I costi per gli amministratori di comodo sono indeducibili dal reddito d'impresa

gli amministratori di comodo sono soggetti privi di reali poteri decisionali rispetto alla società amministrata: i costi relativi agli amministratori di comodo sono indeducibili in quanto non inerenti la produzione del reddito d’impresa

delittocastigo2Con la sentenza n. 18448 del 21 settembre 2016, la Corte di Cassazione ha ritenuto indeducibili i costi sostenuti per gli amministratori di comodo.

Il rilievo fiscale

Il rilievo concerneva il disconoscimento della deducibilità dei costi relativi ai compensi corrisposti agli amministratori “di comodo” (il giudice di appello ha, invece, ritenuto deducibili i compensi corrisposti agli amministratori, espressamente qualificati dalla CTR come “di comodo“, perché privi di reali poteri decisionali, esclusivamente in ragione della loro effettiva erogazione, ma senza verificare la sussistenza del requisito dell’inerenza di quei costi all’attività d’impresa).

La sentenza

La giurisprudenza della Corte (cfr. Cass. n. 21184 del 2014) ha reiteratamente tratto l’insegnamento secondo cui i costi, per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa, debbono soddisfare “principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” (Cass. n. 10167 del 2012; n. 13806 del 2014; n. 1565 del 2014). In particolare, si è affermato da tempo che affinché “un costo possa essere incluso tra le componenti negative del reddito, non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa” (Cass. n. 6650 del 2006).

La norma formula, infatti, il cd. principio di inerenza e cioè il principio della riferibilità dei costi che si intendono dedurre ai ricavi: “siffatta riferibilità, però, non richiede … la connessione comprovata per ogni molecola di costo quale partita negativa della produzione, essendo sufficiente la semplice … contrapposizione economica teorica (cioè, la cosiddetta latenza probabile degli stessi), avuto riguardo alla tipologia organizzativa del soggetto, che genera quindi partite passive deducibili se i costi riguardano l’area o il comparto di attività destinati, anche in futuro, a produrre partite di reddito imponibile. L’inerenza è quindi una relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica, un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito bensì in virtù della sua correlazione con una attività potenzialmente idonea a produrre utili“ (Cass. n. 12168 del 2009; id.; n. 1465 del 2009; n. 4041 del 2015).

Trattandosi peraltro di una componente negativa del reddito si è inoltre precisato che “la prova della sua esistenza ed inerenza incombe al contribuente“ (Cass. n. 1709 del 2007) e che “per provare tale ultimo requisito, non è sufficiente … che la spesa sia stata dell’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa“ (Cass. n. 4570 del 2001).

Applicati detti principi al caso di specie, secondo i massimi giudici “appare evidente l’erroneità dell’affermazione fatta dai giudici di appello in ordine ‘alla deduzione dei costi relativi ai compensi corrisposti agli amministratori’, secondo cui ‘vero è che gli amministratori erano figure di comodo senza reale potere decisionale, ma per la loro funzione venivano comunque retribuiti e percepivano compensi documentati da uscite finanziarie, che per la società costituiscono sempre costi deducibili’, posto che non è sufficiente, ai fini delle deducibilità di un costo, che venga fornita la prova della sua effettiva sussistenza, ovverosia che venga documentata una uscita finanziaria, come ritenuto dalla CTR, ma è necessario che sia dimostrata anche ‘l’inerenza del bene o servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o servizio stesso’ (Cass. n. 16853 del 2013) oltre che da coerenza economica dei costi sostenuti nell’attività d’impresa (Cass. n. 7701 del 2013), che sono caratteri della spesa che fanno chiaramente difetto con riferimento ai compensi erogati ad amministratori di comodo”.

Brevi considerazioni

La sentenza che si annota coglie in pieno il principio di inerenza e cassa la sentenza di merito che, illegittimamente, ritiene comunque e a prescindere deducibile il costo se vi è una uscita finanziaria.

Autorevole dottrina ha rilevato che “poiché l’inerenza deve intercorrere tra i componenti negativi e le attività o i beni da cui derivano componenti positivi tassati, e non tra i componenti negativi e i componenti positivi tassati, ne consegue che sono deducibili anche i componenti negativi che si riferiscono ad attività o beni da cui, in proiezione futura, deriveranno componenti positivi che concorreranno a formare il reddito1“ e pur se il concetto di inerenza ha subito nel tempo un notevole ampliamento, in quanto esso si collega non più solo ai ricavi e/o proventi ma all’intera attività, appare sicuramente forzato ritenere deducibili i costi per gli amministratori di comodo.

