Gestione antieconomica: l'Agenzia delle Entrate non può contestare le scelte imprenditoriali!

Spesso il fisco sostiene l’antieconomicità di un’attività ma necessita un riscontro effettivo, operato sulla base di gravi e precise incongruenze, verificate in sede di accertamento ed eventualmente non chiarite dal contribuente, quali ad esempio… vediamo in quali casi l’Agenzia può contestare le scelte imprenditoriali.

comportamento entieconomico dell'imprenditore e accertamento fiscaleLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4345 del 04.03.2016, è tornata sul tema dell’antieconomicità della gestione aziendale come sintomo di evasione.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate notificava ad una società un avviso di accertamento con cui procedeva a recuperare a tassazione sul reddito di impresa dichiarato dalla parte il costo non documentato rappresentato da una nota di credito di curo 135.911,29 emessa in favore di un proprio affiliato a totale sconto di pregresse forniture di merci.

Impugnata dall’ufficio avanti alla Commissione Tributaria Regionale, la sentenza di primo grado era confermata dal giudice d’appello, il quale riteneva che, contrariamente a quanto assunto dall’Amministrazione appellante, l’operazione compiuta nella specie dalla contribuente, apparentemente priva di ragionevolezza economica, in quanto intesa a sostenere un operatore in difficoltà, non lo era tuttavia “da un punto di vista imprenditoriale”.

Secondo i giudici di secondo grado, infatti, premesso che le strategie aziendali attengono esclusivamente alla sfera dell’amministrazione dell’impresa, l’operazione andava invero ritenuta inerente

“per il solo fatto che il costo si pone come una scelta di convenienza per l’imprenditore, il cui fine è pur sempre quello di pervenire al maggior risultato economico”.

Nella specie l’imprenditore ne aveva evidentemente riconosciuto la convenienza, sicché la contestata emissione della nota di credito rappresentava un costo pienamente deducibile.

Nel ricorrere davanti alla Suprema Corte, l’Agenzia affermava allora che sussisteva vizio di omessa motivazione, dato che mancava nella sentenza sia “la valutazione complessiva del rapporto giuridico di imposta sottostante, sia del comportamento fiscale della contribuente”, oltre, in ogni caso, alla mancanza di una qualsiasi documentazione che provasse la realtà degli sconti e la circostanza che nell’anno di verifica il volume di acquisti operato dall’affiliato fosse stato completamente assorbito dalla nota di credito in contestazione.

Secondo i giudici di legittimità, tuttavia, il ricorso dell’Amministrazione era infondato.

Pur essendo vero, infatti, che, in sede di determinazione del reddito di impresa, l’accertamento dell’esistenza di attività non dichiarate, ovvero dell’inesistenza di passività dichiarate pucò essere effettuato dall’ufficio, nell’ambito della disciplina delineata dall’art. 39, . 1, lett. d, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, qualora si possa dubitare della sua attendibilità in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente.

E pur essendo scopo dell’attività di impresa il perseguimento di un lucro, non potendosi quindi considerare la rinuncia ad un credito un onere inerente e quindi deducibile, nondimeno, la sentenza della CTR non presentava in realtà alcuna mancanza sotto il profilo motivazionale, dato che aveva valutato l’operazione proprio sotto il profilo della sua convenienza commerciale per la contribuente, ritenendo che l’operazione non fosse imprenditorialmente inappropriata, dal momento che

“le strategie aziendali attengono esclusivamente alla sfera dell’amministrazione dell’impresa, che valuta la convenienza di effettuare o meno sconti, abbuoni su crediti vantati”.

 

In tal modo, il giudice di merito aveva quindi formulato un giudizio di fatto, che, dissentendo dal dedotto presupposto dell’antieconomicità dell’operazione, aveva invece considerato che la scelta posta in essere dal contribuente, ed in particolare lo stabilire se un debitore debba essere o meno agevolato mediante la concessione di sconti o abbuoni, appartenesse alla sfera insindacabile delle strategie imprenditoriali, in linea con la regola della business judgement rule.

