Abuso del diritto: considerazioni sulla fattispecie

la materia abuso del diritto è sempre piuttosto scabrosa perché circoscrive un ambito nel quale, in sostanza, alla legge è chiesto di andare oltre sé stessa, spingendosi a contrastare e a sanzionare un comportamento che da solo che non costituisce violazione di norme: solo all’interno di un quadro interpretativo i comportamenti del contribuente possono configurare fatti di elusione fiscale; è evidente che tale tipo di contestazione può generare contenzioso complesso fra Fisco e contribuente

 

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L’abuso del diritto (tributario) è il nuovo nome assunto dall’elusione fiscale a seguito della parziale riforma del 2015, che ha investito gli istituti deflattivi del contenzioso, l’interpello, le sanzioni, la riscossione e altri aspetti di cornice riguardanti l’obbligazione tributaria.

Ad avviso di chi scrive, la materia è sempre piuttosto scabrosa perché circoscrive un ambito nel quale, in sostanza, alla legge è chiesto di andare oltre sé stessa, spingendosi a contrastare e a sanzionare un comportamento che non costituisce violazione. Ciò giustifica il maggior pudore manifestato dal “nuovo” legislatore, che configura l’abuso come fattispecie residuale, come strumento estremo degli uffici accertatori, da impiegare laddove sono assenti i caratteri dell’evasione o della frode, cioè del contrasto diretto a norme giuridiche.

L’innovazione normativa ha dato attuazione della legge delega per la riforma tributaria n. 23/2014, mediante il D.Lgs. 5.8.2015, n. 128, che ha inserito nella L. 27.7.2000, n. 212 (Statuto del contribuente) il nuovo art. 10-bis.

È recentemente intervenuta sul tema l’Assonime con una circolare molto ampia (n. 21 del 4.8.2016), nella quale ha analizzato i numerosi risvolti della nuova disciplina generale dell’abuso.

Considerazioni preliminari

Secondo quanto affermato dall’Assonime, le locuzioni di “abuso del diritto” ed “elusione fiscale” indicano concetti sostanzialmente identici, designando “quei comportamenti del contribuente che, pur essendo formalmente rispondenti ad una determinata disciplina, diano luogo a benefici non previsti e che, probabilmente, non sarebbero stati riconosciuti qualora il legislatore li avesse presi in considerazione e regolamentati in modo espresso”.

Già a questo punto si coglie la criticità profonda connessa a qualsiasi regolamentazione dell’abuso: con essa si intende coprire una serie di lacune normative, forzando il principio di legalità. Ma è lecito, ci si dovrebbe chiedere, a una norma costituzionalmente orientata, prevedere conseguenze sfavorevoli per un comportamento che non è stato disciplinato, solo in considerazione del fatto che questo comportamento conduce a un vantaggio che il legislatore stesso non ha previsto? Estendendo questa logica, ogni processo di elaborazione normativa, ogni “legiferare” da parte di organi democraticamente legittimati, diverrebbe inutile, perché i vari comportamenti prevedibili e non potrebbero essere colpiti e sanzionati sulla base di un’interpretazione estensiva / teleologica delle norme esistenti.

A ogni modo, l’Assonime rammenta che l’impostazione tradizionale della dottrina e anche del legislatore era nel senso dell’inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale antiabuso.

Le successive elaborazioni giurisprudenziali, anche indotte da un movimento interpretativo affermatosi a livello comunitario, hanno condotto verso l’intervento del 2015, che ha apportato “una nozione più oggettiva di abuso, corredandola di una serie di garanzie e di tutele sia di ordine sostanziale che di ordine procedimentale”.

In base alla nuova definizione, “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.

