Rimborso IVA: irrilevanti le violazioni formali

il Fisco non può bloccare la richiesta di rimborso IVA a fronte di violazioni meramente formali commesse dal contribuente

domanda-ctI giudici di merito, come pure la Corte di Cassazione, sulla scia della giurisprudenza comunitaria sono molto più attenti ai profili sostanziali dell’Iva. Le eventuali violazioni formali, ove non ostacolino la verifica della veridicità delle operazioni non sono sufficienti per negare il diritto al rimborso del tributo. Ciò nel rispetto del principio di neutralità quale caratteristica essenziale dell’Iva. L’orientamento è stato recentemente confermato dalla CTR della Lombardia (Milano) ed in particolare dalla sentenza 2011/2/2016.

Nel merito l’Agenzia delle entrate aveva negato il diritto al rimborso chiesto da un rappresentante fiscale (per l’anno 2007) di una società non stabilita nel territorio dello Stato. Le contestazioni riguardavano esclusivamente alcuni profili formali delle fatture di acquisto ricevute e oggetto di registrazione da parte del rappresentante fiscale.

L’orientamento comunitario circa l’irrilevanza dei profili formali è stato affermato dalla Corte di Giustizia UE con le sentenze C-95/07 e C-96/07. La Corte di Cassazione è sostanzialmente allineata all’orientamento con le sentenze nn. 24912/2011, 6925/2013 e 18924/2015. ’altra parte la scarsa rilevanza delle violazioni formali è stata riconosciuta anche dall’Agenzia delle entrate con la Circ. n. 16/E del 2016.

Nel caso in contestazione le violazioni riguardavano l’errata indicazione del numero di partita Iva e l’anagrafica del cliente riportati in fattura, il numero progressivo delle fatture e altre irregolarità. Il contribuente ha ampiamente dimostrato durante il contenzioso l’inerenza delle spese, l’afferenza e l’effettività delle operazioni che sono state realmente poste in essere. Conseguentemente il diritto alla detrazione non può essere negato avendo riguardo ai profili sostanziali.

Il diniego del diritto al rimborso avrebbe trasformato l’Iva assolta dalla società in un costo, con la conseguenza di equiparare un soggetto passivo di imposta ad un consumatore finale. La società, quindi, sarebbe rimasta incisa dal tributo pur avendo effettivamente posto in essere operazioni inerenti, cioè riconducibili nell’ambito dell’attività esercitata.

L’unica contestazione di merito ha riguardato la determinazione del corrispettivo (della base imponibile) fondata sull’antieconomicità delle operazioni. Anche in questo caso l’orientamento della giurisprudenza è univoco e sempre favorevole ai contribuenti. La base imponibile è sempre costituita dal corrispettivo con un numero limitato di deroghe espressamente indicate dall’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972. Le eccezioni riguardano l’autoconsumo, la destinazione a finalità estranee all’esercizio delle imprese, le operazioni permutative, etc. Al di fuori delle eccezioni tassativamente individuate l’Iva deve essere applicata ai corrispettivi. Introdurre nel sistema un principio che consente la rettifica ogni volta che l’operazione può essere considerata antieconomica significa, di fatto, l’affermazione di un criterio di determinazione della base imponibile diverso dal corrispettivo e quindi in evidente violazione rispetto alla disposizioni comunitarie.

Il collegio giudicante ha poi osservato l’irrilevanza, al fine di negare il diritto al rimborso, che il rappresentante fiscale non abbia posto in essere in Italia operazioni attive. Se il comportamento tenuto dal rappresentante fiscale non intende perseguire finalità fraudolente non sussiste alcuna ragione per negare il diritto al rimborso del tributo.

26 luglio 2016

Nicola Forte