L’Agenzia, secondo la Corte, formulava quindi una critica, non solo infondata, ma pure inammissibile, in quanto mirava a conseguire un nuovo e diverso apprezzamento delle risultanze fattuali, già negativamente valutate dal giudice di appello.

Infondata era inoltre, secondo i giudici di legittimità, anche la doglianza che l’Agenzia sollevava, lamentando che la CTR era pervenuta alla impugnata conclusione, ignorando che l’agevolazione era stata accordata in difetto di ogni documentazione e per un ammontare corrispondente all’intero volume degli ordinativi effettuato dal beneficiario.

Sotto tale profilo la Suprema Corte, riteneva che l’argomentazione non evidenziasse infatti, comunque, alcun vulnus motivazionale nell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per negare la legittimità della ripresa, considerato che il ragionamento che fa da sfondo alla decisione ruotava appunto intorno alla rilevata insindacabilità delle strategie operative adottate dall’imprenditore.

Se quindi la libertà di cui l’imprenditore gode nella conduzione dell’impresa può talora giustificare il compimento di scelte imprenditoriali apparentemente opinabili e se ciò, come visto, non determinava alcun vizio della decisione sotto il profilo motivazionale, perché “l’autonomia dell’impresa non incontra fiscalmente altro limite che quello dell’abuso di diritto”, i rilievi che l’ufficio sollevava in ordine alla certezza del rapporto, allorché si sostanziavano, come nel caso di specie, nel confutare la logicità della decisione piuttosto che la sua legalità, rientravano, ancora, nell’area della riconosciuta insindacabilità delle strategie imprenditoriali.

La ratio della decisione si sostanzia, in conclusione, a ben vedere, nel ritenere che non sia in questi casi sufficiente asserire che un’operazione di un imprenditore presenta aspetti che rendono problematico il comprenderne l’utilità in funzione della produzione del reddito, cui, per definizione, è orientata una società commerciale, occorrendo invece una valutazione più ampia, anche in senso temporale, dell’attività della società.

E’ noto che l’antieconomicità della gestione dell’azienda viene spesso individuata come un sintomo di sottofatturazione.

Vero è che la rivendita di beni sottocosto, o la contrazione del reddito mediante l’imputazione di costi eccessivi rispetto all’ordinaria attività di impresa, quando effettuata scientemente (non a caso la Corte, anche nel caso in esame, parla di abuso del diritto), comporta la possibilità per l’Ufficio di rideterminare induttivamente il reddito da sottoporre a tassazione.

Anche se l’imprenditore è libero di concludere buoni o cattivi affari, infatti, dei limiti devono comunque essere individuati.

Pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a parametri di “buon senso” imprenditoriale, è legittimo il sospetto che l’incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi una diversa realtà.

Tuttavia, come affermato dai giudici della Corte, la valutazione è in tal caso esclusivamente di merito e in quanto tale, laddove comunque motivata, esente da possibilità di censura in sede di legittimità.

La posizione dell’Ufficio, comunque, non deve rappresentare un’astratta posizione di principio, ma deve fondarsi su un riscontro effettivo, operato sulla base di gravi e precise incongruenze, verificate in sede di accertamento ed eventualmente non chiarite dal contribuente, quali, per esempio:

  •  la produzione costante di perdite consistenti in un arco temporale rappresentativo;
  •  il costante versamento, da parte dei soci, di finanziamenti infruttiferi con rinuncia alla restituzione;
  •  la mancata percezione da parte dei soci di somme dalla società, né sotto forma di utili, né di compensi amministratori, o stipendi.

La questione, come comunque ancora evidenzia la Corte, non potrà riguardare in tali casi la sufficienza o idoneità della motivazione dell’accertamento e quindi la sua legittimità, ma, semmai, la sufficienza o idoneità della prova dei fatti contestati e in particolare del confronto comparativo, nel merito, con le prove contrarie addotte dalle parti.

 

21 luglio 2016

Giovambattista Palumbo