Devono quindi essere presenti:

  • rispetto formale delle norme (delle quali può essere molto complesso e incerto verificare il mancato rispetto sostanziale);

  • vantaggio fiscale indebito, cioè non dovuto (ma perché non dovuto, se sono le norme stesse a consentirlo?);

  • mancanza di sostanza economica (molto arduo anche affermare la mancanza di sostanza economica, dato che ogni comportamento imprenditoriale può facilmente essere dotato di una ragione economicamente valutabile: si pensi all’opportunità di semplificare la struttura del gruppo societario riducendo i relativi costi amministrativi);

  • essenzialità dello scopo, consistente nel conseguimento del vantaggio fiscale indebito (in una sequenza di operazioni imprenditoriali che si snodano lungo diversi anni ed esercizi societari, come è possibile contestare che lo scopo fiscale fosse essenziale e non conseguente a un determinato assetto societario, funzionale agli interessi economici dei soggetti coinvolti?).

Sul piano sistematico, nonostante le molte incertezze che permangono:

  • la nuova disciplina dell’abuso è generale e non più “casistica” come nel vecchio art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973;

  • emerge rispetto a prima il carattere “indebito” dell’operazione, cioè la (sostanziale) violazione della ratio normativa.

Operazioni transnazionali

A tacere delle molte ulteriori considerazioni che potrebbero farsi sul tema, l’Assonime si chiede se la nuova nozione di abuso del diritto tributario possa riguardare anche le “operazioni abusive a carattere transnazionale”.

Si tratta delle operazioni che interessano soggetti residenti in Stati diversi e “che tendono a sfruttare le asimmetrie nelle qualificazioni e/o nel trattamento fiscale della medesima fattispecie da parte dei singoli ordinamenti, traendo vantaggio da tali asimmetrie”.

Al riguardo l’Assonime esprime dei dubbi, in quanto non esiste in ambito internazionale “un sistema normativo basato su regole e principi condivisi che possa fungere da benchmark per la verifica della legittimità del risultato conseguito”.

È tuttavia logico ritenere che la clausola antiabuso possa essere attivata relativamente a quelle discipline di fonte internazionale che sono state già recepite con apposite norme dell’ordinamento interno (ad esempio, norme relative al regime fiscale di dividendi, interessi e royalties e in materia di operazioni di riorganizzazione aziendale transfrontaliera).

Al di fuori di questi casi (in assenza di una disciplina nazionale o convenzionale), non è sempre agevole distinguere l’abuso dalla legittima fruizione di vantaggi esplicitamente messi a disposizione da uno Stato.

La tematica dell’abuso nelle operazioni transazionali dovrebbe quindi essere affrontata nelle competenti sedi internazionali (OCSE ed UE) per poi recepire nel nostro ordinamento le eventuali determinazioni assunte in tali sedi. In particolare, i risultati dei vari piani di azione avviati in base al progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) dovrebbero condurre a successivi affinamenti ed adeguamenti della normativa interna.

Abuso “fattispecie aperta

Come afferma l’Assonime, la nozione di abuso emergente dalla nuova normativa è a “fattispecie aperta”, prescindendo dall’identificazione delle singole operazioni potenzialmente abusive e dalle relative caratteristiche, nella prospettiva di coglierne i risultati e la loro coerenza con la ratio delle norme e i principi del sistema impositivo.

A differenza delle altre fattispecie regolate dal legislatore fiscale, cioè, non vengono forniti tutti i tratti salienti per l’identificazione delle ipotesi applicative. Ciò si deve al fatto che la disciplina antiabuso si configura come una clausola di chiusura che intende porre rimedio a tutte le possibili manchevolezza e lacune delle norme scritte che si basano, per l’appunto, sull’individuazione casistica delle fattispecie impositive”.

Pur riconoscendo che l’introduzione di una norma di chiusura del sistema è giustificata dall’esigenza di salvaguardare le “ragioni erariali” di fronte a comportamenti particolarmente complessi posti in essere da taluni contribuenti, al fine di sfuggire alle imposte, è chiarissimo (per le ragioni già dette sopra) che l’ordinamento giuridico non può reggersi su una “fattispecie aperta”. Occorre quindi riaffermare che solamente in casi estremi ci si può affidare a questo tipo di disposizione normativa, rimessa all’ampia e discrezionale attività interpretativa degli operatori.

Per evitare i possibili “abusi dell’abuso”, il legislatore è intervenuto su “diversi profili collaterali a questa attività interpretativa”.

