Accertamento induttivo ad attività commerciali e pubblici esercizi: linee di difesa

le modalità di ricostruzione analitico-induttiva del reddito sono sempre in voga nei controlli su attività commerciali e pubblici esercizi: in questi casi diventano importantissime le presunzioni che il fisco usa per desumere induttivamente il reddito; in questo articolo proponiamo utili spunti di difesa del contribuente contro presunzioni, studi di settore, utilizzo delle medie di settore, doppie presunzioni, tovagliometro…

taverna,_la_piazzaAspetti generali

L’impianto presuntivo-inferenziale contraddistingue le numerose attività istruttorie in campo fiscale, riflettendosi sia negli atti e provvedimenti formati in ambito amministrativo, sia nelle attività più propriamente investigative, di polizia tributaria e giudiziaria, oltre che nel contenzioso tributario e nelle vicende processuali in ambito penale tributario.

Il codice civile distingue tra presunzioni semplici [liberamente apprezzabili dal giudice purché gravi, precise e concordanti] e presunzioni legali, queste ultime ulteriormente divise in assolute [non suscettibili di prova contraria] e relative [con possibilità di prova contraria].

Nel territorio un po’ insidioso delle norme fiscali sull’accertamento, in determinate situazioni si rende anche possibile l’utilizzo di presunzioni c.d. semplicissime, le quali, per quanto possano essere non gravi, né precise, né concordanti, devono tuttavia essere ancorate alla situazione puntuale del soggetto accertato. Rimangono infatti presunzioni, cioè procedimenti logici attraverso i quali deve essere possibile giungere da un fatto noto alla ricostruzione di un fatto ignoto.

Come si cercherà di porre in evidenza in questo contributo, l’attività accertativa – presuntiva degli uffici finanziari non è affatto indiscriminata ma deve svolgersi con estrema attenzione e cautela, sempre guardando alla specifica situazione del contribuente e rifuggendo dalla tentazione di ricorrere a metodologie «standardizzate».

L’accertamento analitico

L’accertamento fiscale alle imprese è in primissimo luogo concepito come analitico, dato che la fiscalità delle imprese discende dalla rappresentazione contabile dei fatti aziendali, cioè dal bilancio.

Il concetto di «analiticità» si coniuga a un tipo di istruttoria fondata sul puntuale riscontro tra gli elementi acquisiti direttamente e in modo completo dall’ufficio procedente e i dati risultanti dalla dichiarazione, a seguito della quale possa risultare con evidenza la fedeltà o l’infedeltà della rappresentazione fatta dal contribuente.

In realtà, più che stabilire una chiara modalità esecutiva [ciò che sembra invece affidato a una prassi variabile nel corso degli anni], le norme fiscali si limitano a stabilire dei poteri in capo all’amministrazione finanziaria [«per i redditi d’impresa… l’ufficio procede alla rettifica»; «l’ufficio… procede alla rettifica della dichiarazione annuale…»].

L’accertamento analitico, consistendo nel controllo puntuale della situazione reddituale ed economica delle imprese sulla base di riscontri ed evidenze dirette, è l’unica tipologia di rettifica che possa «fotografare» un’infedeltà conclamata del comportamento dichiarativo dei contribuenti. Nelle altre ipotesi [accertamento induttivo e analitico – induttivo], quella del fisco è sempre, più che una certezza, un’ipotesi dotata di diversi gradi di sostenibilità e credibilità.

Un’ipotesi che – e bene metterlo in evidenza – poggia su basi presuntive e può essere posta in discussione su basi ugualmente presuntive – da parte dei contribuenti – in sede di contenzioso tributario.

A ogni modo, atteso che le ricostruzioni extracontabili del fisco non possono in alcun modo avere pretese di «scientificità», ma solo – al massimo – produrre un’ipotesi sostenibile, va detto che, come si coglie dagli impianti motivazionali degli accertamenti, il riscontro del «vizio» dichiarativo / contabile del contribuente, che legittima il ricorso a metodologie induttive o analitico – induttive, è preliminare rispetto, appunto, alla ricostruzione presuntiva dei ricavi e del volume d’affari. È evidente che l’attività successiva dell’ufficio accertatore, da analizzare puntualmente, dovrà ritenersi legittima solamente se effettivamente il contribuente ha realizzato quelle omissioni e quei comportamenti [omissione, falsità, inesattezza…] che giustificano il ricorso alle metodologie presuntive.

