Il valore delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario

nel processo tributario sono indizi probanti le dichiarazioni di terzi acquisite dai verbalizzanti; tuttvia andrà riconosciuta la possibilità di usare tale strumento probatorio anche per i contribuenti in fase difensiva per garantire un giusto processo

william_talman_raymond_burrCon la sentenza n. 13384 del 30 giugno 2016, la Corte di Cassazione ha confermato che “nel processo tributario, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell’Ufficio” (Cass. n. 6946 del 2015).

Nel processo tributario, infatti, “fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione (cfr. Corte cost., sent. n. 18 del 2000) – va riconosciuto non solo all’Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente – con il medesimo valore probatorio -, dandosi così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa: in applicazione del principio, la s.c. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto utilizzabili, su richiesta del contribuente, dichiarazioni testimoniali e una relazione di consulenza tecnica, formatisi nell’ambito di un procedimento penale” (Cass. n. 11785 del 2010, n. 8369 del 2013)”.

Il valore delle dichiarazioni di terzi

Nel processo tributario, le dichiarazioni di terzi (acquisite dalla polizia tributaria o da funzionari accertatori dell’Ufficio nel corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, che a sua volta viene recepito nell’avviso di accertamento) hanno, in via di principio, un valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate e/o supportate da altri elementi di prova. Resta fermo che tali dichiarazioni, quando abbiano valore confessorio, possono integrare una prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica, da parte dell’amministrazione finanziaria, senza incorrere nel divieto di prova testimoniale, sancito dall’art.7, del D.Lgs. n. 546 del 1992, in quanto norma limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi di verifica.

Di conseguenza, le dichiarazioni rese dai terzi ai verificatori, e inserite nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali meri indizi, o anche quali elementi di prova piena, in presenza di determinate circostanze.

Possiamo, quindi, sostenere che le dichiarazione dei terzi1 (rese al di fuori e prima del processo – i.e. in corso di verifica) costituiscono strumenti di prova indiziaria. I verificatori civili e miliari possono, pertanto, raccogliere “sommarie informazioni” dai soggetti sottoposti a indagine, o da altri soggetti2.

La posizione della giurisprudenza

Senza qui andare a recuperare il precedente pensiero della Corte di Cassazione3, peraltro conforme, di recente la Corte di Cassazione (sentenza n. 13161 dell’11 giugno 2014, ud. 5 maggio 2014) ha confermato che le dichiarazioni dei terzi hanno il valore indiziario di informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, utilizzabili dal giudice quale elemento di convincimento. Infatti, secondo la Suprema Corte, “in materia, costituisce principio condiviso quello per cui, nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art.7, si riferisce alla prova testimoniale quale prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (cfr. Cass. n. 9402/07; n.703/2007, e da recente n. 8369/2013)”.

Nel medesimo senso si sono espressi i giudici del Palazzaccio (sentenza n. 658 del 15 gennaio 2014, ud. 25 novembre 2013), confermando che le dichiarazioni dei fornitori “proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali semplici elementi indiziari, il cui valore può essere sempre contestato dal contribuente nell’esercizio del suo diritto di difesa (Corte Cost. 21 gennaio 2000 n. 18; Cass. n. 14774/2000; Cass. n. 11994/2003; Cass. n. 20032/12 e 21812/2012)“.

E con la sentenza n. 15331 del 4 luglio 2014 (ud. 8 aprile 2014) la Corte di Cassazione ha affermato che l’inesistenza di una operazione commerciale “può essere fornita anche attraverso elementi presuntivi, tra i quali vanno annoverate le dichiarazioni dei terzi, purchè inserite o trascritte nel processo verbale di constatazione, ovvero allegate all’avviso di rettifica notificato. Una volta che tale prova sia stata adeguatamente fornita, spetta al contribuente fornire la prova contraria della esistenza dell’operazione contestata, la quale non può consistere esclusivamente nella regolarità formale delle scritture o nelle evidenze meramente contabili dei pagamenti“.

La stessa Cassazione (sentenza n. 16223 del 16 luglio 2014) attestandosi sulle posizioni già espresse in precedenza, ha confermato che nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla G.d.F. e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno valore indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice unitamente ad altri elementi”, fermo restando che la limitazione posta dall’art. 7, c. 4, D.lgs. 546/1992 “vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice stesso, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione che, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista un particolare valore probatorio. Le dichiarazioni, invece, dei terzi, raccolte da verificatori o finanzieri e inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di convincimento”.