In primo luogo, sono state rafforzate ed estese le garanzie procedimentali, con un contraddittorio obbligatorio e specifico con il contribuente.

In secondo luogo, è stato chiarito che le fattispecie di abuso non sono rilevabili d’ufficio in sede contenziosa.

Accanto alla nozione di abuso, è quindi stata inserita la previsione che riafferma il diritto alla libera scelta tra regimi diversi e alternativi per perseguire risultati economici equivalenti, anche quando la scelta compiuta dal contribuente conduca ad un minor gravame impositivo.

È quindi impossibile contestare a chicchessia il comportamento che è semplicemente fiscalmente meno oneroso rispetto a un comportamento alternativo, ma difetta dei caratteri dell’abuso come sopra affermati.

Carattere residuale

Come già accennato, il nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente configura l’abuso come disposizione residuale, occorrendo previamente verificare se si è di fronte ad una fattispecie di occultamento di materia imponibile, da ricondurre alla simulazione o alla frode, e solo in ultima analisi valutare la sussistenza dei presupposti dell’abuso.

Abuso e simulazione

Come posto in evidenza nella circolare Assonime, la nuova disciplina dell’abuso del diritto tributario, rispetto a quanto può affermarsi per la simulazione, è indifferente all’esistenza di un determinato atteggiamento psicologico (volontario) da parte del contribuente.

In particolare, l’Assonime richiama le ipotesi di fraudolenza (dichiarazione fraudolenta) di cui all’art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000, come innovato dal D.Lgs. n. 158/2015, ove si fa riferimento alle operazioni simulate oggettivamente e soggettivamente, che sono quelle “apparenti diverse da quelle disciplinate dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000 n. 212”, ossia diverse dalle operazioni abusive, “poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti”.

È stato in tal modo precisato che le operazioni abusive devono essere tenute distinte dalle operazioni simulate, e che non è possibile invocare l’autonoma rilevanza penale delle operazioni abusive.

La distinzione tra abuso e simulazione, dunque, risiede nel fatto che:

  • le operazioni simulate sono caratterizzate dalla volontà del contribuente di non sottoporsi agli effetti che promanano dalle operazioni compiute e di conformarsi invece agli effetti di altri atti o operazioni ovvero a nessun effetto rispetto a quelli manifestati all’esterno;

  • nel caso dell’abuso, poiché il contribuente pone in essere l’operazione per costruire la fattispecie applicativa del regime fiscale prescelto, gli effetti delle operazioni compiute sono accettati e voluti (anzi selezionati ad hoc in funzione della disciplina fiscale che si vuole sia applicata).

Nel contesto dell’abuso, il requisito della mancanza di sostanza economica non serve a certificare la presenza di operazioni o negozi dissimulati, ma ha la diversa e specifica funzione di rivelare che la costruzione della fattispecie impositiva più favorevole è avvenuta per motivi essenzialmente fiscali. Per poter attivare la clausola antiabuso, occorre tuttavia l’ulteriore elemento costituito dal conseguimento di un vantaggio indebito.

Operazioni circolari e lineari

Secondo quanto rilevato dall’Assonime, le cosiddette condotte abusive si possono raggruppare in operazioni “circolari” (o di rilievo meramente fiscale) e “lineari”.

La prima tipologia (operazioni circolari) è quella delle operazioni in cui gli atti compiuti dai contribuenti, in una sequenza negoziale, hanno effetti destinati a elidersi in modo da ripristinare la situazione sostanziale originaria [però producendo un vantaggio fiscale].

La seconda tipologia (operazioni lineari) produce modificazioni significative nella posizione giuridico-economica del contribuente, ma l’obiettivo economico programmato viene attuato mediante l’indebito ricorso ad un regime fiscale diverso rispetto a quello altrimenti applicabile per raggiungere quel determinato obiettivo.

Nella seconda ipotesi soprattutto il senso dell’abuso è alquanto controverso, dato che si tratta pur sempre di finalità legittimamente perseguite, anche se attraverso un percorso che non è quello “tipicizzato” dal legislatore, e che si tratta per gli interpreti (operatori e controllori) di ricostruire una ratio normativa la cui individuazione è sempre ardua. Si tratta poi della ratio delle disposizioni “aggirate” o di quella delle norme utilizzate nell’ambito del comportamento concretamente seguito?

