Il transfer pricing si deve basare su transazioni similari, in caso contrario la comparabilità dei prezzi non è possibile

una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, favorevole al contribuente, ha stabilito che la determinazione del valore normale nei prezzi di trasferimento (cd. transfer pricing) deve basarsi su transazioni similari

daccordo_immagine

1. Premessa

Recentemente, la giurisprudenza di merito si è occupata di ricorsi presentati dai contribuenti per contrastare le contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate in merito alla normativa sul transfer pricing.

L’espressione transfer pricing si riferisce ai prezzi applicati aventi ad oggetto il trasferimento dei beni materiali ed immateriali ovvero ad operazioni di finanziamento o di prestazioni di servizi poste in essere fra società appartenenti allo stesso gruppo d’imprese multinazionali.

Tali transazioni possono intervenire sia con soggetti ubicati in Italia, sia con soggetti non residenti. Invero, la disciplina tributaria del “transfer pricing” elaborata dal legislatore italiano richiede necessariamente che una delle parti sia ubicata in un paese estero.

Esistono peraltro situazioni in cui è comunque conveniente, per soggetti italiani appartenenti allo stesso gruppo, attuare una politica di prezzi di trasferimento. Qualora la determinazione di tali corrispettivi non sia conforme al prezzo di libero mercato, ossia al prezzo mediamente pattuito in condizioni similari, per lo stesso tipo di prodotto o servizio con terze parti indipendenti, si verifica il fenomeno del trasferimento della quota parte di minor costo o di maggior ricavo in capo al soggetto collegato o controllato. In breve, si ritiene che il minor costo sostenuto dall’impresa collegata all’acquirente permetta a quest’ultima di realizzare o di trattenere un margine di utile che, di fatto, con tale risparmio, le è stato trasferito dalla propria controllante.

Le motivazioni che possono indurre all’alterazione dei prezzi nei rapporti commerciali infragruppo sono molteplici. Di fatto, nell’ambito tributario, la libera determinazione dei valori economici nel gruppo d’impresa permette un trasferimento artificioso di ricchezza imponibile fra le diverse giurisdizioni fiscali. Il fenomeno si incentra sulla discordanza fra il “valore normale di mercato” e quello “anormale” pattuito fra i soggetti legati da una coincidenza di soggetti giuridici ed economici e da una unitaria direzione dei risultati economici fiscali realizzati.

Con riferimento alle organizzazioni internazionali, sicuramente l’OCSE ha assunto un ruolo primario nel formulare metodologie di valutazione applicabili alla problematica dei prezzi di trasferimento, così come ha svolto attività informativa e di richiesta costante di applicazione di criteri omogenei alle Amministrazioni finanziarie dei vari paesi.

2. Una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia-Milano favorevole al contribuente

Con la sentenza n. 3591/2016 del 16 maggio 2016 (depositata in segreteria il 15 giugno 2016), la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia-Milano, ha accolto l’appello della società presentato per riformare una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che aveva confermato la legittimità di un avviso di accertamento in materia di transfer pricing.

In particolare, da quanto si legge nella parte relativa allo svolgimento del processo, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato alla società ricorrente di avere acquistato dalle proprie controllate cinesi dei beni a prezzi non corretti secondo la normativa sui prezzi di trasferimento. Per questo motivo, erano stati ripresi in aumento alcuni costi.

L’analisi effettuata dall’Agenzia delle Entrate per rettificare i prezzi si era basato sul criterio del “Cost Plus”, che prevede, nella comparazione delle transazioni, l’applicazione di un margine lordo ai costi di produzione.

Malgrado lo studio dell’Ufficio non avesse preso a riferimento soggetti comparabili con le due società cinesi, la Commissione Provinciale di Milano ha respinto il ricorso della società, sostenendo che il metodo utilizzato dai verificatori, per effettuare le rettifiche, non presupporrebbe l’identità dei beni e dei servizi oggetto dell’attività, ma richiederebbe esclusivamente la comparabilità di funzioni, rischi o investimenti. Pertanto, secondo i giudici milanesi, le aziende di comparazione selezionate sarebbero apparse idonee allo scopo, stante l’analogia funzionale, avuto riguardo a progettazione, produzione, assemblaggio, ricerca e prestazione di servizi, acquisti, distribuzione, marketing, management…

Non condividendo quanto sancito dai giudici di primo grado, soprattutto per il fatto che l’Ufficio non aveva assolutamente dimostrato quale fosse l’analogia funzionale tra le società prese a riferimento e quelle oggetto di controllo, la società ha impugnato in appello la relativa sentenza.