L’accertamento analitico-induttivo

Nel contesto dell’accertamento analitico [art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. 600/1973], l’ufficio può, relativamente all’accertamento dell’esistenza di attività non dichiarate o dell’inesistenza di passività dichiarate, avvalersi di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.

La rettifica su base presuntiva è pure possibile nell’ambito dei controlli sulle dichiarazioni IVA, a norma degli artt. 54 e 55 del D.P.R. n. 633/1972, in termini sostanzialmente analoghi a quanto è previsto per le imposte sui redditi.

La possibilità di procedere secondo tale modus operandi, che individua il campo del c.d. accertamento analitico-induttivo, può essere innescata dal riscontro di inesattezze contabili gravi [in verità abbastanza difficili nel contesto attuale, soprattutto per le imprese più strutturate], ovvero da altre verifiche o dal rilevamento di situazioni di «infedeltà» in fatture, atti, documenti, etc., nonché da dati e notizie raccolti dall’ufficio fiscale.

In generale, guardando anche allo «schema» dell’art. 38, relativo all’accertamento delle persone fisiche, emergono quali elementi rilevanti ai fini della rettifica le situazioni di:

  • incompletezza [imputabile sia a comportamenti consapevoli e «premeditati», sia a semplici omissioni causate da dimenticanze, imperizia, etc.];

  • inesattezza [per la quale valgono le stesse considerazioni fatte sopra];

  • falsità [che presuppone l’intenzione del dichiarante di fornire una rappresentazione non vera della propria situazione reddituale, e che potrebbe anche – nel contesto dei reati tributari previsti dal D.Lgs. 10.3.2000, n. 74, al superamento delle prescritte soglie minime – comportare conseguenze penali sotto il profilo della«infedeltà» o della vera e propria frode].

L’incompletezza, la falsità o l’inesattezza – fatte salve le regole particolari stabilite, per la rettifica dei redditi d’impresa, nel predetto art. 39 – possono essere riscontrate:

  • attraverso l’esame della dichiarazione, ovviamente più approfondito, ed eventualmente suffragato da altri elementi acquisiti, rispetto ai semplici controlli formali e «cartolari» [artt. 36–bis e 36–ter, D.P.R. n. 600/1973];

  • attraverso il confronto con le dichiarazioni relative ai precedenti periodi d’imposta [che, in ipotesi, potrebbe evidenziare incongruenze come la «scomparsa» di redditi o l’«apparizione» di detrazioni o deduzioni];

  • attraverso i dati e le notizie acquisiti a norma del sopra commentato art. 37 del D.P.R. n. 600/1973.

Per quanto attiene alle presunzioni, che devono possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729, c.c., esse si qualificano come «… le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato» [art. 2727, c.c.].

L’accertamento induttivo

In talune situazioni che il legislatore ha ritenuto più gravi, il fisco ha in apparenza «campo libero», potendosi avvalere di ragionamenti meno solidi e di riscontri più approssimativi. Con le precisazioni che verranno fornite più avanti.

L’ufficio infatti può determinare il reddito d’impresa e il reddito di lavoro autonomo derivante dall’esercizio di arti e professioni in base a metodologie induttive sulla base dei dati e delle notizie in suo possesso, prescindendo in tutto o in parte dalle scritture contabili e con facoltà di avvalersi di presunzioni semplici anche se non gravi, precise e concordanti.

L’esercizio di questa facoltà «ampliata» di rettifica – accertamento induttivo, ex art. 39, c. 2, D.P.R. n. 600/1973 – è consentito:

  • se il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione;

  • se dal verbale d’ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o a ha sottratto all’ispezione una o più scritture che era obbligato a tenere o se le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;

  • se le irregolarità formali, le omissioni, falsità e inesattezze delle scritture risultanti dal verbale d’ispezione sono così gravi, ripetute e numerose da rendere inattendibili le scritture stesse nel loro complesso;

  • se il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’art. 32, c. 1, nn. 3 – 4, del D.P.R. n. 600/1973 o dell’art. 51, c. 2, nn. 3 – 4, del D.P.R. n. 633/1972;

  • in caso di omessa presentazione dei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini degli studi di settore o di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti, nonché di infedele compilazione di tali modelli che comporti una differenza superiore al 15%, o comunque a 50.000 euro, tra i ricavi o compensi stimati applicando gli studi di settore sulla base dei dati corretti e quelli stimati sulla base dei dati indicati in dichiarazione1.