Il dubbio, non adeguatamente palesato dall’Assonime (che comunque non manca di segnalare il carattere estremo e residuale dell’art. 10-bis in commento) riguarda le possibilità di applicazione, nel rispetto del principio di legalità e delle altre disposizioni costituzionali, di disposizioni che impediscono un comportamento in sé lecito, perché il legislatore non è riuscito a prevederne le possibili conseguenze.

Per identificare la ratio normativa, comunque, secondo quanto affermato nella circolare occorre guardare al canone dell’interpretazione logico-sistematica, nonché alle “altre regole del sottosistema impositivo in cui la norma si colloca”, le quali sono quindi destinate ad operare congiuntamente per soddisfare quel medesimo interesse, oltre che alle “disposizioni contigue, finalizzate a tutelare interessi di altra natura che vanno contemperati con quello cui si rivolge la norma da interpretare”.

Ulteriore inciso critico: per quanto i funzionari dell’ufficio tributario possano essere dotati di eccellenti competenze tecniche, non sembra opportuno porre a carico dell’amministrazione la responsabilità di individuare non una fattispecie concreta, ma addirittura di tracciare i confini di una fattispecie generale e astratta “vuota”, che deve essere riempita attraverso quest’opera di collage logico ricostruttivo coordinando tra loro le disposizioni scritte e implicite di un sottosistema normativo notoriamente complesso (a volte caotico) come quello tributario. Ci sono limiti che, a parere di chi scrive, vanno rispettati a presidio della divisione dei poteri i sono limiti che, a parere di chi scrive, vanno rispettati a presidio della divisione dei poteri e della tenuta del sistema prima ancora che a garanzia dei diritti del singolo.

Secondo quanto rileva la circolare, in tale contesto “il riconoscimento di una più ampia autonomia della ratio rispetto al diritto scritto costituisce un aspetto molto delicato che rischia di mettere in dubbio la certezza e la prevedibilità dei regimi fiscali e che va assunto, dunque, con molta cautela e obiettività. Ed è, altresì, proprio questo il motivo per cui … l’ordinamento continua a farsi carico del risultato conseguito dal contribuente nel senso di offrirgli protezione anche quando si tratta di un risultato in contrasto con la ratio della norma (intesa, in questa accezione, come sganciata dall’imperfetto testo letterale della norma stessa), a meno che la scelta compiuta del contribuente non abbia essenzialmente una motivazione di ordine fiscale e, cioè, sia proprio diretta a strumentalizzare le lacune del diritto scritto in assenza di ragioni extrafiscali significative”.

Casi

La circolare Assonime propone due casi per far comprendere in quale modo un determinato comportamento possa essere ritenuto costituire violazione della ratio delle norme applicate, in relazione, rispettivamente a un’operazione circolare e a un’operazione lineare.

Caso 1: operazione circolare

Una società con perdite rilevanti cede un asset plusvalente ad una società interamente controllata, di nuova costituzione, per poi riacquisire la titolarità del bene a seguito di fusione per incorporazione della stessa controllata. Il risultato conseguito è quello della trasformazione di perdite pregresse in maggiori valori fiscalmente riconosciuti. Se si assume che questo risultato sia in contrasto con la ratio delle regole in tema di utilizzo delle perdite pregresse, il vantaggio indebito da disconoscere sarà costituito dai maggiori valori fiscali ottenuti (e dalla corrispondente consumazione delle perdite) per effetto della sequenza negoziale.

Caso 2: operazione lineare

Una holding residente in un Paese extra UE possiede una società italiana titolare di cospicue riserve di utili e di sola liquidità. L’obiettivo economico di far confluire la liquidità presso la holding viene conseguito mediante la fusione per incorporazione della società italiana da parte della controllante estera. Qui la condotta si inserisce su una modificazione programmata della situazione ex ante. Il risultato fiscale è quello di pervenire a questa modificazione senza alcun prelievo in virtù del regime di neutralità della fusione. Se questo risultato è ritenuto contrastante con la ratio del regime di neutralità della fusione, saremo di fronte ad un vantaggio indebito in cui il beneficio va quantificato ricostruendo il regime che si sarebbe dovuto applicare per conseguire il medesimo obiettivo economico, in assenza del regime di neutralità.

