Sul valore delle presunzioni nel contenzioso tributario

Partendo da un caso di accertamento induttivo, cerchiamo di capire quale può essere il valore che le presunzioni (meglio gli elementi presuntivi) giocano a favore del Fisco in caso di accertamento e successivo contenzioso tributario – il fisco fa molto uso degli elemnti presuntivi per ricostruire la reale posizione reddituale del contribuente.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12561 del 17.06.2016, ha chiarito, in modo molto esauriente, i termini di applicazione ed efficacia delle presunzioni nel processo tributario.

Nel caso di specie il contribuente, con ricorso proposto dinanzi alla CTP di Brescia, impugnava l’avviso di accertamento con il quale era stato determinato induttivamente un reddito imponibile di impresa non dichiarato e conseguentemente stabilite le imposte dovute a titolo di IRPEF, IVA ed IRAP, oltre sanzioni ed interessi, sulla scorta della contabilità in nero ritrovata presso due società, da cui era emerso che le stesse avevano corrisposto compensi non dichiarati ad alcuni soggetti, tra cui il contribuente.

Il ricorrente denunciava quindi l’illegittimità dell’avviso, motivato solo per relationem, ed evidenziava che gli assegni in contestazione non erano a lui intestati.

Il ricorso era accolto, con decisione poi confermata in appello dalla CTR della Lombardia.

In particolare, a fronte dell’impugnazione dell’Agenzia (la quale rilevava che dalla contabilità in nero rinvenuta risultava che il contribuente aveva fatto parte per più anni di una squadra di operai retribuita in totale evasione di imposta fino a quando nel 2000 aveva aperto una partita Iva per esercitare l’impresa edile in proprio e che i compensi percepiti non potevano riferirsi a lavoro dipendente attesa la sua indicazione come caposquadra, l’abitualità e l’organizzazione della squadra e l’ammontare degli importi evasi), i giudici d’appello ritenevano che il rinvenimento di un “brogliaccio” presso le società di cui sopra non poteva ritenersi sufficiente a sostenere, sul piano probatorio, l’accertamento a carico del contribuente, posto che l’indicazione del suddetto sotto la voce “squadra” non costituiva elemento di per sé univoco, in assenza di altri elementi che lo identificassero come caposquadra; che non risultavano elementi dai quali poter presumere che gli elevati importi ivi indicati fossero a lui riferibili; e che, infine, in ogni caso mancava la prova che gli importi in questione fossero da imputarsi ad una attività di impresa.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, deducendo violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, nonché D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, e duolendosi del fatto che i giudici d’appello avessero affermato che il brogliaccio, dal quale era emersa una contabilità in nero delle società emittenti gli assegni rinvenuti dalla G.d.F., non appariva idoneo sul piano probatorio a sostenere l’accertamento, in quanto privo di ulteriori riscontri, ignorando così la regola secondo cui in tema di presunzioni semplici gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno.

La censura dell’Amministrazione, secondo i giudici di legittimità, era tuttavia infondata.

Rileva infatti la Corte che, a norma dell’art. 2729 c.c., il giudice non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti.

È vero che in materia tributaria (benché l’art. 2729 c.c., c. 1, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, c. 4, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, si esprimano al plurale), la giurisprudenza della stessa Suprema Corte ha ripetutamente affermato che il convincimento del giudice può fondarsi anche su un elemento unico, ma è vero anche che lo stesso giudice ha sempre ribadito che tale elemento deve in ogni caso essere preciso e grave e che la valutazione in proposito del giudice di merito non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. tra le altre Cass. n. 656/2014 e n. 14068/2014).

Tanto premesso, dalla sentenza impugnata non risultava affatto che i giudici di merito avessero affermato in generale la necessità di una pluralità di indizi per fondare il ragionamento presuntivo, laddove avevano invece affermato che, nella specie, la semplice indicazione del contribuente nel brogliaccio in questione, sotto la voce squadra, non era idonea da sola (ossia in mancanza di altri elementi dello stesso segno) a sostenere l’accertamento presuntivo del conseguimento di un reddito di impresa, e ciò in quanto rappresentava un dato non univoco, che non risultava neppure confermato dagli accertamenti bancari eseguiti (cfr. Cass. 17634/2014, relativa al medesimo accertamento).

I giudici d’appello avevano pertanto negato valore all’indizio non per il fatto della sua unicità, ma innanzitutto per la sua mancanza di precisione (non univocità), laddove, come detto, in materia di prova presuntiva, spetta al giudice di merito la valutazione della rispondenza degli elementi indiziari ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi rilevare che la censura per vizio di motivazione non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (v. tra numerose altre Cass. n. 8023 del 2009).

La ricorrente censurava poi il fatto che i giudici d’appello non avessero applicato il principio secondo cui l’accertamento induttivo dell’imposta può essere basato su elementi presuntivi aventi l’effetto di far gravare sul contribuente l’onere della prova contraria.

Anche tale censura però, secondo la Corte, era infondata.

L’esistenza di “elementi presuntivi” (cioè indizi idonei a fondare una presunzione) forniti dall’Amministrazione a sostegno dell’accertamento induttivo comporta infatti, evidenzia la Corte, l’inversione dell’onere della prova solo laddove i suddetti elementi siano effettivamente tali (ossia idonei a fondare una presunzione), non potendo ovviamente ammettersi che l’Amministrazione possa fondare un accertamento su qualunque elemento, anche privo di qualsivoglia valore indiziario, determinando perciò solo l’inversione dell’onere probatorio.

Tanto premesso, era quindi sufficiente rilevare che nella specie, come già sopra evidenziato, i giudici d’appello, con accertamento in fatto incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione logica e coerente, avevano per l’appunto escluso che sussistessero idonei “elementi presuntivi”.