Queste disposizioni valgono, in quanto applicabili, anche per i redditi delle imprese minori e per quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni.

Gravità, precisione, concordanza

I tre requisiti civilistici sono stati esplicati dalla giurisprudenza di legittimità; in particolare, può soccorrere ai fini della presente analisi la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 22.3.2001, n. 4168, nella quale è stato affermato che «in tema di presunzioni, il requisito della gravità si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre e a tal fine è sufficiente che l’esistenza del fatto ignoto sia desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica; il requisito della precisione impone che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; con il requisito della concordanza si prescrive che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto; la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto sono riservati al giudice di merito e sottratti al controllo di legittimità in presenza di adeguata motivazione; diversamente, l’esistenza della base della presunzione e dei fatti noti, facendo parte della struttura normativa della presunzione, è sindacabile in cassazione».

Può pertanto affermarsi che l’accertamento «presuntivo» può avere quale proprio fondamento motivazionale un ragionamento inferenziale con caratteri di:

  • gravità [ovvero «ragionevole certezza, anche probabilistica»];

  • precisione [fondatezza e determinatezza dei fatti noti posti a base del ragionamento];

  • concordanza [ovvero «convergenza» di più fatti noti verso la dimostrazione del fatto ignoto]

Presunzioni non qualificate

Come sopra accennato, le presunzioni utilizzabili nell’ambito dell’accertamento induttivo puro possono essere anche non qualificate.

Queste presunzioni «semplicissime» possono trarre origine dalla conoscenza di un fatto sintomatico certo dal quale sia possibile far scaturire gli elementi che ragionevolmente conducono alla determinazione induttiva del reddito d’impresa, anche al di là delle ipotesi indicate nelle varie lettere del secondo comma.

In particolare l’inattendibilità delle scritture contabili dovuta alle gravi irregolarità e inesattezze rappresenta, in certo senso, il trait d’union tra l’accertamento analitico, effettuato sulla base dell’osservazione delle scritture contabili, e l’accertamento che da queste prescinde, giungendo alla ricostruzione del reddito in via induttiva.

La garanzia ordinariamente offerta dalle scritture contabili regolari cessa se le scritture stesse, per i vizi e le falsità da cui sono minate, non si presentano come «attendibili», e l’ufficio può di conseguenza rettificare la situazione reddituale dichiarata secondo una propria ricostruzione fondata sulle «evidenze» comunque reperite nell’attività istruttoria.

Presunzioni di cessione e acquisto

Pur trovando fondamento normativo in ambito IVA, le note presunzioni di acquisto e cessione esplicano la propria efficacia certamente anche nel settore delle imposte sui redditi; è infatti innegabile (salvi i casi delle vicende che interessano la detrazione dell’imposta) che volume d’affari [o corrispettivi] e reddito d’impresa [o di lavoro autonomo] siano nozioni in larga misura «parallele», suscettibili di reciproci condizionamenti in sede di accertamento.

Ai fini della rettifica del volume d’affari ai fini IVA, si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti.

Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa.

La presunzione, che ha carattere legale relativo [suscettibile cioè di prova contraria], poggia sul disposto del D.P.R. 10.11.1997, n. 441, che ha sostituito, con vigenza dal 7.1.1998, il vecchio art. 53 del D.P.R. n. 633/1972.

La presunzione non opera se il contribuente dimostra che i beni stessi:

  • sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti;

  • sono stati consegnati a terzi in lavorazione, deposito, comodato o in dipendenza di contratti estimatori, di contratti di opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o di altro titolo non traslativo della proprietà.

Specularmente, i beni che si trovano in uno dei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni si presumono acquistati se lo stesso non dimostra di averli ricevuti in base ad un rapporto di rappresentanza o ad uno degli altri titoli sopra menzionati.