E con l’ordinanza n. 19965 del 22 settembre 2014 (ud 19 giugno 2014), la Corte di Cassazione, richiamando un proprio pronunciamento (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20032 del 30/09/2011) ha ribadito che: “In tema di contenzioso tributario, la disposizione contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, – secondo cui nel processo tributario non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale – in quanto limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni, vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione che, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista un particolare valore probatorio. Le dichiarazioni, invece, dei terzi raccolte dai verificatori, quand’anche nell’ambito di un procedimento penale, e inserite nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova“.

Così come con l’ordinanza n. 22616 del 24 ottobre 2014 (ud. 24 settembre 2014) la Corte di Cassazione ha confermato che le dichiarazioni rese dall’amministratore legale rappresentante della società nel corso della verifica sono qualificabili come confessione stragiudiziale, in virtù del nesso d’immedesimazione organica tra il primo e la seconda, che non è reciso neanche quando l’atto sia stato compiuto dall’amministratore con dolo o abuso di potere e non rientri nella sua competenza (Cass. 12 dicembre 2013, n. 27833; 5 dicembre 2011, n. 25946; 26 maggio 2008, n. 13482; Cass. 21 dicembre 2005, n. 28316)”; e con la sentenza n. 8196 del 22 aprile 2015 (ud. 28 gennaio 2015) la Cassazione ha confermato il principio secondo cui le dichiarazioni di terzi, raccolte nel corso di controlli effettuati dalla Guardia di finanza, hanno valore indiziario. Nel caso in questione era in discussione l’effettiva sede della società sottoposta a controllo, e la CTR ha fondato la propria statuizione su “una pluralità di elementi sia di carattere documentale, quali, a titolo esemplificativo, l’esame della contabilità, dei documenti afferenti ai rapporti con fornitori e terzi, la documentazione bancaria, i verbali del CdA, rinvenuti in occasione dell’accesso effettuato dalla Guardia di Finanza e trasfusi nel pvc, sia delle dichiarazioni rese da terzi ai militari della Guardia di Finanza”. Osserva la Corte che tali dichiarazioni “sono senz’altro ammissibili nel processo tributario e vi trovano ingresso come elementi indiziari che concorrono a formare il convincimento del giudice nel complesso delle altre risultanze probatorie (Cass. 23397/2011). Ed invero nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, si riferisce alla prova testimoniale quale prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (Cass. 8369/2013)”.

E da ultimo, con la sentenza n. 20961 del 16 ottobre 2015 (ud. 4 maggio 2015) la Corte di Cassazione, ritornata ad affrontare la questione relativa al valore da attribuire alle dichiarazioni di terzi, dopo aver affermato che non corrisponde al vero che i giudici di secondo grado si siano limitati ad accogliere l’appello della contribuente “sulla scorta delle risultanze testimoniali emerse in sede di dibattimento penale“, avendo essi non solo indicato gli ulteriori elementi di fatto sui quali si è basata la decisione (rispetto ai quali il giudicato penale ha rappresentato una sorta di “riprova“), ma anche fatto espresso riferimento al potere del giudice tributario di valutare autonomamente i fatti storicamente accertati in sede penale, ha ribadito che “nel giudizio tributario non opera automaticamente l’efficacia vincolante del giudicato penale ai sensi dell’art. 654 c.p.c., poichè in esso, per un verso, vigono specifiche limitazioni probatorie e, per altro verso, trovano accesso anche le presunzioni, inidonee invece a supportare una pronuncia penale di condanna. Di conseguenza, la decisione penale può costituire in quella sede un semplice indizio, o elemento di prova critica, in ordine ai fatti ivi accertati, sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio (Cass. n. 4924 del 2013)”. Resta fermo che la disposizione dell’art. 7, del D.Lgs. n. 546 del 1992 (per cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale)è diretta a circoscrivere i poteri delle commissioni tributarie, piuttosto che degli organi amministrativi di verifica (altrove disciplinati) e vale quindi ad escludere solo la possibilità di una diretta assunzione della testimonianza di terzi nel corso del giudizio tributario – con quella valenza probatoria tipica, connessa al rispetto di determinate formalità processuali – non anche l’eventualità che dichiarazioni di terzi siano raccolte dai verificatori o, a maggior ragione, assunte nell’ambito del processo penale (Cass. n. 6953 del 2015); fermo restando che, in tal caso, dette dichiarazioni non assurgono a valore di prova piena ed autonoma, ma restano pienamente utilizzabili quali semplici elementi di prova (Cass. n. 20032 del 2011, n. 21812 del 2012)”. In particolare, osserva la Corte, “ove si tratti – come nel caso di specie – di atti ritualmente assunti in sede penale ed acquisiti dall’amministrazione finanziaria, essi possono entrare a far parte, a pieno titolo, del materiale probatorio sottoposto alla valutazione di merito del giudice tributario, così come previsto, tra l’altro, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63 (Cass. n. 2916 del 2013). Del resto, in base al principio del giusto processo e della parità di armi processuali tra le parti, a tale possibilità corrisponde, specularmente, la facoltà del contribuente di avvalersi di analoghi mezzi conoscitivi da riversare nel processo (Corte cost. n. 109 del 2007). Senza poi considerare che, come tutti gli elementi indiziari, le dichiarazioni rese in sede penale, se ritenute attendibili, possono anche assumere efficacia decisiva nel processo tributario, a prescindere dall’esistenza di specifici riscontri documentali, restando affidata al giudice tributario la valutazione complessiva dei vari elementi di prova disponibili (Cass. n. 8772 del 2008)”.

