E' possibile configurare una cessione totalitaria di quote di partecipazione come trasferimento di azienda?

non concordiamo con il giudizio della Cassazione: riteniamo che, anche sulla base dell’orientamento comunitario, l’Amministrazione finanziaria e i giudici nazionali debbano disapplicare l’art. 20 D.P.R. 131/1986, al fine di non assoggettare le predette operazioni alle imposte proporzionali… ecco i motivi di tale convincimento

cassazione-corte-2Secondo la Corte di Cassazione, è corretto configurare, ai fini dell’imposta di registro, una cessione totalitaria di partecipazioni come un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda. Ciò verrebbe giustificato dal fatto che, a seguito di tali operazioni, il contribuente utilizzerebbe degli strumenti giuridici al solo scopo di ottenere risparmi fiscali e, come tali, da contrastare come elusive ai sensi dell’art. 20 del D.P.R. 131/1986. Inoltre, tale norma permetterebbe agli Uffici di richiedere l’imposta di registro proporzionale, facendo riferimento agli effetti economici dell’operazione.

  1. Premessa.

Con la sentenza del 24 aprile 2016, n. 8542, la Corte di Cassazione ha sancito che, ai fini dell’imposta di registro: “L’art. 20 Dpr 131/1986 attribuisce preminente rilievo all’intrinseca natura ed agli effetti giuridici dell’atto, rispetto al suo titolo ed alla sua forma apparente, sicchè l’Amministrazione finanziaria può riqualificare come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una società, senza essere tenuta a provare l’intento elusivo delle parti, attesa l’identità della funzione economica dei due contratti, consistente nel trasferimento del potere di godimento e disposizione dell’azienda da un gruppo di soggetti ad un altro gruppo o individuo”.

In altri termini, sarebbe possibile per l’Ufficio riqualificare, ai fini dell’imposta di registro, l’operazione di cessione totalitaria di quote di partecipazione come cessione di azienda, applicando l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, rubricato “interpretazione degli atti”, al quale, non verrebbe più attribuita una funzione esclusivamente antielusiva, ma quella di individuare il fatto realmente imponibile connesso con l’atto sottoposto a registrazione.

Ciò, in quanto, come già sancito dalla medesima Corte (cfr. la sentenza del 18 maggio 2016, n. 10216), nella normativa dell’imposta di registro, vigerebbe il principio interpretativo di cui all’art. 20 cit., secondo cui: “L’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente“.

In altri termini, i giudici di legittimità considererebbero: “… preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto” (dello stesso avviso, tra le più recenti, le sentenze Cass. n. 9582 del 11 maggio 2016 e n. 8542 del 29 aprile 2016).

Anche alcuni giudici di merito si sono allineati a tale interpretazione, sostenendo che: “Non vi è dubbio che la cessione del 100% delle quote di un’azienda sia equivalente ad una vera e propria cessione di azienda, con la conseguenza che l’operazione deve essere assoggettata all’imposta di registro. D’altra parte è chiara anche la finalità elusiva insita nell’effettuare questo tipo di operazione anziché una cessione di azienda che sia tale (anche) sul piano formale. Infatti le cessioni di quote sono soggette ad Imposta di Registro in misura fissa (pari ad euro 168,00) mentre in caso di cessione di azienda la medesima imposta deve essere calcolata in misura proporzionale al valore dell’azienda ceduta” (cfr. la sentenza della CTR della Toscana del 7 luglio 2016, n. 1252).

Tale tesi, però, non è condivisa dalla prevalente giurisprudenza di merito e dalla quasi unanime dottrina.

In particolare, in primis, viene sostenuto che siffatte operazioni non sarebbero idonee a produrre un effetto giuridico identico e unitario a quello che si sarebbe ottenuto nel caso del trasferimento diretto del ramo d’azienda (così CTR Lombardia, 8 giugno 2015, n. 2481; dello stesso avviso CTR Lombardia 13 aprile 2015, n. 1453).

Inoltre, viene fatto presente come l’Amministrazione finanziaria debba far riferimento all’imposta di registro come ad un’imposta d’atto che colpisce, unicamente, l’atto sottoposto a registrazione e non il trasferimento ad esso sottostante.

Infine, viene sottolineato come il nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente sarebbe destinato a limitare l’ambito operativo delle altre norme tributarie in materia di interpretazione dei fatti, dei comportamenti e delle vicende negoziali, compresa quella recata dall’art. 20 del T.U.R.1.

Tale interpretazione sancita dalla Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, non è condivisibile per i seguenti motivi.

  1. L’interpretazione dell’art. 20 del D.P.R. 131/1986.

Le riqualificazioni degli atti ai fini delle imposte indirette, secondo le recenti pronunce della Corte, si dovrebbero poggiare sul citato art. 20, in quanto ciò che rileva, ai fini della tassazione dell’imposta di registro, è il dato giuridico reale.

In questo, caso, la sussistenza dell’intento elusivo diventerebbe del tutto ininfluente ai fini della riqualificazione degli atti, non essendo così necessario che l’Agenzia fornisca i presupposti dell’abuso del diritto o dell’elusione (cfr sentenze Cass. n. 8655 del 2015, Id. n. 3481 e n. 21770 del 2014).