Il titolo di provenienza dei beni che formano oggetto dell’attività propria dell’impresa e che siano rinvenuti nei luoghi a essa afferenti risulta, alternativamente:

  • dalla fattura, dallo scontrino o dalla ricevuta fiscale;

  • dalla bolla di accompagnamento, progressivamente numerata dal ricevente;

  • da altro valido documento di trasporto.

In mancanza, la presunzione può essere superata da un’apposita annotazione nel libro giornale o in altro libro tenuto a norma del codice civile, o in apposito registro tenuto e conservato ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 633/1972, ovvero nel registro previsto dall’art. 25 dello stesso D.P.R. [registro degli acquisti], contenente:

  • l’indicazione delle generalità del cedente;

  • la natura, qualità e quantità dei beni;

  • la data di ricezione degli stessi.

Presunzioni e studi di settore

Le presunzioni, pur se formalizzate e incorporate entro un meccanismo «preformato», costituiscono anche la base del funzionamento degli studi di settore come strumento di accertamento.

Dal punto di vista giuridico, l’utilizzo degli studi di settore in sede di accertamento ha trovato origine e fondamento nell’art. 62-sexies, terzo comma, del D.L. 30.8.1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla L. 29.10.1993, n. 427, e si configura come un’evoluzione [in senso statistico-econometrico] dell’accertamento analitico-induttivo, nella direzione della ricerca di una maggior oggettività.

In virtù di tale norma e delle disposizioni introdotte con l’art. 10 della L. 8.5.1998 n. 146, costituisce presunzione «grave, precisa e concordante», su cui fondare l’accertamento in questione, lo scostamento dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli attribuibili al contribuente sulla base dello studio di settore approvato per la specifica attività svolta.

A seguito delle opposizioni registrate, nel mondo delle imprese e delle professioni, soprattutto nei confronti degli INE (indicatori di normalità economica), «implementati» dalla Finanziaria 2007, la portata dello strumento presuntivo è stata «messa a punto» sia in sede normativa , sia nella prassi interpretativa ufficiale dell’Agenzia delle Entrate , puntualizzandone con rigore la natura di presunzioni semplici ed escludendo ogni possibile automatismo delle rettifiche in base ai valori economici così «presunti».

Gli interventi sia normativi che di prassi, intesi a circoscrivere sempre più le possibilità di utilizzo degli studi di settore, sono giustificati dal fatto che questi strumenti presuntivi altro non sono che «stime» effettuate da un software, in sé insufficienti a integrare l’impianto motivazionale di un accertamento senza il supporto di ulteriori riscontri e mezzi istruttorii.

In termini schematici, gli studi di settore operano attraverso l’elaborazione di alcuni dati reali, ottenendo una «funzione di ricavo» in grado di individuare il livello ipotetico di congruità e di coerenza dell’attività. Si tratta comunque, è il caso di evidenziare, di una «media» e non di una rappresentazione più o meno fedele della situazione del contribuente accertato.

La stessa Agenzia delle Entrate – in particolare con la circolare n. 5/E del 2008 – ha riconosciuto il carattere presuntivo semplice degli studi di settore, con ciò escludendo qualsiasi attività accertativa fondata esclusivamente sullo scostamento tra la funzione di ricavo e la situazione reddituale dichiarata del contribuente.

Naturalmente può anche verificarsi l’ipotesi in cui il cluster, il gruppo di imprese simili, cui fa riferimento lo studio di settore, sia inidoneo a rappresentare la situazione specifica del contribuente, che di ciò sia stata fornita indicazione dei relativi modelli, e che ciò nonostante l’ufficio abbia proceduto ad accertamento, compiendo in pratica un’assimilazione tra situazioni incomparabili. In tali ipotesi, la motivazione dell’accertamento è con tutta evidenza carente.

Medie di settore

Talvolta gli uffici finanziari, nell’ambito delle attività di accertamento presuntivo [induttivo puro o analitico – induttivo], hanno ritenuto che la discrezionalità del fisco fosse così vasta da consentire non la ricostruzione di un risultato economico, ma addirittura la «costruzione» di un imponibile accertato [e quindi delle relative maggiori imposte], sulla base di una situazione riferibile a terzi, cioè alle attività economiche aventi caratteristiche simili a quelle del soggetto accertato.