La Commissione Regionale ha quindi riformato il giudizio di primo grado, sostenendo che l’Ufficio non avrebbe effettuato un’analisi corretta, in quanto avrebbe posto a fondamento delle proprie determinazioni una pluralità di soggetti che nulla avevano in comune con le società cinesi controllate dalla ricorrente. Infatti, per la determinazione del prezzo di trasferimento delle transazioni controllate, sarebbe stata necessaria la comparazione di operazioni similari in termini di prodotto e mercato, mentre non sarebbe stato sufficiente affermare che vi fosse un’analogia funzionale, senza peraltro, dimostrarla.

Inoltre, al contrario della sentenza di primo grado, quella di appello in esame ha dato molto peso al fatto che la ricorrente ha dimostrato, tramite una perizia di un professionista, come la capogruppo italiana, se non avesse acquistato dalle controllate cinesi i beni, avrebbe sostenuto maggiori costi nel produrli direttamente in Italia. Pertanto, era chiaro come tali operazioni fossero state poste in essere, non per fini elusivi o evasivi, ma per necessità, ovvero per motivi di sopravvivenza, essendo andati “fuori mercato” i prezzi di produzione italiani.

La sentenza della Commissione Tributaria Regionale è assolutamente condivisibile per i seguenti motivi.

3. La normativa italiana sul “transfer pricing”

La disciplina dei prezzi di trasferimento in Italia è contenuta nell’art. 110. c. 7, D.P.R. n. 917/1986. Tale norma, rubricata “Norme generali sulle valutazioni“, dispone che: “I componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri […]. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e di collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti“.

Per la determinazione del valore normale, il comma 7 dell’art. 110, D.P.R. n. 917/1986, rinvia all’art. 9 dello stesso decreto.

Il terzo comma dell’art. 9, definisce il valore normale per i servizi come “il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi delle stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni e i servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni e i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore“.

Il concetto di valore normale definito legislativamente si uniforma al principio di libera concorrenza consigliato in via primaria dall’OCSE per la determinazione della congruità del prezzo di trasferimento. In breve, tale valore deve essere uguale o similare a quello che sarebbe stato pattuito per transazioni assimilabili da terze imprese indipendenti.

Al fine di verificare la correttezza della determinazione dei prezzi di trasferimento, sono stati elaborati alcuni criteri.

1. Metodi tradizionali basati sulla transazione

a) Metodo del confronto del prezzo

b) Metodo del costo maggiorato

c) Metodo del prezzo di rivendita

2. Metodi basati sugli utili

a) Metodo della ripartizione dei profitti globali

b) Metodo della comparazione dei profitti

c) Metodo della redditività del capitale investito

Il Ministero delle Finanze ha fornito utili indicazioni sul fenomeno del transfer pricing nelle ormai datate C.M. n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980 e n. 42/12/1587 del 12 dicembre 1981. Anche la Guardia di Finanza ha emesso le proprie istruzioni con la Circolare n. 1 del 2008.

Recentemente sono stati emessi il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 29 settembre 2010 prot. n. 2010/137654, la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E del 15 dicembre 2010 e la Circolare delle Dogane n. 16/D del 6 novembre 2015.

Alcuni di questi documenti sono stati diffusi a commento dell’entrata in vigore dell’art. 26 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, il quale ha previsto la possibilità per i contribuenti di predisporre la documentazione necessaria per giustificare le politiche dei prezzi di trasferimento e di comunicare il relativo possesso nella dichiarazione dei redditi, beneficiando così della mancata irrogazione di sanzioni in caso di un’eventuale rettifica (art. 1, comma 2-ter, del D.Lgs. 471/1997).

4. Conclusioni

La sentenza della CTR della Lombardia in esame conferma un principio fondamentale, ovvero che l’analisi dei prezzi di trasferimento si deve basare su elementi comparabili.

Infatti, viene sancito che è necessario che i soggetti presi a riferimento siano confrontabili.

In caso contrario, la comparabilità dei prezzi non è possibile.

Del resto, come chiarito dalla stessa Agenzia delle Entrate nei recenti provvedimenti sopracitati, l’analisi della comparabilità è l’elemento essenziale del modo di procedere, valido per ogni modalità di controllo adottata.

In particolare, tale analisi deve avere per oggetto:

  1. le caratteristiche dei beni e dei servizi;

  2. le funzioni svolte, i rischi assunti ed i beni strumentali utilizzati;

  3. i termini contrattuali;

  4. le condizioni economiche ed in particolare i lineamenti generali dei mercati di riferimento, siano essi di approvvigionamento, transito o sbocco;

  5. le strategie d’impresa.

Pertanto, secondo l’Agenzia delle Entrate l’analisi deve essere basata su elementi comparabili, altrimenti non è possibile effettuare le eventuali rettifiche.

