sede contenziosa, ma tuttavia la questione si pone - a parere di chi scrive - in aperto contrasto con i principi di collaborazione e buona fede, sanciti dallo Statuto dei diritti del contribuente, che devono caratterizzare i rapporti tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, nonché con l'evoluzione legislativa che prevede ormai il contraddittorio quale elemento preventivo obbligatorio dell'attività di accertamento delle imposte, in particolar modo con gli automatismi accertativi del reddito quali gli studi di settore.
La recente circolare n. 32/E del 19 settembre 2006,
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puntualizzando le modalità di controllo in tema di indagini finanziarie ribadisce che l’invito a comparire (art. 32, comma 1, n. 2 del DPR 600/73) costituisce una mera facoltà dell’ufficio e non un obbligo. Purtuttavia il contraddittorio tra le parti viene definito propedeutico - anche se non obbligatorio - all'emanazione dell'eventuale atto impositivo. Tale istituto risulta “essenziale nella fase prodromica ell'accertamento in quanto l'indagine - prima solamente di natura bancaria e ora più in generale finanziaria -, pur realizzando un'importante attività istruttoria, non costituisce uno strumento di applicazione automatica, atteso che i relativi esiti devono essere successivamente elaborati e valutati per assumere, non solo in sede amministrativa ma anche in quella giudiziaria, la valenza di elementi precisi e fondanti ai medesimi fini impositivi.
In sostanza, il preventivo contraddittorio si configura, anche secondo l’Agenzia delle Entrate, come un passaggio opportuno per provocare la partecipazione del contribuente, finalizzata a consentire un esercizio anticipato del suo diritto di difesa, potendo lo stesso fornire già in sede precontenziosa la prova contraria, e rispondente a esigenze di economia processuale, al fine di evitare l'emissione di avvisi di accertamento che potrebbero risultare immediatamente infondati alla luce delle prove di cui il contribuente potesse disporre.
Tuttavia, atteso il dato letterale della norma di riferimento (art. 32 DPR 600/73), il mancato invito dell'ufficio medesimo non inficia la legittimità della rettifica, ove basata sulle presunzioni previste dalle norme in esame.
Il valore probatorio degli elementi raccolti, anche in esito al contraddittorio esperito – precisa
Il contribuente sottoposto a controllo potrà, in sede precontenziosa o meno, fornire, a seconda dei diversi ambiti impositivi: la dimostrazione circa l'irrilevanza ai fini impositivi dei movimenti finanziari acquisiti o rilevati; l'indicazione dei soggetti effettivamente beneficiari dei prelevamenti; l'annotazione dei predetti movimenti nelle scritture contabili o in dichiarazione, ai fini della determinazione del reddito; in definitiva, l'indicazione di qualsivoglia ulteriore chiarimento ritenuto necessario dall'ufficio procedente per la valorizzazione dei dati e delle informazioni ai fini della loro presuntiva utilizzazione in sede di accertamento.
Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione.
Nel caso trattato dai giudici della Suprema Corte, l'accertamento scaturiva da una verifica fiscale della Guardia di finanza, che aveva accertato che il contribuente, nonostante la dichiarazione di cessazione dell'attività, avesse, di fatto, continuato ad amministrare cinque condomini, percependo, alla luce di quanto emergeva dalle risultanze della documentazione bancaria, compensi non contabilizzati per complessive lire 831.820.843 (da cui, in sede di determinazione del reddito, l'ufficio aveva detratto costi per lire 17.000.000, induttivamente riconosciuti).
A fondamento del ricorso, il contribuente dedusse l'illegittimità e l'infondatezza dell'accertamento, sostenendo l'inverosimiglianza del reddito accertato.
L'ufficio contrastò le doglianze del contribuente, rilevando come l'accertamento induttivo fosse legittimo, giacché il contribuente, pur svolgendo attività di amministratore in modo continuativo e abituale, non aveva provveduto a istituire e a tenere i previsti registri contabili ed aveva omesso anche di dichiarare il reddito prodotto, e sottolineando come l'onere della prova circa l'effettiva natura delle movimentazioni finanziarie riscontrate incombesse sul contribuente medesimo.
L'adita Commissione Provinciale accolse parzialmente il ricorso del contribuente, determinando "in via equitativa", in lire 15.000.000, "il maggior reddito accertato per l'anno 1993".
Avverso tale pronuncia, l'ufficio propose appello, osservando che, in base alla previsione dell'art. 32, comma 1, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, è consentito porre a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 del D.P.R. n. 600/1973 tutti i singoli dati ed elementi risultanti dai conti correnti, "se il contribuente non dimostra
che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine", con la conseguenza che incombe sul contribuente l'onere di documentare e giustificare le singole motivazioni di conto, ancorché irrilevanti sul piano fiscale, se non si vuole incorrere nell'applicazione della presunzione legale di imponibilità, operante in tema di accertamenti bancari. Ai fini dell'accertamento, inoltre, non potevano che assumersi i dati e gli elementi emersi dai conti bancari, posto che il contribuente non aveva fornito alcuna prova circa la veridicità di quanto affermava.
In accoglimento dell'appello dell'ufficio,
In Cassazione, il giudizio il contribuente censurava la decisione impugnata nella parte in cui ha imputato a compensi tutti i versamenti comparenti sul conto corrente, per i quali non risultava fornita prova di estraneità all'attività lavorativa, dolendosi, in particolare, del fatto di non essere stato convocato al fine di fornire precisazioni, nonché nella parte in cui ha reputato la decisione di primo grado fondata su valutazione meramente equitativa ed ha ritenuto di dover ascrivere a ricavi di attività di lavoro autonomo l'intero ammontare dei versamenti risultanti dal conto corrente.
I Giudici della Suprema Corte hanno rilevato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi ai sensi degli artt. 32 e 39 del D.P.R. n. 600/1973, i dati desunti dall'ufficio dal conto corrente bancario del contribuente consentono, in virtù della presunzione prevista dalla norma, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi della relativa attività di lavoro autonomo, salva la possibilità, per il contribuente, di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi di detta attività.
Inoltre, l'utilizzazione da parte dell'Amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari del contribuente è legittima – secondo
n. 7267/2002, n. 4601/2002, n. 11094/1999).
Conclusioni.
Il dato letterale della norma e l’evoluzione giurisprudenziale non consentono al contribuente di nutrire particolari speranze sulla possibilità di esporre nella fase delle indagini finanziarie le proprie ragioni di fronte ad un controllo dei propri conti correnti bancari.
Tuttavia, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, le ragioni di economia processuale, intesa quale possibilità di evitare inutili contenziosi, nonché la valorizzazione del contraddittorio preventivo – che viene definito “propedeutico”, “essenziale”, “opportuno” dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare 23/2006 – inducono a ritenere che l’Amministrazione Finanziaria possa adottare a regime tale strumento già nella fase precontenziosa.
In attesa che il legislatore ne preveda – auspicabilmente - l’obbligo di legge.
Ottobre 2006