L’art. 20 costituirebbe, così, una disposizione volta ad identificare l’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario, che legittimerebbe la riqualificazione di tali operazioni.

Tali conclusioni, però, non tengono conto del fatto che l’anzidetta disposizione è innovativa rispetto alla precedente norma contenuta nell’art. 8 R.D. 3269/23 che faceva generico riferimento agli “effetti” degli atti ai fini della loro interpretazione, in quanto ha introdotto il concetto di “effetti giuridici” distinguendo quindi quest’ultimi dagli “effetti economici” dell’atto.

Infatti, pur condividendo il “ritrovato” ruolo di norma interpretativa dell’articolo in questione, si ritiene che esso non legittimi le riqualificazioni costruite sugli “effetti economici”.

Recente giurisprudenza di merito ha preso una posizione netta in materia, evidenziando la necessità di evitare l’equivoco … di confondere gli effetti giuridici dell’atto, o degli atti collegati, presentati alla registrazione, con gli effetti economici dell’operazione, ossia di confondere la sostanza giuridica con quella economica”. Tale giurisprudenza prosegue affermando che è stato più volte segnalato in dottrina come, inserendo nell’art 19 del D.P.R. 634/1972, e quindi nell’art. 20 del D.P.R. 131/1986, l’aggettivo “giuridici” accanto al sostantivo “effettivi”, il legislatore ha chiaramente inteso respingere la tesi dell’interpretazione economica degli atti .

Pertanto, in assenza di una specifica norma tributaria che disponga diversamente, gli effetti giuridici non possono che essere quelli “civilistici“; quindi l’ufficio, nel ricostruire la reale natura giuridica dell’atto, non può andare oltre la qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva del medesimo.

In questo senso l’art. 20 citato si colloca in linea con i principi costituzionali della riserva di legge nell’individuazione del presupposto impositivo (art. 23 Cost.), della tutela dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e della corretta interpretazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.).

Si delinea quindi, una notevole differenza tra l’interpretazione di un contratto in ragione degli effetti giuridici che ne scaturiscono, a norma dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, e la valutazione di più negozi giuridici nella prospettiva del collegamento negoziale2.

Pertanto, salvo le ipotesi tassativamente previste negli articoli 21 e 22 D.P.R. n. 131/1986, non è possibile creare collegamenti tra diversi negozi giuridici, interpretando gli atti “extra-testualmente”.

In altre parole, l’art. 20 non può essere utilizzato dall’Amministrazione finanziaria o dal giudice, per svolgere un’operazione interpretativa complessiva della condotta del contribuente, allo scopo di operare collegamenti tra fattispecie negoziali ciascuna con specifiche individualità e finalità giuridiche.

Ciò sarebbe confermato dall’introduzione dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente da parte del D.Lgs. n. 128/2015, con la contestuale abrogazione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.

Infatti, con tali modifiche normative, l’intento del Legislatore è stato quello di fornire una novella che permetta una valutazione complessiva ed unitaria dei possibili fenomeni “abusivi/elusivi”, con riferimento a tutti i tributi, compresa l’imposta di registro, essendo stata inserita la disposizione all’interno dello Statuto del contribuente.

Pertanto, per identificare gli “effetti economici”, gli uffici sono tenuti ad applicare quanto previsto dall’art. 10-bis citato, qualora vogliano eccepire un’eventuale vantaggio fiscale indebito.

Del resto gli operatori economici devono avere la libertà di scegliere come fare circolare un complesso aziendale, e, quindi, scegliere, se effettualo attraverso la sua diretta cessione a terzi (c.d. asset deal), ovvero mediante l’utilizzo di strumenti alternativi (c.d. share deal), tra i quali, ad esempio, il conferimento d’azienda seguito poi dalla cessione delle partecipazioni ricevute nella conferitaria.

E questo a maggior ragione nel caso in cui non venga dimostrato che cedere le quote di una società che comprende un’azienda o vendere direttamente l’azienda sia esattamente la stessa cosa e produca, anche rispetto ai terzi, esattamente gli stessi effetti civilistici e fiscali.

Con l’acquisto diretto dell’azienda, infatti, gli elementi attivi e passivi del complesso determinerebbero effetti reddituali positivi e negativi in capo all’avente causa, mentre, in caso di cessione di partecipazioni, ciò avverrebbe solamente nel caso di rivalutazione e svalutazione delle stesse partecipazioni. L’acquirente delle partecipazioni, inoltre, non avrebbe la disponibilità dei beni e quindi non potrebbe utilizzarli, così come non avrebbe alle proprie dipendenze i lavoratori. Nel caso del trasferimento dell’azienda sorgerebbero le responsabilità ex art. 2560 c.c., che, nell’ipotesi di cessione di partecipazioni, non si verificherebbero.