Si ritiene che le medie di settore, analogamente a quanto accade per gli studi di settore, essendo null’altro che calcoli fondati sulla situazione di soggetti al contribuente, siano del tutto inidonee, di per sé sole, a reggere le motivazioni di un avviso di accertamento [mentre potrebbero ben concorrere con ulteriori riscontri, a rafforzamento della tesi dell’ufficio che tuttavia, pur presuntiva, dovrà fondarsi su una situazione di «gravità, precisione e concordanza» puntuale, relativa al soggetto target].

Si osserva che, anche se l’utilizzo di medie di settore in sede di accertamento non è escluso in toto dalla giurisprudenza, esso si ritiene sottoposto a notevoli vincoli.

In materia possono essere richiamati i seguenti riferimenti giurisprudenziali in sede di legittimità.

  • Cass. 15.10.2008 n. 25200: «… la Corte ha affermato il principio secondo cui (…) l’infedeltà dei dati indicati nella dichiarazione, che può anche essere indirettamente desunta sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti (…), non può essere inferita dalla sola circostanza costituita dal fatto che la percentuale di ricarico applicata sul costo della merce venduta è notevolmente inferiore a quella media, riscontrabile nel settore specifico di attività in aziende similari, in quanto “le medie di settore” non integrano un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello “ignoto”, costituente l’oggetto del “thema probandum”, ma il risultato di una extrapolazione statistica di una pluralità di dati che fissa una regola di esperienza, in base alla quale poter ritenere statisticamente meno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi, rispetto a quelli che si avvicinano; il richiamo a tale regola di esperienza non comporta neppure un’inversione dell’onere della prova, addossando al contribuente l’onere di dimostrare le ragioni specifiche della divergenza dei propri dati da quelli medi, perché nelle fattispecie normative previste dal D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, l’infedeltà della dichiarazione costituisce la premessa stessa del sorgere del potere di accertamento induttivo».

  • Cass. 6.8.2009 n. 18020: richiamando il precedente costituito da Cass. 14.5.2007, n. 10960 e altre sentenze pregresse, riafferma che «in tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riferimento all’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d, i valori percentuali medi del settore rappresentano non tanto un “fatto noto” storicamente verificato, sul quale è possibile fondare una presunzione di reddito ex art. 2727 c.c., ma, piuttosto, il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa soltanto una regola di esperienza” per cui “tali valori in nessun caso possono giustificare presunzioni qualificabili come gravi e precise, indicando, diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica impresa interessata, solo in via ipotetica la redditività dell’attività dell’impresa medesima, cosicché, laddove non confortati da altre risultanze, si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39 citato».

  • Cass. 15.10.2014 n. 21791: «… secondo il consolidato orientamento della S.C. nell’ipotesi, ricorrente nel caso di specie, di accertamento effettuato ai sensi dell’art. 39 comma 1 lett. d) DPR n. 600/1973 (cd. analitico) in presenza di scritture contabili formalmente corrette, non è sufficiente, ai fini dell’accertamento di un maggior reddito d’impresa, il solo rilievo dell’applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico diversa da quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, ma occorre invece che risulti qualche elemento ulteriore, incidente sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, ovverossia la concreta ricorrenza di circostanze gravi, precise e concordanti».

Doppie presunzioni

La «doppia presunzione», nozione elaborata e discussa in sede giurisprudenziale, configura un ragionamento inferenziale che non si limita a far discendere da un fatto noto la conoscenza di un fatto ignoto, consistendo invece nel collegamento tra una presunzione di «primo» e di «secondo livello» (ad esempio, nell’ambito del redditometro, il soggetto X manifesta un indicatore di capacità contributiva – ad es., un auto di grossa cilindrata -, ma tale capacità reddituale viene attribuita non a X, bensì a Y, padre di questi, imprenditore).

Secondo una posizione autorevolmente manifestata in dottrina , il più volte asserito «divieto» di doppie presunzioni [praesumptum de praesumpto non admittitur] potrebbe in realtà risolversi in un semplice problema di prove [o, per meglio dire, di attendibilità delle stesse].