La stessa giurisprudenza (Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 69 del 7 giugno 2011, tra l’altro esplicitamente citata dalla sentenza in esame) ha stabilito che l’Ufficio, per addivenire alle proprie conclusioni, deve scegliere un metodo di determinazione del prezzo più idoneo al caso, scegliere un mercato rilevante e scegliere i prodotti; scegliere degli indici di rilievo; effettuare i calcoli.

In caso contrario, vi sarebbe una violazione della normativa contenuta negli artt. 110, comma 7, e 9, comma 3, a cui il primo rinvia, del TUIR.

Tali conclusioni sono confermate anche dalle linee guida dell’OCSE. In particolare, analizzando quanto riportato nel paragrafo 2.23, si ricava che : “Sulla base dei principi menzionati al capitolo 1, la transazione sul libero mercato può essere paragonata a una transazione controllata (costituisce cioè una transazione comparabile sul libero mercato) ai fini del metodo del prezzo di rivendita se viene soddisfatta una delle due seguenti condizioni” e cioè non esistono differenze tra le transazioni comparate o sono possibili correzioni ragionevolmente adeguate per eliminare gli effetti di dette differenze.

Nella direttiva 2.41 si legge anche che “come nel caso del metodo del prezzo di rivendita, (vedasi paragrafo 2.28), quando esistono differenze sostanziali che incidono ulteriormente sui cost plus mark up ottenuti nel corso delle transazioni controllate sul libero mercato…. dovrebbero essere apportate le correzioni per tener conto di tale differenze. La misura e l’affidabilità di dette correzioni influenzeranno la relativa affidabilità delle analisi effettuate secondo il metodo del costo maggiorato applicato in determinati casi”.

In sostanza l’OCSE fa presente che, se le differenze fra i beni da confrontare sono molto rilevanti, si può dar luogo a modesti interventi correttivi, ma che se questi sono di grande misura, le analisi non possono essere considerate come affidabili.

Pertanto nel caso di cui trattasi, ove i beni delle transazioni controllate sono completamente diversi da quelli delle transazioni rilevate sul libero mercato, non è possibile effettuare un confronto del prezzo.

Tali considerazioni valgono anche nel caso in cui le attività esercitate dalle società prese a confronto siano comprese nello stesso codice ATECO.

Infatti, il relativo codice riclassifica le varie attività che vengono svolte in un medesimo settore (ad esempio, componistica auto), ma ciò non implica che vi sia una similarità.

Come sostenuto dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia del 9 luglio 2015, n. 3165/34/15, non è sufficiente, nella scelta delle società campione, basarsi sul codice attività ATECO, ma è necessario verificare anche l’oggetto dell’attività svolta dalle singole società.

Inoltre, tale tesi non cambierebbe neppure quando vengono utilizzati metodi alternativi a quelli tradizionali, quali quelli reddituali.

In merito, si ricorda che, con la sentenza n. 539/1/16 del 28 gennaio 2016, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia-Milano, ha respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, la quale aveva rettificato i prezzi utilizzando il criterio del “Transactional net margin method” (di seguito anche TNMM), che basa la comparazione delle transazioni sul loro utile netto.

In particolare, i giudici non hanno accolto l’appello dell’Ufficio, sostenendo che il metodo utilizzato dal contribuente, quello definito CUP, deve ritenersi preferibile, in quanto più affidabile, rispetto a quello definito TNMM.

Tale maggior affidabilità consiste nel fatto che il CUP si basa sul raffronto tra i prezzi praticati da un soggetto a un altro del medesimo gruppo, con quelli praticati dallo stesso soggetto a un altro estraneo al gruppo, ovvero fra un soggetto differente da quello “indagato”, ma analogo, e un terzo indipendente, pur sempre in relazione a beni o servizi comparabili.

In altri termini, tale metodo permette meglio degli altri di confrontare i prezzi in una situazione di libera concorrenza.

Inoltre, la CTR della Lombardia ha ritenuto che comunque i risultati ottenuti dall’Agenzia delle Entrate, applicando il metodo reddituale, fossero falsati dal ricorso ad un “panel” di soggetti comparabili inadeguato, inadatto per un corretto raffronto e per un affidabile ricostruzione della situazione della società ricorrente. Infatti, le società, le cui operazioni erano state prese in esame ai fini di un paragone, presentavano delle notevoli differenze strutturali rispetto alla contribuente accertata.

Sulla necessità della comparabilità delle transazioni, si è espressa, infine, anche la Corte di Cassazione (sentenza n. 15282 del 21 luglio 2015) che ha accolto i motivi del ricorso di un contribuente, il quale aveva impugnato una sentenza di una CTR, stabilendo che i giudici di secondo grado non avevano basato la propria decisione su un analisi delle differenze che vi erano nei prodotti presi a riferimento e in altri elementi.

8 luglio 2016

Fabio Gallio e Mario De Bellis