La cessione della licenza di taxi: problematiche fiscali

la cessione della licenza di taxi è un’operazione ricorrente; in questo articolo analizziamo le problematiche fiscali inerenti la corretta valutazione dell’avviamento compreso nella licenza

taxyLa Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 11074 del 30.5.2016, ha chiarito i termini del trattamento fiscale in caso di cessione della licenza di taxi.

Nel caso di specie, la CTR di Napoli aveva respinto l’appello del contribuente, proposto

contro la sentenza della CTP di Napoli, che aveva solo parzialmente accolto il ricorso, con riduzione dell’ammontare accertato fino a € 100.000,00, confermando così (nei limiti dell’avvenuta riduzione) l’avviso di accertamento a mezzo del quale era stata recuperata a tassazione la plusvalenza (già liquidata nell’importo di € 150.000.00) realizzata per effetto del trasferimento di una “licenza taxi“.

La predetta CTR, dato atto che il contribuente aveva ribadito le proprie doglianze, ed in particolare quella concernente la gratuità dell’avvenuta cessione, evidenziava che il trasferimento della licenza di esercizio di un taxi si inserisce normalmente nell’ambito di un’operazione negoziale di trasferimento di azienda, che è appunto, di norma, onerosa.

Era quindi onere dello stesso contribuente fornire la prova contraria della usuale onerosità della cessione, ciò che però nel caso di specie non era avvenuto, non avendo la parte ricorrente dedotto l’esistenza di particolari legami (magari familiari) con il cessionario idonei a giustificare la gratuità della cessione.

L’Amministrazione d’altronde, ad avviso della CTR, aveva “valutato l’importo dell’operazione negoziale in oggetto con criteri obiettivi e condivisibili, espressamente enunciati“.

Il contribuente presentava ricorso per cassazione e dopo avere evidenziato che l’avviso di accertamento riferiva che “l’Agenzia aveva induttivamente calcolato un valore di Euro 150.000,00 all’esito di indagini di mercato svolte attraverso siti internet“, si doleva che le modalità di calcolo dell’importo della contestata plusvalenza avevano impedito qualsivoglia valida contestazione, non essendo contenuti nel provvedimento impugnato elementi specifici di valutazione, aspetto questo che confliggeva con la regola secondo cui gli accertamenti possono essere fondati su presunzioni gravi, precise e concordanti, che invece nella specie apparivano assenti.

Il giudicante aveva perciò errato a dare per verificati i fatti rimasti ignoti, siccome asseritamente desunti da “ignote fonti attinte dal web“.

I giudici di legittimità evidenziano pertanto che l’orientamento della Corte è fermo nel ritenere che in tema di imposte sui redditi, l’art. 42, c. 2, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 richiede l’indicazione nell’avviso di accertamento non soltanto degli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, al fine di porre il contribuente in condizione di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an ed il quantum debeatur.

Tali elementi conoscitivi devono essere peraltro forniti non solo tempestivamente (ab origine nel provvedimento), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta all’interessato un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa.

In applicazione di tali principi, la Suprema Corte aveva del resto già confermato la nullità dell’accertamento, che si limitava ad affermare l’omessa indicazione di una plusvalenza derivante dalla cessione della licenza di taxi, senza precisare però a quale ipotesi di redditi diversi fosse riconducibile, senza qualificare l’oggetto del negozio e senza specificare la natura, autonoma o subordinata, dell’attività del contribuente (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 16836 del 24/07/2014; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9032 del 15/04/2013 Sez. 5, Sentenza n. 15842 del 12/07/2006).

Era dunque corretta, ad avviso della Corte, la censura del fatto che il giudice del merito avesse ritenuto di condividere la valutazione in ordine all’ammontare del corrispettivo di cessione, sebbene questo non fosse desunto da identificate fonti di cognizione e per quanto di dette fonti non fosse stata fatta precisa indicazione nel contesto della motivazione.

In tal modo il giudice di merito aveva fatto derivare dalla semplice notorietà della onerosità della cessione di azienda anche una correlata presunzione in ordine all’ammontare del corrispettivo ed aveva di fatto sollevato l’Agenzia delle Entrate dall’onere, che le incombe, di fornire la specifica dimostrazione dei presupposti dell’azione amministrativa (dovendo essi consistere almeno in presunzioni gravi, precise e concordanti), non solo nell’ottica della legittimità della propria determinazione in ordine all’adozione del provvedimento impositivo, ma anche in ordine alla legittimità della liquidazione dell’ammontare della pretesa che in esso è contenuta.