La questione aperta

Se appare corretta la scelta operata in ordine all’inammissibilità della testimonianza nel processo tributario, di converso, escludere qualsiasi forma di dichiarazione orale resa nel corso del procedimento tributario significherebbe privare lo stesso contribuente di informazioni, chiarimenti, spiegazioni sui fatti, utili per la ricostruzione della vicenda4.

Dl punto di vista pratico, il problema della cosiddetta “verbalizzazione(ossia quello di definire la veste formale nella quale tali dichiarazioni debbano essere rese al fine di venire prodotte nel giudizio5) non si pone per le dichiarazioni rese all’Amministrazione finanziaria, in quanto queste vengono solitamente trasfuse in documenti redatti da pubblici ufficiali che rivestono quindi la forma dell’atto pubblico; per quanto riguarda le altre dichiarazioni dei terzi, il problema sussiste: di solito si utilizza l’atto notorio6, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà7, la perizia giurata8.

Tuttavia, sul punto specifico, registriamo che la stessa Corte di Cassazione (cfr. cass. sentenza n. 703 del 29 novembre 2006, dep. il 15 gennaio 2007) aveva già affermato che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative essendo, viceversa, priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale, trovando ostacolo invalicabile, nel contenzioso tributario, la previsione dell’art. 7, c. 4, del D.Lgs. n. 546/1992 e ciò perché altrimenti si finirebbe per introdurre nel processo tributario (eludendo il divieto di giuramento sancito dalla richiamata disposizione) un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato ma, anche costituito al di fuori del processo. Posizione confermata anche successivamente (cfr. cass. sentenza n. 16348 dell’8 aprile 2008, depositata il 17 giugno 2008)

E sempre la Corte di Cassazione (cfr. cass. sentenza n. 14328 del 19 giugno 2009, ud. del 28 maggio 2009), proprio in ordine all’efficacia probatoria della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ha rilevato che nessuno può costituire titoli di prova a favore di se stesso, essendo giustificato il sospetto che chi affermi o neghi un dato fatto possa farlo anche contro la verità, mosso dal proprio interesse, con la naturale conseguenza che la prova a favore può provenire soltanto da terzi mentre una dichiarazione o un documento provenienti da un soggetto possono essere solo titoli di prova contro di lui9.

La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7107 del 20 luglio 1998, ha affermato che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, quanto lo stesso atto notorio, devono essere considerati documenti la cui libera valutazione da parte del giudice deve essere in concreto ammessa ogni volta che la dichiarazione venga resa non già da una delle parti, ma da un soggetto estraneo al processo che attesta un fatto rilevante ai fini della decisione. La principale differenza fra atto notorio e dichiarazione sostitutiva del medesimo consiste nel fatto che il primo assolve alla funzione di far conoscere fatti, stati e qualità personali che sono a diretta conoscenza del dichiarante, e che non risultano in altro modo noti alla Pubblica Amministrazione, mentre la seconda mira a portare a conoscenza della Pubblica Amministrazione circostanze a questa già risultanti in propri atti.