Inoltre, la sentenza in commento si inserisce, quindi, in quel filone giurisprudenziale (da ritenere ormai costante e maggioritario), che addossa sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza e la certezza di una spesa all’esercizio dell’impresa2 e, quindi, la deducibilità delle somme versate dal reddito d’impresa. Infatti, con la sentenza n. 16730 del 27 luglio 2007 ( ud. del 24 maggio 2007), ha affermato che ai fini della legittimità della detrazione dell’imposta sul valore aggiunto assolta sugli acquisti, il contribuente deve porre in essere operazioni inerenti all’attività svolta in concreto, qualificabili come strumentali per il conseguimento delle finalità tipiche dell’attività esercitata. Tale imprescindibile presupposto deve altresì essere provato dal medesimo contribuente diversamente da quanto statuito dalla corte di merito; sempre la Cassazione, con la sentenza n. 6855 del 20 marzo 2009 (ud. del 26 febbraio 2009) ha rilevato che “ricade sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza all’attività di impresa delle singole spese affrontate; ed il giudice di merito nel valutare se questa prova sia stata fornita deve prendere in esame la funzione dei beni e dei servizi acquisiti, prescindendo dall’entità della spesa e dalla circostanza che i versamenti siano stati erogati ad un soggetto diverso dal contribuente, il quale abbia a sua volta provveduto alla acquisizione dei beni o alla organizzazione dei servizi” (cfr. Cass. n. 10257/2008 ); e con l’ordinanza n. 19489 del 13 settembre 2010 (ud. del 24 giugno 2010) ha confermato che comunque l’onere della prova circa l’esistenza ed inerenza dei componenti negativi del reddito incombe al contribuente.

Ancora di recente, con la sentenza n. 11160 del 21 maggio 2014 (ud. 7 aprile 2014) la Corte di Cassazione ha ribadito che spetta al contribuente provare l’inerenza di un costo sostenuto, ai fini della deducibilità dal reddito.In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza, la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, nonchè la loro congruità, ove sia contestata dall’Amministrazione finanziaria, incomba sul contribuente, nella disciplina di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (nel testo applicabile ratione temporis). In difetto di tale prova è, per vero, legittima la negazione della deducibilità dal reddito di impresa di un costo non funzionale, oppure sproporzionato, ai ricavi o all’oggetto dell’impresa stessa (cfr., ex plurimis, Cass. 4554/10; 7701/13)”. Principio sostanzialmente riaffermato con la sentenza n. 4595 del 6 marzo 2015 (ud. 19 gennaio 2015), dove la Suprema Corte di Cassazione, dopo aver premesso che “in tema di rettifica del reddito, l’amministrazione finanziaria ha il solo onere di provare l’esistenza di un reddito imponibile e la qualità di debitore del contribuente, mentre è onere di quest’ultimo provare la sussistenza dei presupposti di eventuali esenzioni d’imposta o componenti negativi del reddito”, ha rilevato che “la deducibilità dei costi ed il riconoscimento delle spese…, non consegue solo alla materiale documentazione del sostenimento delle spese stesse…, ma alla qualificazione giuridica delle stesse spese ai fini dell’inerenza e della competenza, e … che è onere della parte che intende avvalersi dei connessi vantaggi fiscali provare la sussistenza di tutti i presupposti di legge…”. La Corte, inoltre, riconferma che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (Cass. sent. n. 21184/2014).

11 ottobre 2016

Gianfranco Antico

1 P.Ceppellini-R.Lugano, Testo unico delle imposte sui redditi, sesta edizione, pag. 571.

2 Si segnala, la sentenza n. 3109 del 19 dicembre 2005, depositata il 13 febbraio 2006, con cui la Corte di Cassazione ha statuito che costituisce principio consolidato l’affermazione secondo cui grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza di una spesa all’esercizio dell’impresa e, quindi, la deducibilità delle somme versate dal reddito d’impresa (nella specie, la pronuncia è relativa alla locazione di un appartamento asseritamene adibito a foresteria). Sempre la Corte di Cassazione, con sentenza n. 1421 del 20 dicembre 2007, dep. il 23 gennaio 2008, ha affermato che costituisce principio consolidato, che giustifica il rigetto in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. del ricorso del contribuente, l’affermazione secondo cui l’art. 19, c. 1, del D.P.R. n. 633/72, consente al compratore di portare in detrazione l’Iva addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore solo quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, richiedendo un quid pluris rispetto alla qualità di imprenditore dell’acquirente, cioè l’inerenza o strumentalità del bene comprato rispetto all’attività imprenditoriale; inoltre, la norma lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato, senza che la sussistenza di detti requisiti possa presumersi in ragione della qualità di società commerciale dell’acquirente (nel caso di specie, una società esercente l’attività di commercio all’ingrosso di frutta aveva rilevato un immobile in leasing da altra società in difficoltà finanziarie ed il giudice di merito aveva escluso la detraibilità dell’iva conseguente all’operazione). In senso conforme si attesta la migliore dottrina che ha avuto modo di affrontare la problematica, CROVATO-LUPI, Il Reddito d’impresa, Il Sole24ore, Milano, 2002, pag. 93, sostenendo che in ipotesi come quella descritta dalla sentenza in esame, spetti al contribuente provare il rapporto funzionale: “di fronte a spese di dubbio collegamento con l’attività aziendale, è il contribuente a dover addurre le circostanze che spiegano il costo nella logica imprenditoriale”.