E neppure mutava l’esito della valutazione il fatto, peraltro in causa non dimostrato, che si vertesse in ipotesi di dichiarazione dei redditi del tutto omessa.

Per quanto infatti sia vero che: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere – dovere dell’Amministrazione è disciplinato non già dell’art. 39, bensì dall’art. 41 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni c.d. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3115 del 13/02/2006), secondo i giudici, non poteva tuttavia bastare la circostanza dell’omessa dichiarazione a consentire all’Amministrazione di determinare l’ammontare del ricavo evaso senza indicazione di criteri logici e di fonti di convincimento trasparenti, pena la negazione sostanziale dell’onere che comunque alla parte procedente compete di identificare fonti di prova a sostegno del criterio di liquidazione della pretesa.

Infine, non poteva neppure essere dimenticato, secondo la Corte, che è onere dell’Amministrazione, quando proceda d’ufficio all’accertamento del reddito d’impresa con metodo induttivo, mediante ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenere conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti.

Anche considerato che, in caso contrario, si assoggetterebbe ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo, anziché quello netto, in contrasto con l’art. 53 Cost. (Sez. 5, Sentenza n. 28028 del 25/11/2008).

Alcune ulteriori riflessioni possono infine essere d’ausilio.

Nel caso di trasferimento di licenze di tassista si aprono, spesso, anche contenziosi con l’Amministrazione Finanziaria in merito alla possibilità o meno di considerare tali fattispecie come cessione di azienda.

Uno dei problemi principali che si pongono è allora quello della esatta quantificazione del valore di avviamento.

L’avviamento è una qualità dell’azienda e consiste nell’esistenza di elementi reddituali idonei a conferire all’azienda un valore positivo.

L’avviamento è quindi una qualità consistente nell’attitudine a produrre profitti.

Non è possibile pertanto prendere come base per il suo calcolo formule matematiche astratte e generiche, senza tener conto delle concrete particolari caratteristiche tipiche dell’azienda.

Tale tipo di quantificazione del valore infatti è stato ritenuto illegittimo dall’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza sia di merito che di legittimità.

L’art. 51, c. 4, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 stabilisce del resto che, in sede di cessione d’azienda, l’ufficio del Registro procede al controllo del “valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento…”.

Il comma 2 dello stesso articolo specifica che detto valore coincide con il “valore venale in comune commercio” dell’azienda, cioè con il prezzo che il venditore può realizzare in normali condizioni di mercato.

Spetta all’Amministrazione Finanziaria l’onere di individuare gli elementi oggettivi, che legittimano l’ulteriore pretesa fiscale sul valore di avviamento. E l’obbligo dell’ufficio di motivare l’accertamento è soddisfatto nel momento in cui esso è in grado di dare conto dei criteri di accertamento adottati.

Dalla pratica scaturisce inoltre che, per quanto riguarda le licenze taxi, vi sono fattori che influiscono in modo determinante sulla valutazione del valore di avviamento, quali per esempio:

  1. il luogo: esistono città particolarmente ambite (quelle turistiche per esempio) e tale circostanza determina senza dubbio un aumento del valore dell’azienda;

  2. l’acquisibilità della licenza: la via più semplice per disporre di una licenza, è di ottenerla attraverso il passaggio da chi la possiede, superando così i tanti vincoli e difficoltà burocratiche che esistono per il rilascio di nuove licenze e di ulteriori concessioni; anche questa “velocità di acquisizione” ha dunque un suo valore;

  3. la liberalizzazione del mercato: in particolare, poi, per quanto riguarda le attività di taxi, va preliminarmente considerato che, a partire dal 1998, è stato avviato il processo di liberalizzazione del sistema autorizzativo la cui piena attuazione è stata però via via rimandata nel tempo. Solo con l’effettiva realizzazione di tale processo di liberalizzazione si può immaginare una riduzione del “valore dell’autorizzazione“.

E’ un fatto, del resto che, per quanto le licenze siano state emesse originariamente gratuitamente da parte delle autorità pubbliche, le stesse sono state poi vendute e rivendute da generazioni e generazioni di tassisti a valori in termini reali crescenti.

Ma, come giustamente ha affermato la Corte, il maggior valore di cessione (ai fini Imposte Dirette o di registro, nel caso in cui si parli di cessione di azienda), va dimostrato, non solo nell’an, ma anche nel quantum, non essendo questo un valore notorio, ma un valore da dimostrarsi caso per caso, in base alle specifiche condizioni.

17 novembre 2016

Giovambattista Palumbo