  1. Conclusioni.

In conclusione, si auspica che tali considerazioni possano essere di aiuto per fare cessare le suddette contestazioni da parte degli Uffici e della giurisprudenza, in quanto l’art. 20 del D.P.R. 131/1986 deve tornare a svolgere la sua tradizionale funzione di norma volta esclusivamente a cogliere l’effettiva natura giuridica degli atti al di là del nomen iuris utilizzato dalle parti.

In quest’ottica, ai fini dell’applicazione del tributo, la natura dell’atto presentato per la registrazione andrebbe accertata solo in base alle sue clausole, senza possibilità di interpretare l’atto in funzione di elementi, compresi quelli che derivano dalla stipula di altri atti, che esulano dal suo contenuto e dagli effetti giuridici che direttamente ne scaturiscono.

Le eventuali eccezioni di possibili abusi normativi dovranno essere sollevate esclusivamente facendo riferimento all’art 10-bis L. 27 luglio 2000 n. 212, sia per i profili sostanziali, che procedimentali in modo d’assicurare condizioni di certezza del diritto e di concorrenza uniformi.

Del resto, come sostenuto da autorevole dottrina a commento della nuova normativa in merito all’abuso del diritto, la nuova disciplina antielusiva, essendo stata concepita come norma a carattere generale, dovrebbe essere un elemento significativo per cogliere l’effettiva portata che oggi occorre assegnare all’art. 20 del DPR 131 del 1986. Poiché non è plausibile che il legislatore abbia voluto far coesistere nel nostro ordinamento due diverse nozioni di abuso, e cioè che, in deroga a quanto stabilito dal nuovo art. 10 bis della legge n. 212/2000, una operazione possa essere disconosciuta e/o riqualificata ai soli fini del tributo di registro in base ad un mero apprezzamento delle sue ragioni economiche, sembra logico concludere che l’art. 20 sia stato mantenuto in vita soltanto perché si è ritenuto evidentemente che questa norma fosse del tutto estranea alla finalità di colpire le fattispecie di abuso. In altri termini, nell’attuale contesto normativo, motivi di coerenza logico sistematica indurrebbero a ritenere che l’art. 20 conservi la sola funzione di ribadire che l’imposta di registro vada applicata secondo la corretta interpretazione degli atti negoziali in base ai canoni giuridici, così come da sempre sostenuto dalla dottrina prevalente3.

Infine, non va taciuto il fatto che tali contestazione potrebbero violare la direttiva comunitaria n. 2008/7/CE concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali4.

Si ricorda, infatti, che l’articolo 5 della stessa prevede un divieto di tassazione indiretta sui conferimenti di capitale e sull’emissione dei titoli, mentre l’art. 6 sancisce una deroga a tale divieto in caso di trasferimenti dei valori mobiliari o di conferimento di beni immobili o aziende.

Tale deroga viene posta come possibilità per lo Stato membro di applicare imposte e diritti, ma i relativi importi non possono essere superiori a quelli delle imposte e dei diritti applicabili alle operazioni similari nello Stato membro che impone le imposte e i diritti suddetti. Sulla circostanza che è necessario verificare il criterio di applicazione dell’imposta vigente al momento dell’operazione (cfr. sentenza della Corte di Cassazione n. 6079 del 24 aprile 2001 e sentenza della Corte di Cassazione n. 9301 del 19 aprile 2010).

A questo punto è necessario sottolineare che in Italia sono state abrogate le imposte proporzionali applicate, sia in caso di conferimenti di aziende, sia in caso di cessioni di partecipazioni.

Sulla base di quanto riportato diventa facile evidenziare come la riqualificazione, rivendicata dagli Uffici, avrebbe le conseguenze di assoggettare tali fattispecie ad una tassazione ben superiore rispetto alle altre similari iniziative.

Dunque, anche sulla base dell’orientamento comunitario, all’Amministrazione finanziaria e ai giudici nazionali non resta che disapplicare l’art. 20 D.P.R. 131/1986, al fine di non assoggettare le predette operazioni alle imposte proporzionali5.

13 dicembre 2016

Fabio Gallio

1 Così Pischetola A., Con il nuovo abuso del diritto possibile una rilettura della norma sull’interpretazione degli atti, in “Il fisco” n. 25/2016, p. 2452.

2 BEGHIN M., Elusione fiscale e imposta di registro tra interpretazione dei contratti e collegamento negoziale – il commento, in “Corriere Tributario” n. 1/2016, p. 25.

3 Così ASSONIME in Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, avente per oggetto il “D.L.vo n. 128 del 2015 sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente: la disciplina sull’abuso del diritto”.

4 Sulla possibile violazione della normativa comunitaria si premetta di rinviare a GALLIO F., in “Il trattamento fiscale dell’operazione di conferimento di azienda e successiva cessione di partecipazioni”, in “il fisco” n. 19 del 9 maggio 2011, pag. 1-2983, ed in “Conferimento di azienda e successiva cessione di partecipazioni ai fini delle imposte indirette”, in “il fisco” n. 6 dell’11 febbraio 2013, pag. 1-808.

5 In senso conforme ESCALAR G., Compatibilità comunitaria delle imposte indirette sul conferimento di azienda e successiva vendita di partecipazione, in “Corriere Tributario” n. 29/2016, p. 2276.