Con successivo motivo di impugnazione, la ricorrente, premesso che la fonte del reddito (d’imposta o da lavoro dipendente) era da ritenersi fatto decisivo e controverso, sosteneva che, nell’escludere che fosse stata fornita la prova presuntiva della natura di reddito di impresa, i giudici d’appello avevano comunque reso una motivazione insufficiente, laddove avevano affermato che, per prassi, i lavoratori in nero dell’edilizia suddividerebbero tra loro il compenso percepito da un unico collettore intermediario, senza esplicitare il percorso logico-giuridico che li aveva portati a ritenere che nella specie ciò fosse accaduto.

La censura, secondo la Corte, era in questo caso inammissibile sotto diversi profili.

Innanzitutto dalla sentenza impugnata non risultava affatto che i giudici d’appello avessero fondato la propria decisione sul rilievo che, per prassi (ancorché illegittima) nell’ambito dell’edilizia i compensi vengono incassati da uno solo dei lavoratori e poi distribuiti tra i colleghi.

Come emergeva infatti chiaramente dalla semplice lettura della sentenza, i giudici d’appello avevano dapprima escluso la sussistenza di validi elementi indiziari sui quali fondare la prova presuntiva che il contribuente avesse percepito gli importi indicati (attesa la non univocità delle indicazioni emergenti dal brogliaccio), ed avevano poi esposto degli obiter dicta, consistenti in argomenti ad abundantiam di tipo concessivo (ravvisabili quando il giudice ipotizza la non correttezza del ragionamento decisorio per dimostrare che anche diversamente argomentando si giungerebbe alle medesime conclusioni), come emergeva chiaramente pure dall’introduzione del periodo che seguiva l’esposizione della vera e propria ratio decidendi (“ma anche diversamente argomentando”) e dal tenore espositivo delle argomentazioni successive (“anche laddove si possa ritenere”).

La ricorrente non aveva pertanto alcun interesse a censurare un obiter dictum.

Infine, con ulteriore motivo di impugnazione, deducendo error in procedendo, la ricorrente si duoleva del fatto che i giudici d’appello, ritenendo invalido l’avviso d’accertamento per motivi di carattere sostanziale attinenti alla erroneità della qualificazione della fonte di reddito assunta dall’Agenzia, avessero totalmente annullato l’atto impositivo, senza esaminare nel merito la pretesa tributaria, in ragione della natura di “impugnazione-merito” del processo tributario, riconducendola alla corretta fonte di reddito entro i limiti posti dalle domande delle parti.

In questo caso la censura era fondata, nei termini esposti dalla Corte, secondo la quale, in base alla pacifica giurisprudenza del giudice di legittimità, il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, con la conseguenza che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (v. tra numerose altre, Cass. n. 26157 del 2013).

Tanto premesso, occorreva allora considerare che l’annullamento di un avviso di accertamento per motivi sostanziali comprende tutti gli aspetti sostanziali relativi al reddito accertato, ivi compresi la sua natura ovvero la sua entità.

Ne conseguiva quindi che i giudici di appello, avendo ritenuto non sussistente la prova presuntiva dei reddito a carico del contribuente per l’anno in questione, siccome accertato nell’atto opposto, avrebbero dovuto in ogni caso verificare se gli elementi indiziari forniti erano (o meno) comunque idonei a fondare la prova presuntiva di un qualsiasi reddito non dichiarato, ancorché, in ipotesi, di natura diversa (ad es. da lavoro dipendente e non di impresa) e/o, eventualmente, di entità diversa da quella indicata nell’avviso opposto.

In conclusione, per quanto riguarda l’acquisizione ed utilizzabilità di documentazione extracontabile a fini accertativi, l’infedeltà della dichiarazione, qualora non emerga direttamente dal contenuto di essa o dal confronto con gli elementi di calcolo delle liquidazioni e con le precedenti dichiarazioni annuali, può essere accertata mediante il confronto tra gli elementi indicati nella dichiarazione e quelli annotati nei registri e mediante il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni, sulla scorta delle fatture ed altri documenti, delle risultanze di altre scritture contabili e degli altri dati e notizie raccolti, con la precisazione che le omissioni e le false o inesatte indicazioni possono essere indirettamente desunte da tali risultanze, dati e notizie anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti.

L’Amministrazione Finanziaria può dunque procedere alla rettifica, indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente, qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto da qualsiasi altro atto e documento in suo possesso.

La rettifica può essere quindi effettuata anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, sulla base di altri documenti o scritture contabili (diverse da quelle previste dalla legge), o in riferimento ad “altri dati e notizie” raccolti nei modi prescritti dalla legge.

In sostanza, qualunque documento o dichiarazione può costituire la base per una presunzione idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti di causa, con quindi possibilità di ingresso nel processo tributario anche delle prove atipiche, sotto forma di presunzioni semplici (cfr Cass. n. 14233 del 2015).

In tali casi non esiste dunque alcuna doppia presunzione, ma un fatto noto (il brogliaccio, per esempio) da cui trae legittimamente origine la presunzione dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ., come accade, per esempio, laddove emerga:

  • la gravità dalle annotazioni rinvenute nel libro extracontabile,
  • la loro precisione, essendo magari esposte singolarmente, operazione per operazione, in ordine cronologico e suddivise fra entrate ed uscite;
  • e la loro concordanza, poiché, per esempio, parte delle operazioni ivi indicate sono poi risultate anche transitate sul conto corrente intestato alla società.

 

In assenza però di uno di questi presupposti le presunzioni non assumeranno sufficiente forza probatoria.

 

30 dicembre 2016

Giovambattista Palumbo