Ciò nondimeno, secondo quanto è stato evidenziato, la giurisprudenza ha verso tale «luogo comune» un atteggiamento di «formale rispetto», giacché menziona le presunzioni di secondo grado solamente quando si tratta di respingerle. In presenza invece di presunzioni di secondo grado che appaiono fondate, queste sono accettate senza particolari problemi.

In ogni caso, a parere di chi scrive, le presunzioni che si innestano su altre presunzioni rischiano di restituire non una situazione in cui un fatto ignoto [l’evasione] venga indicato con chiarezza attraverso l’interpretazione di un fatto noto sintomatico, bensì una concatenazione di fatti ignoti che divengono noti solo in virtù del ragionamento presuntivo.

Tovagliometri e altro

La prassi operativa e la giurisprudenza conoscono attività di accertamento fondate sulla ricostruzione presuntiva dei ricavi di determinate attività, svolte da pubblici esercizi, in base al consumo di beni impiegati per rendere il servizio. In tale situazione, ad esempio l’utilizzo X di tovaglioli o tovagliette di carta diventa sintomatico di un volume d’affari non dichiarato Y, sulla base del presupposto che, ad esempio, un tovagliolo consumato sia equivalente a un pasto o a una somministrazione. E’ evidente a questo riguardo che il consumo di tovaglioli / tovagliette può variare in relazione all’impiego degli stessi ad esempio per asciugare le stoviglie, o al maggior consumo fatto da determinati clienti che non si accontentano di un solo tovagliolo di carta.

A prescindere dall’attendibilità di una simile ricostruzione, gioca qui la considerazione della cosiddetta percentuale di sfrido, cioè dell’extra – consumo dei beni che non può dar luogo [sempre presuntivamente] alla produzione di ricavi. È chiaro che il risultato del controllo, e quindi dell’accertamento, cambia sensibilmente, potendo azzerarsi, a seconda che lo sfrido considerato sia del 5% o del 30% [percentuale quest’ultima che è stata ritenuta congrua da molte commissioni tributarie].

A parere di chi scrive, comunque, le ricostruzioni spannometriche effettuate mediante fogli excel, secondo una metodologia induttiva che sorvola completamente la rappresentazione contabile e fiscale dell’impresa, hanno una fragilità intrinseca in quanto intese a fornire una rappresentazione «sostenibile», ma non reale, della situazione del contribuente. Si tratta insomma di dati che possono essere tirati da una parte o dall’altra secondo considerazioni discrezionali, e che forse possono reggere, più che la prova del contenzioso, le riduzioni e rideterminazioni accordate in sede di accertamento con adesione.

Può inoltre evidenziarsi che l’uso di calcoli e fogli elettronici [sistema assai più naïf e artigianale rispetto ai già molto imperfetti studi di settore] espone l’ufficio a facili contestazioni circa l’esattezza e la completezza dei dati, che con tutta ovvietà, per poter convincere le commissioni, dovranno essere «visivamente» lampanti e consentire un collegamento diretto tra il dato certo – il consumo – e quello incerto, ossia l’evasione.

Si richiama al riguardo la sentenza Cass. n. 24436 del 2.10.2008, secondo la quale, in sede di ricostruzione presuntiva, dovrebbe cogliersi un nesso di stretta correlazione tra i consumi e le vendite. La correlazione dovrebbe quindi instaurarsi tra un dato certo e obbiettivo, costituito dalle quantità di commestibili in concreto utilizzati dal ristorante, partendo dalla quantità di materie prime utilizzate [criterio dotato di attendibilità maggiore rispetto a quello dato dal numero di tovagliette utilizzate].

Per quanto attiene alla giurisprudenza di merito, possono essere richiamate le seguenti sentenze.

  • C.T. Reg. Venezia 10.7.2012 n. 77/24/12: il «tovagliometro» non è da solo idoneo alla ricostruzione dei maggiori incassi; lo sfrido pur elevato – del 30% – non è stato giustificato dall’ufficio; nell’insieme, la motivazione dell’accertamento non è convincente.