Ricordiamo che sempre la Cassazione, con la sentenza n. 5154 del 6 aprile 2001, ha affermato che “… non può attribuirsi valore di prova all’atto notorio, precostituito al processo al di fuori di qualsiasi contraddittorio con l’avversario, né tale atto può implicare un’inversione dell’onere della prova, che deve essere espressamente prevista da una norma positiva e non può derivare esclusivamente dalla mera iniziativa di parte“. In pratica, il pieno valore probatorio dell’atto notorio resta limitato al fatto che la dichiarazione sia stata resa in presenza di un pubblico ufficiale, ma non si estende alla rispondenza alla verità delle circostanze indicate nell’atto stesso.

E con la sentenza 26 gennaio 2015, n. 1290, la Corte di Cassazione ha confermato che “l’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà che, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di efficacia in sede giurisdizionale, trova, con specifico riguardo al contenzioso tributario, ostacolo invalicabile nella previsione dell’art. 17, comma 4, del d.lgs. 546 del 1992, giacché finirebbe per introdurre nel processo tributario – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (Cass. 15 gennaio 2007, n. 703; 17 giugno 2008, n. 16348; 19 marzo 2010, n. 6755; 24 gennaio 2013, n. 1663).

24 agosto 2016

Gianfranco Antico

1 Sul tema cfr. ANTICO, Il valore delle dichiarazioni di terzi: la posizione della giurisprudenza, in Il fisco, n. 37/2007, pag. 1-4077.

2 Ai sensi degli artt. 203 e 267 del c.p.p., come riformulati dagli artt. 7 e 10 della Legge 1.3.2001 n. 63.

3 Fra le altre, Cass. sent. n. 28004 del 30 dicembre 2009 (ud. del 10 novembre 2009), secondo cui la prova testimoniale vietata nel giudizio tributario, sancita dall’art. 7, c. 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, si riferisce “alla prova testimoniale quale prova da assumere nel processo con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento anche sul conto di un determinato contribuente (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51)”. Tuttavia, “tali dichiarazioni, proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali semplici elementi indiziari, il cui valore può essere sempre contestato dal contribuente nell’esercizio del suo diritto di difesa; conseguentemente, le dichiarazioni di terzi raccolte dalla Polizia tributaria ed inserite nel processo verbale di constatazione non hanno natura di testimonianza (quand’anche siano state, come nella specie, già rese in seno a procedimento penale), bensì di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative, sfornite, pertanto, ex se, di efficacia probatoria, con la conseguenza che esse risultano del tutto inidonee, di per sé, a fondare un’affermazione di responsabilità del contribuente in termine di imposta, potendo soltanto fornire un eventuale ulteriore riscontro a quanto già accertato e provato aliunde in sede di procedimento tributario (cfr. Cass. n. 3526/2002) od avere un valore probatorio proprio degli elementi indiziari, i quali possono concorrere a formare il convincimento del giudice, ma non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione (Corte Cost. sent. n. 18 del 2000, cfr. anche Cass. nn. 903/2000, 4269/2000)”; Cass. sent. n. 12763 del 10 giugno 2011 (ud. del 2 febbraio 2011), con cui la Corte di Cassazione ha ritenuto che il divieto di assunzione di talune fonti di prova (giuramento e prova testimoniale) non implica l’inutilizzabilità delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione (ovvero rese in favore del contribuente) nella fase procedimentale e rese da soggetti terzi rispetto al rapporto giuridico d’imposta, dovendosi attribuire alle medesime valenza di elementi indiziari che, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza, possono assumere natura di presunzione anche ove desumibili dall’utilizzo come fonte di atti di un giudizio civile o penale. Prosegue la sentenza, affermando che è pacifico nella giurisprudenza della Corte (cfr., da ultimo, Cass., trib., 10 marzo 2010 n. 5746, la quale richiama “Cass. n. 903 del 2002 e n. 9402 del 2007“, ex multis) che detto “divieto” si riferisce soltanto “alla prova testimoniale da assumere nel processo” (“che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio“) ma “non implica … l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall‘Amministrazione nella fase procedimentale e rese da terzi e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente-parte e l’Erario“: “tali dichiarazioni“, infatti, hanno comunque “il valore probatorio proprio degli elementi indiziari” per cui “danno luogo a presunzioni” (costituenti prove dei fatti ex art. 2727 c.c. e ss.) “qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c.”. La “natura e la valenza di elementi indiziari, nel processo tributario, del contenuto delle dichiarazioni” dette, inoltre, “non muta” sia che la acquisizione delle dichiarazioni di terzi sia realizzata in via diretta in fase di verifica” sia nel caso in cui si utilizzino “come fonte gli atti di un giudizio civile o penale“. Il giudice tributario, infatti (Cass., trib., 14 maggio 2010 n. 11785), “nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione … del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.)“, deve (“in ogni caso“) verificare la “rilevanza” di quel “materiale” (anche di quello penale) nello ambito specifico” (tributario) “in cui esso è destinato ad operare“.