Per quanto riguarda l’ulteriore criterio cui occorre far riferimento nella valutazione di “abusività” dell’operazione, oltre a quello della congruità con la ratio normativa, ossia il rispetto dei principi generali dell’ordinamento, afferma l’Assonime che il legislatore ha inteso rinviare “a quelle regole di carattere generale insite nel sistema impositivo su cui si fonda la coerenza interna della disciplina di ciascun tributo. Sono tali, tra gli altri, nell’ambito dell’imposizione sui redditi, il divieto di doppia tassazione o deduzione o di salti di imposta, il divieto di duplicazione di esenzioni o di crediti di imposta; per l’IVA, il principio di neutralità del tributo; per il tributo di registro, la tassazione solo in caso d’uso degli atti formati per corrispondenza, ecc.”.

Sostanza economica

Ulteriore presupposto per poter riconoscere il carattere abusivo dell’operazione è che la stessa sia priva di sostanza economica.

Il significato di questa nozione viene chiarito nell’art. 10-bis, comma 2, lett. a), ove è affermato che sono “operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”. Il requisito della mancanza di sostanza economica è stato quindi identificato dal legislatore delegato nell’assenza di effetti extrafiscali apprezzabili degli atti o della sequenza negoziale.

Tra gli indici rivelatori del requisito in esame, l’art 10-bis, c. 2, lett. a, menziona l’ipotesi in cui la sequenza negoziale sia caratterizzata dalla “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme”. Sembra trattarsi delle operazioni che, ancorché dirette a realizzare un obiettivo economico reale ed apprezzabile (ad esempio, il trasferimento di un bene a terzi), sono attuate attraverso una peculiare “vestizione giuridica”, intesa appunto a produrre l’effetto fiscale ricercato (che deve essere “significativo” rispetto ai “non significativi” effetti extrafiscali – economici).

Un’ulteriore circostanza ritenuta sintomatica della mancanza di sostanza economica è quella della non conformità degli strumenti giuridici utilizzati rispetto alle “normali logiche di mercato”.

Sia nelle operazioni circolari che in quelle lineari, il requisito della mancanza di sostanza economica deve essere verificato tenendo conto della pluralità degli atti collegati tra di loro. Le circostanze esemplificative contemplate dall’art. 10-bis, c. 2, lett. a, costituiscono comunque solo elementi indiziari della sussistenza del requisito della mancanza di sostanza economica, che non sono vincolanti e possono essere disattesi in sede sia amministrativa che giudiziale.

Essenzialità del vantaggio fiscale

Il vantaggio indebito, per poter essere ritenuto “abusivo”, deve anche risultare essenziale rispetto alle altre finalità perseguite dal contribuente.

Secondo l’Assonime, questa ulteriore condizione dovrebbe ritenersi già implicita nella nozione di mancanza di sostanza economica/extrafiscale: se manca la motivazione non fiscale, infatti, si deve ritenere che le ragioni fiscali siano le sole ad aver indotto i contribuenti a porre in essere il comportamento che concretizza l’abuso.

Come già sopra anticipato, al di là di ciò che viene precisato nella circolare in commento, sembra difficile riscontrare un comportamento imprenditoriale che sia del tutto privo di una sua razionalità economica e motivato e motivato “essenzialmente” da una finalità di risparmio fiscale. Anche se, a dire il vero, c’è una certa differenza tra “essenziale” e totale, la mancanza di sostanza economica potrebbe venir contestata solamente laddove nulla cambi negli assetti dell’impresa. A tacere del fatto che una determinata operazione potrebbe aver avuto in origine una sua fondatissima motivazione economica, poi non perfezionatasi a causa di circostanze indipendenti dalla volontà dell’imprenditore.

21 Novembre 2016

Fabio Carrirolo