  • C.T. Reg. Milano 9.4.2013 n. 58/5/13: analoga alla precedente: l’ufficio non ha effettuato una ricostruzione attendibile, pur considerando uno sfrido del 25%, in quanto non ha considerato i diversi utilizzi dei tovaglioli per le varie attività necessarie, per autoconsumo…

Confini del ragionamento presuntivo

Le presunzioni fiscali, anche semplici e «semplicissime», sorreggono buona parte dell’attività accertativa dell’amministrazione finanziaria, e tale circostanza rappresenta semplicemente l’effetto di una normativa che consente di ricostruire induttivamente [e analitico-induttivamente] gli imponibili in presenza di un determinato «segnale», in grado di rivelare nel contribuente un comportamento «infedele» o inteso a ostacolare l’azione investigativa. Da un lato si tratterebbe di una «sanzione impropria», dall’altro di una necessità, conseguente alla riscontrata mancanza di elementi attendibili per procedere all’audit fiscale del soggetto controllato.

Atteso che il presidio a livello giuridico-costituzionale costituito dai principi di eguaglianza e capacità contributiva dovrebbe escludere ogni indebita ricostruzione di imponibili inesistenti, occorre anche fare i conti, soprattutto per quanto attiene alla fiscalità d’impresa, con le oggettive complicazioni e difficoltà attinenti alla determinazione degli imponibili [e non solamente con l’eventuale «malafede» manifestata dai contribuenti].

Tale situazione conduce all’esigenza delle presunzioni – in generale – quale strumento di ausilio al controllo; l’utilizzo del ragionamento presuntivo dovrebbe tuttavia avvenire quando scarseggiano gli elementi più direttamente riscontrabili, o comunque a rafforzamento di un impianto probatorio costituito anche mediante altri riscontri. È altresì evidente che le presunzioni – pur persuasive – potrebbero condurre a una ricostruzione dei «fatti» difforme rispetto alla realtà effettiva, insomma all’elaborazione di una «realtà parallela» logicamente fondata ma indotta dalle sole «convenienze» della parte erariale. Di fronte a tali rischi, la difesa del contribuente in sede di contraddittorio, oltre che avanti i giudici, dovrebbe potersi supportare anche su un parallelo ragionamento inferenziale [presunzioni contro presunzioni].

L’attività di controllo fiscale e di accertamento dovrebbe insomma essere sempre sorretta da un canone di prudenza e ragionevolezza, essendo istituzionalmente finalizzata alla ricostruzione di una situazione fattuale reale. L’eccessivo ricorso a presunzioni, di primo e di secondo grado, contravviene alle esigenze di un’attività ispettiva che dovrebbe essere orientata sempre dai principi costituzionali [capacità contributiva, legalità, diritto di difesa], nonché dal presidio «superprimario» fornito dallo Statuto del contribuente.

Le situazioni che si è cercato di individuare sopra [accertamenti induttivi e analitico – induttivi, utilizzo di medie e studi di settore, presunzioni e doppie presunzioni …], evidenziano che l’atto impositivo emesso dagli uffici fiscali in presenza di attività commerciali e di pubblici esercizi si muove sempre su un terreno estremamente insidioso per ambedue le parti della vertenza. In primo luogo perché, pur trattandosi di attività dalle limitate potenzialità economiche, la loro gestione avviene attraverso innumerevoli atti che vengono solitamente registrati in modo costante e quindi riportati nelle scritture contabili. La ricostruzione di questi flussi è continua attraverso i misuratori fiscali e le scritture successive. Nel momento in cui l’ufficio intende superare gli schermi contabili, si trova di fronte a ipotesi ricostruttive alternative, con la necessità di adottare delle scelte, e questo conduce con tutta evidenza a costruire un volume d’affari e di ricavi – appunto, come si diceva – al massimo «sostenibile», ma non [tecnicamente] reale. Un conto, infatti, è misurare e trascrivere ogni operazione, e un’altra cosa contare i tovaglioli presumendo il consumo, in un quadro di presunzioni che divengono sempre più rarefatte.

14 ottobre 2016

Fabio Carrirolo

1 La possibilità di procedere ad accertamento induttivo in caso di incongruenze in base agli studi di settore non dovrebbe tradursi nell’emanazione di accertamenti induttivi fondati «solo» su tale incongruenza. Gli «studi» non sono altro, infatti, che la formalizzazione di una «media di settore», di per sé inidonea a descrivere la reale situazione economica di un contribuente X, anche se questo rientra all’interno di un determinato cluster.