4 Cfr. Cass. (ordinanza n. 26067 del 5 dicembre 2011, ud. 8 novembre 2011) secondo cui anche il contribuente può produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale. Le risultanze emergenti da tali documenti non hanno valore probatorio pieno ma possono essere utilizzate solo quando trovino ulteriore riscontro nelle risultanze del processo.

5 Cfr. sul punto A. RICCIONI, L’ammissibilità ai fini probatori delle dichiarazioni rese da terzi in ambito extraprocessuale in rapporto al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, in Il fisco, n. 14/2003, fasc. n. 1, pag. 2120.

6 Cfr. Cass. n. 5154 del 6 aprile 2001, secondo cui “… non può attribuirsi valore di prova all’atto notorio, precostituito al processo al di fuori di qualsiasi contraddittorio con l’avversario, né tale atto può implicare un’inversione dell’onere della prova, che deve essere espressamente prevista da una norma positiva e non può derivare esclusivamente dalla mera iniziativa di parte“. In pratica, il pieno valore probatorio dell’atto notorio resta limitato al fatto che la dichiarazione sia stata resa in presenza di un pubblico ufficiale, ma non si estende alla rispondenza alla verità delle circostanze indicate nell’atto stesso.

7 Cfr. Cass. n. 7107 del 20 luglio 1998, secondo cui la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà quanto lo stesso atto notorio devono essere considerati documenti la cui libera valutazione da parte del giudice deve essere in concreto ammessa ogni volta che la dichiarazione venga resa non già da una delle parti, ma da un soggetto estraneo al processo che attesta un fatto rilevante ai fini della decisione. La principale differenza fra atto notorio e dichiarazione sostitutiva del medesimo consiste nel fatto che il primo assolve alla funzione di far conoscere fatti, stati e qualità personali che sono a diretta conoscenza del dichiarante, e che non risultano in altro modo noti alla Pubblica Amministrazione, mentre la seconda mira a portare a conoscenza della Pubblica Amministrazione circostanze a questa già risultanti in propri atti.

8 In particolare tale strumento viene utilizzato per la valutazione degli immobili e/o dei terreni. Cfr. Cass. n. 4437 del 19 maggio 1997 che ha escluso la possibilità di attribuire efficacia di prova legale alla perizia giurata depositata in giudizio da una parte, neppure rispetto ai fatti che il perito assume di avere accertato nel caso specifico. La Corte ha affermato che non essendo prevista dall’ordinamento la precostituzione fuori del giudizio di un siffatto mezzo di prova, ad essa può essere riconosciuto solo il valore di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo, il cui apprezzamento è affidato alla libera valutazione discrezionale del giudice di merito, ma della quale non è obbligato in nessun caso a tenere conto.

9 In senso conforme, Cass. sentenza n. 14065 del 20 giugno 2014 (ud. 14 aprile 2014) che ha ritenuto che l’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà che, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di efficacia in sede giurisdizionale, trova, con specifico riguardo al contenzioso tributario, ostacolo invalicabile nella previsione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art.7, comma 4, giacchè finirebbe per introdurre nel processo tributario – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (Cass. sent. n. 6755/2010)”.