Controllo a distanza dei lavoratori e tutela della privacy

l’installazione di strumenti di sorveglianza con la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori può essere utile ai fini della tutela del patrimonio aziendale e della sicurezza sul lavoro, ma può creare problemi per quanto riguarda la tutela della privacy del lavoratore

taci1La tutela del patrimonio aziendale, le motivazioni tecnico – produttive e la sicurezza sul lavoro sono esigenze degne di interesse, dal punto di vista dell’imprenditore.

Su questo non c’è dubbio.

Se però queste tutele si intersecano con l’installazione di strumenti di sorveglianza con la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, dobbiamo fermarci e adempiere agli obblighi previsti dalla norma.

In queste situazioni, infatti occorrerà sottoscrivere preventivamente un accordo con le organizzazioni sindacali interne o, in mancanza, richiedere apposita autorizzazione alla DTL competente per territorio.

Ma quando si parla di controllo a distanza dei lavoratori?

Il nuovo dettato normativo (art. 23 del D.Lgs. n. 151/2015) ha cercato di “tenere il passo” con le nuove tecnologie e con i progressi dell’informatica.

Oggi, infatti, esistono strumenti che consentono di controllare da remoto l’attività lavorativa e i lavoratori in maniera ben più incisiva e stringente rispetto alle vecchie telecamere che, in passato, hanno tanto preoccupato il legislatore.

Il progresso tecnologico, da una parta è sicuramente un bene, ma dall’altra, genera problematiche applicative di non facile risoluzione in quanto si tratta di soddisfare congiuntamente l’esigenza dell’azienda senza dimenticarsi di tutelare la privacy dei lavoratori.

Recentemente, il Garante per la protezione del dati personali ha reso noto, tramite un documento web, il divieto di monitoraggio massivo delle attività in Internet dei lavoratori, che possono consistere, ad esempio, in verifiche indiscriminate sulla posta elettronica e sulla navigazione web del personale.

Il Garante, infatti, ha precisato che quando i dati raccolti siano chiaramente riconducibili ai singoli utenti, anche grazie al tracciamento puntuale degli indirizzi IP e degli identificativi hardware dei pc assegnati ai lavoratori, si configura una violazione alla privacy.

Un’altra interessante questione è quella legata ai dispositivi mobili, come, ad esempio, il GPS installato sui mezzi aziendali: accordo sindacale “sì” o accordo sindacale “no”?

Partiamo dal presupposto che l’accordo collettivo (o l’autorizzazione della DTL) non è necessario:

  • nel caso di impiego di strumenti utilizzati dal lavoratore per svolgere la propria attività lavorativa;

  • per gli strumenti di registrazione delle presenze;

  • per la verifica degli accessi in azienda.

Pare, quindi, che il datore di lavoro che fornisca al lavoratore, per svolgere la propria prestazione, un pc, un tablet o uno smartphone, rientri tra le deroghe rispetto al principio generale di tutela della privacy.

Esiste certezza in tal senso? Questi strumenti sono davvero “scollegati” dalle esigenze di natura organizzativa e di tutela del patrimonio aziendale che prevedono invece l’iter sindacale o, in alternativa, amministrativo?

Al momento, il Ministero, non si è ancora espresso con un orientamento di prassi definitivo ma, nel silenzio dell’amministrazione, è utile rifarsi all’interpretazione data dalla Direzione Interregionale del Lavoro di Milano ed agli orientamenti giurisprudenziali che sostengono che la discriminante è la natura dello strumento fornito al lavoratore.

Come si può definire “strumento di lavoro”?

È strumento di lavoro il mezzo che serve al lavoratore per adempiere al suo obbligo dedotto in contratto, cioè per eseguire una prestazione lavorativa. Ad esempio:

  • lo smartphone aziendale assegnato ai piazzisti dotato di applicazioni (come le mappe e il navigatore) utili per gli spostamenti;

  • l’autocarro con rilevatore GPS, nel settore autotrasporto (è pur vero che, ad oggi, sul sito del Ministero è pubblicato un modello di richiesta di installazione di GPS, quindi, sul punto, il contrasto è evidente).

Superato questo scoglio interpretativo, i giochi non sono ancora finiti; è necessario porre in essere ancora un adempimento per ottemperare completamente agli obblighi in materia di controlli a distanza.

Si tratta del redigere e consegnare singolarmente al lavoratore una precisa e dettagliata informativa sulle modalità d’uso e di controllo degli strumenti dati in dotazione.

Tale informativa dovrà ottemperare alla normativa a tutela della privacy ed essere integrata al fine di poterla utilizzare per tutte le finalità connesse al rapporto di lavoro, ivi compresi i motivi disciplinari.

Per concludere, parliamo di sanzioni.

Con una nota di giugno, il Ministero del Lavoro ha fornito chiarimenti in merito agli accertamenti ispettivi e alle sanzioni in caso di installazione di strumenti di sorveglianza sui luoghi di lavoro, in assenza di accordo sindacale o autorizzazione amministrativa.

Tuttavia, anche in questo caso, il Ministero non ha approfondito le questioni nate dal progresso tecnologico, soffermandosi solo sulle tradizionali videocamere e sul mancato rispetto dell’iter procedurale.

È stato precisato che la semplice installazione di impianti non funzionanti o “finti“, il cui scopo è evidentemente dissuasivo, comporta una violazione della norma: in questo caso il personale ispettivo, accertata la mancanza dovrà tassativamente procedere:

  • con la prescrizione;

  • con l’irrogazione della contravvenzione (ammenda da 154 a 1549 euro o l’arresto da 15 giorni ad un anno);

  • con l’intimazione a rimuovere il dispositivo.

A tutto questo seguirà l’invio del verbale alla Procura della Repubblica.

Si ricorda però che la prescrizione è accompagnata dalla concessione del termine tecnico di 30 giorni durante il quale il datore di lavoro potrà regolarizzarsi, versare la sanzione amministrativa pari ad 1/4 dell’importo massimo ed estinguere il reato.

30 settembre 2016

Sandra Paserio e Giulia Vignati